di Walter Nardon
La nuova traduzione delle Lezioni di letteratura di Vladimir Nabokov (Adelphi, 2018) rimette nelle mani dei lettori un volume che in Italia mancava da troppo tempo e che nel suo genere, per felicità di intuizione e memorabilità di giudizio, ha pochi eguali. È uno dei libri che meglio possono spiegare a un lettore, intendo una persona che abbia già una qualche predisposizione per la lettura, per quale ragione si faccia letteratura e perché si senta ancora il bisogno di insegnarla; e lo fa naturalmente nel migliore dei modi, ossia senza parlare di tutto questo, lasciandolo intendere fra le righe di un discorso persuasivo.
Il libro nasce dalle lezioni scritte per il corso sui capolavori del romanzo europeo che Nabokov tenne alla Cornell University fra il 1948 e il 1958, prima che il successo di Lolita gli consentisse di lasciare l’insegnamento. Nato nell’aprile del 1899, Nabokov aveva già alle spalle una vita movimentata. Figlio di una famiglia nobile, ricevette un’educazione trilingue: russo, inglese e francese. Se crediamo al capolavoro che è l’«autobiografia rivisitata» di Nabokov, Parla, ricordo, il padre per un periodo ebbe timore che i figli parlassero meglio l’inglese del russo, e forse non a torto. Nel 1919, per sfuggire ai bolscevichi, la famiglia riparò a Berlino. Grazie a una borsa di studio Nabokov frequentò il Trinity College di Cambridge, in Inghilterra; si laureò nel 1922 senza portare con sé grandi ricordi. A Berlino, con lo pseudonimo di Vladimir Sirin, scrisse i primi romanzi in russo, come lo splendido Il dono, La difesa di Lužin, e Disperazione, destinati alla numerosa colonia di espatriati. Sopravvisse tenendo conferenze e dando lezioni, anche di tennis e di pugilato. La famiglia aveva perso tutto. Il padre, giurista ed esponente liberale nella breve stagione democratica russa, fu assassinato a Berlino nel marzo del 1922 durante una conferenza, mentre faceva scudo col suo corpo all’amico Miljukov davanti ai colpi dei sicari dei «fascisti russi». Nabokov nel 1925 sposò Véra Slonim, a cui sono dedicati quasi tutti i suoi libri, e più tardi cercò scampo dal nazismo a Parigi: nel 1940 i coniugi si imbarcarono per gli Stati Uniti.
All’epoca delle lezioni Nabokov era noto a un pubblico limitato. Qualche anno prima a Parigi aveva tenuto una conferenza davanti a poche persone, il cui unico successo per lui era stato l’aver intravisto, seduta in fondo alla sala, l’espressione assorta di James Joyce. Negli Stati Uniti, dopo sette anni divisi fra il museo di zoologia comparata dell’Università di Harvard (le farfalle e l’entomologia furono l’altra sua grande passione) e una scuola femminile, il Wellesley College, insegnò alla Cornell University di Ithaca (New York). Qui si tennero, appunto, le lezioni raccolte nel libro, che Nabokov scriveva e a cui faceva riferimento durante il corso, le stesse che faceva leggere davanti agli studenti alla moglie Véra nel caso in cui fosse costretto ad assentarsi per malattia. In quel periodo concluse Parla, ricordo e scrisse Lolita e Pnin, uno dei suoi romanzi più divertenti, forse quello in cui emerge con maggior vigore la sua componente umana, spesso nascosta dietro la prodigiosa padronanza della lingua e delle strutture letterarie. Fra i suoi allievi in quegli anni si trovava molto probabilmente anche Thomas Pynchon, che nel 1959 avrebbe fatto il suo esordio con un racconto, Pioggerella, apparso proprio sulla rivista «Cornell Writer».
L’edizione delle Lezioni di letteratura, postuma e condotta su manoscritti non rivisti dall’autore, è stata curata da Fredson Bowers nel 1980, con l’ormai storica Introduzione di John Updike riprodotta anche nella nuova traduzione italiana. A questo primo volume sono seguite le Lezioni di letteratura russa, sempre curate da Bowers, un libro forse ancora più appassionato, rivolto agli autori della lingua materna di Nabokov (Gogol’, Turgenev, il detestato, ma talvolta perfino imitato Dostoevskij – si veda Disperazione – quindi Tolstòj, Cechov e Gorki). Presi insieme i due libri rappresentano un antimanuale, ossia un vero manuale per tutti gli studenti, ma in fondo per ogni lettore.
2.
Incorniciato da due importanti saggi di carattere generale, Lezioni di letteratura tratta di sette autori: Jane Austen, Charles Dickens, Gustave Flaubert, Robert Louis Stevenson, Marcel Proust, Franz Kafka e James Joyce. Nabokov riassume e commenta un libro per ciascuno di questi autori, evidenziandone con estrema precisione stile e costruzione narrativa. La perentorietà dei suoi giudizi è leggendaria e ha fatto la fortuna dei suoi rari intervistatori in colloqui che, pubblicati in Intransigenze, non hanno perso forza. Se Schopenhauer chiamava Hegel «sicario della verità», per Nabokov Freud era anche peggio; così per lui Faulkner non è degno di essere chiamato scrittore, e al cospetto di Kafka «poeti quali Rilke, o romanzieri quali Thomas Mann sono nani, o statuine di gesso». Contrario a distinguere il contenuto dalla forma, così come alle interpretazioni storiche, sociologiche, psicanalitiche, nelle Lezioni è fermamente convinto che gli strumenti letterari siano sufficienti a comprendere quelle magnifiche «fiabe» che sono i romanzi.
La forza del discorso di Nabokov colpisce fin dalle prime pagine, uno stile che nei suoi romanzi si fa ancora più luminoso e che forma un tutt’uno con la sua concezione della letteratura, come si vede nel saggio introduttivo, Buoni lettori e bravi scrittori, che a volte compare a sproposito nei discorsi di chi esalta la letteratura come falsificazione. Per Nabokov la letteratura è una disciplina che, in virtù della forza della lingua e in mano ai grandi autori, favorisce la conoscenza modificando, per così dire, le nostre forme a priori della sensibilità fino a renderle più ricettive (il riferimento è a p. 38). Che cosa diventano, infatti, spazio e tempo nelle mani dei grandi autori? Swann davanti a una finestra, in mano a Proust? Il tempo in cui Leopold Bloom prepara la colazione per Molly nell’Ulisse? C’è una declinazione particolare del tempo e dello spazio in ogni grande libro, che dopo aver concluso l’ultima pagina resta dentro di noi.
Nel passo più equivocato di questo saggio, Nabokov rammenta che la letteratura non è nata quando un ragazzo neanderthaliano corse gridando: «Al lupo!, Al lupo!» avendo la bestia alle calcagna, ma quando il ragazzo uscì fuori da una valle con lo stesso grido senza avere alcun lupo a inseguirlo. «Tra il lupo della prateria e il lupo della bugia esiste un intermediario scintillante: quell’intermediario, quel prisma, è la letteratura». Che il lupo ci sia o meno (fatto non irrilevante su un altro piano: il troppo scherzare, segnala Nabokov, porta inevitabilmente il ragazzo a essere divorato), la letteratura è l’invenzione che fa sentire la presenza del lupo, che muta il colore delle lenti attraverso le quali ordiniamo la nostra esperienza e fa avvertire come presenti esperienze ritenute possibili, e perfino impossibili. Per questo, aggiunge Nabokov poco dopo, fra le tre espressioni che fanno grande un autore: «affabulatore, maestro, incantatore» a prevalere è proprio l’ultima, quella del sortilegio, ossia la magia della visione letteraria che si coglie non con il cuore o con il cervello, ma con il brivido che corre lungo la spina dorsale, «il fremito rivelatore» dell’arte, secondo l’immagine chiave delle Lezioni.
Il primo capitolo è dedicato a Jane Austen, che Nabokov non amava, come non amava le scrittrici; o meglio, non ne aveva trovata una all’altezza degli altri autori esaminati in questo corso. Si ricredette in parte grazie al consiglio del critico Edmund Wilson. In effetti, nell’analisi di Mansfield Park, oltre ai metodi di caratterizzazione adottati dall’autrice nella trattazione dei personaggi, emerge soprattutto il senso della misura con cui Jane Austen segue la vicenda, ad esempio la capacità di riassumere un discorso diretto rendendo, attraverso il ritmo e l’intonazione, la particolarità di un’espressione che viene solo riferita.
In Casa desolata di Dickens si trova già un’altra esperienza di scrittura, in cui l’incantatore supera le esagerazioni che tutti possono facilmente ricondurre al suo nome rendendo le pagine degne di lettura «al di là del riformatore, del romanzetto da due soldi, del ciarpame sentimentale, delle assurdità teatrali» (p.120). Se infatti l’impianto è discutibile, in numerosi passi Dickens mostra non solo una notevole sensibilità, ma anche la solida dote stilistica necessaria a tradurla con precisione sulla carta, che si tratti dell’interminabile battaglia legale Jarndyce vs Jarndyce – il pretesto sui cui si costruisce la trama del romanzo – del tema poliziesco o di quello dell’infelicità dei bambini, al quale Dickens sa dare una declinazione partecipe. Una delle sue invenzioni più sinistre, nota Nabokov, è quella di Skimpole, l’adulto programmaticamente irresponsabile, un dilettante della vita che passa con eleganza leggera e parassitaria da un invito all’altro, fingendosi bambino e condannando invece un personaggio indimenticabile, il piccolo Jo, a morte certa.
Se Dickens difetta un po’ di equilibrio, è tuttavia grande nelle immagini, quali la descrizione di un borgo sonnolento con un campanile, o i riflessi del sole sull’acqua fra le navi che entrano in porto.
Qualche lettore potrebbe pensare che queste evocazioni siano inezie sulle quali non vale la pena soffermarsi; ma la letteratura consiste proprio di queste inezie. La letteratura non consiste di idee generali, ma di rivelazioni particolari. La letteratura non riguarda qualcosa, ma è la cosa stessa, la quiddità. Se non c’è capolavoro, non c’è letteratura (p. 184).
Il lettore emotivo oppure, per ragioni opposte, lo studente universitario, potrebbero contestare le affermazioni di Nabokov considerandole troppo perentorie, frutto di una posizione ostentatamente idiosincratica. A questi si può replicare ricordando che la sicurezza dell’espressione qui dipende dalla pratica dell’arte e dalla riformulazione originale di una lunga esperienza di lettura, non dall’impressionismo o dall’adesione ai metodi della scienza della letteratura intesi come certificazioni di qualità di ogni analisi, per quanto maldestramente condotta. Al di là dell’amicizia contrastata e del lungo sodalizio epistolare con Edmund Wilson, Nabokov certo non era all’oscuro dei progressi della critica: Šklovskij, nato nel 1893 a San Pietroburgo, era suo concittadino, di sei anni maggiore di lui e aveva soggiornato a Berlino negli anni in cui vi risiedeva anche lui (nel 1923 vi pubblicò il suo Viaggio sentimentale); Bachtin era di quattro anni maggiore di Nabokov e Jakobson di soli tre, tanto per fare tre grandi nomi. Eppure la loro elaborazione teorica non ha mai turbato la sua autonomia.
Con un rovesciamento di prospettiva più frequente di quel che si pensi, vale sempre la pena di ricordare che colui che difende davvero il lettore non è tanto l’alfiere della metodologia più aggiornata, quanto proprio chi sostiene l’irriducibilità dell’esperienza di lettura, diffidando delle novità stagionali.
3.
Nel saggio su Flaubert, così come in quelli su Kafka o su Joyce, Nabokov si trova a casa: sono autori di cui condivide pienamente le scelte estetiche. La trattazione si fa così ancora più spedita, come succede nelle Lezioni di letteratura russa quando parla di Tolstoj e di Anna Karenina. Non che la sua analisi di Madame Bovary sia del tutto innovativa – alcuni aspetti stilistici, ad esempio, erano già stati messi in luce in modo memorabile da Albert Thibaudet – ma l’ammirazione per l’artista e l’affetto per l’autore, che qui vanno di pari passo, inquadrano felicemente l’attenzione per i «divini particolari» nel contesto del libro, producendo pagine che competono con l’oggetto dell’analisi. Ecco ad esempio il ritratto di Emma, da parte di Nabokov:
Una persona romantica, che vive mentalmente ed emotivamente nell’irrealtà, è profonda o superficiale a seconda della qualità della sua mente. Emma Bovary è intelligente, sensibile, relativamente istruita, ma ha una mente superficiale: il suo fascino, la sua bellezza e la sua raffinatezza non la salvano da una vena funesta di filisteismo. Le sue esotiche fantasticherie a occhi aperti non le impediscono di essere in fondo una borghese di provincia, aggrappata a idee convenzionali o che commette violazioni convenzionali di ciò che è convenzionale, e l’adulterio è un modo estremamente convenzionale di mostrarsi superiori alle convenzioni; e la passione per il lusso non le impedisce di rivelare un paio di volte, secondo la definizione di Flaubert, una durezza contadina, una vena di praticità contadina. (p. 206)
La sventura che rende Emma indimenticabile sta in questo: ciò che la circonda, a parte l’amore del marito – l’inetto Charles, ufficiale sanitario – è peggiore di lei. Nabokov analizza la grande scena dei comizi agricoli, che nel romanzo occupa trenta pagine, così come gli incontri con gli amanti Rodolphe e Léon, il farmacista Homais e il dolore di Charles: la qualità del libro è tale da renderlo quasi inespugnabile, al punto che è arduo chiedersi se si tratti o meno di un romanzo realista.
Probabilmente Flaubert appariva realistico o naturalistico un secolo fa a lettori educati sugli scritti di quelle autrici e di quegli autori sentimentali che Emma ammirava. Ma realismo e naturalismo sono concetti relativi: ciò che per una determinata generazione è naturalismo in uno scrittore, a una generazione successiva potrà sembrare sovrabbondanza di particolari incolori, e, a una generazione precedente, scarsità di particolari incolori. Gli ismi scompaiono; l’istico muore; l’arte rimane.
Riflettete molto attentamente su questo: un maestro della potenza artistica di Flaubert riesce a trasformare un mondo che immagina sordido, popolato di imbroglioni e filistei, di individui mediocri e gretti e signore capricciose in uno dei più perfetti esempi di narrazione poetica di tutti i tempi, e vi riesce armonizzando le varie parti, ricorrendo alla forza interiore dello stile, all’uso di accorgimenti formali come il contrappunto nel passaggio da un tema a un altro, le premonizioni, i riecheggiamenti. Senza Flaubert, non avremmo avuto Marcel Proust in Francia, né James Joyce in Irlanda. In Russia, Cechov non sarebbe stato Cechov. (pp. 223-224).
Ciò che Nabokov pensa della realtà nella letteratura può essere facilmente intuito nelle pagine dedicate al confronto fra Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr Hyde di Stevenson e La metamorfosi di Kakfa che, a fronte della riuscita di entrambi i racconti, si risolve tutto a favore del secondo. È un passo per certi versi esemplare. Un botanico e un turista arrivati per caso in un parco cittadino chiamano ciò che li circonda “realtà”, anche se ciascuno intende qualcosa di decisamente diverso rispetto all’altro; e diverso ancora sarebbe il risultato della stessa osservazione da parte di un contadino. Qui non si tratta soltanto di punti di vista ma, soggettivamente, di tre mondi diversi, di tre realtà diverse. «C’è solo un modo per ritornare alla cosiddetta realtà oggettiva: prendiamo tutti quei mondi individuali, li mescoliamo ben bene, raccogliamo una goccia della miscela, e la chiamiamo realtà oggettiva» (p. 356). La realtà dipende dunque dalla qualità della miscela.
E in questa, naturalmente, si può avvertire di tutto, la responsabilità, il desiderio, la pena e la più assurda follia. I personaggi grotteschi di Gogol’, come quelli di Kafka – nota Nabokov – fanno parte di questo mondo quanto i loro avversari disumani e lottano ammirevolmente per uscirne; Jekyll-Hyde invece, sembra muoversi in una Londra convenzionale, a cui i suoi avversari appartengono senza distinguersi, usciti più dal ricordo di una pagina di Dickens, che dalla casa in cui il medico consuma il proprio destino.
4.
Veniamo a Joyce e Proust. Sul secondo Nabokov, fatte alcune precisazioni sull’opera (non è un’autobiografia, il narratore alla fine scriverà sì un libro, ma non si tratta della Recherche), si muove con inusuale circospezione, registrando la straordinaria mobilità dello stile tendente alla dilatazione della frase, in cui le sensazioni si intensificano mentre il dialogo e la descrizione, parti di solito contrapposte, tendono a fondersi creando un elemento unico.
«Proust è un prisma. Il suo scopo, o lo scopo del romanzo, è quello di rifrangere e, rifrangendo, ricreare un mondo in retrospettiva» (p. 300).
L’analisi è come sempre molto efficace ma, mentre si sofferma sulle scelte stilistiche di Proust, sull’abbondanza di metafore che si legano fra loro su livelli diversi, Nabokov sembra cercare qualche appiglio sicuro, come quando vede in un passo di Gogol’ o in Tolstoj una possibile anticipazione di ciò che sta trattando. Per quanto la ricostruzione di Dalla parte di Swann sia apprezzabile, e per quanto la descrizione del passo della madeleine nell’infuso di fiori di tiglio e ancor più la ricostruzione delle pagine rivelatrici del romanzo nella Matinée dai Gueremantes siano magnifiche, c’è qualcosa che lo tiene lontano da Proust, di cui condivide perfettamente lo scopo e meno i mezzi. Certo, varrebbe la pena di ricopiare semplicemente, senza ulteriore commento, le ultime tre pagine del saggio su Proust, in cui si parla del fine della creazione artistica e del modo in cui possiamo riappropriarci della realtà da cui la conoscenza convenzionale ci allontana giorno dopo giorno: sono tra le più belle del volume, ma preferirei considerarle qui trascritte e dire invece qualcosa su Nabokov.
C’è una differenza fondamentale tra il modo di introdurre i personaggi di Proust e quello di Joyce: Joyce prende un personaggio compiuto e assoluto, noto a Dio e a Joyce, e poi lo divide in frammenti che dissemina nello spazio-tempo del libro. Il buon lettore raccoglie le tessere e un po’ alla volta le unisce ricostruendo il puzzle. Proust, al contrario, sostiene che un personaggio, una personalità, non è mai conosciuto in modo compiuto, ma sempre in modo relativo. Non lo frammenta, ma lo mostra attraverso le opinioni che di lui hanno gli altri personaggi, sperando, dopo aver esposto una serie di prismi e ombreggiature, di unirli in modo che formino una realtà artistica. (p.311)
Nonostante le opere di Nabokov non siano prive di rifrazioni complesse, fino al caso limite di Fuoco pallido, il suo lavoro è più vicino al primo modo di procedere. Forse anche per questo il saggio su Joyce non solo è il più lungo del volume, ma lo è tanto (centodieci pagine), da poter essere letto quasi come una piccola monografia, una breve e personale guida alla lettura dell’Ulisse.
Se si eccettua il caso di Finnegans Wake, opera che in Intransigenze definisce «una massa informe e opaca di folklore fasullo, un budino freddo», Joyce è lo scrittore che Nabokov apprezza con meno riserve. Anzi, a parte il fastidio per l’insistenza del romanzo sui dettagli sordidi, la sua analisi dell’Ulisse è piena di lodi: «In questo bellissimo libro, da cosa nasce sempre cosa» (p. 443).
Nabokov respinge la lettura che cerchi nell’Ulisse scrupolosi parallelismi omerici: sono più vaghi e generici di quanto molti critici hanno inteso vedere. I temi della lunga giornata del 16 giugno 1904 per lui sono altri: «il passato irrimediabile», «il presente tragico e assurdo», «il futuro patetico». In fondo, fra i vagabondaggi del giovane insegnante e poeta Stephen Dedalus e le fantasticherie di Molly Bloom, ciò che conta è il percorso umano di Leopold Bloom, un piazzista di pubblicità di trentotto anni con una moglie infedele, una figlia, Milly, che studia lontano, e in mente il ricordo del figlio Rudy morto dieci anni prima, dopo soli undici giorni di vita. «Ecco, questo è il tema principale: Bloom e il destino». Il formidabile tour de force stilistico che porta Joyce a scrivere ogni capitolo in modo diverso non impressiona più di tanto; anche il flusso di coscienza, che a partire dal terzo capitolo nel libro è impiegato in misura sempre maggiore, non è che un espediente tecnico di cui Joyce si serve a meraviglia: ma non è altro. Anzi, l’espediente è convenzionale nella misura in cui, nota Nabokov, noi pensiamo molto spesso per immagini, non per parole. Ciò che emerge è l’umanità di tutti questi personaggi, ed è proprio questo il risultato primo dell’arte di Joyce, al punto che un episodio quotidiano come quello in cui Leopold prepara la colazione per Molly in mano sua diventa «uno dei brani più mirabili di tutta la letteratura» (p.422). L’analisi di Nabokov è dettagliatissima, al punto da affrontare uno dopo l’altro i vari esempi attraverso i quali Joyce sincronizza l’azione dei personaggi (ricordiamo che tutto avviene in una sola giornata): l’opuscolo che Bloom getta nel fiume Liffey, che ricompare poi più volte, gli uomini-sandwich, il passaggio del giovane cieco accordatore di pianoforti, altri elementi visti in momenti diversi dai vari personaggi.
Mi permetto di insistere. Se il modo di procedere delle Lezioni, sempre concentrato sulle strutture e sullo stile, può apparire lontano dai contenuti emotivi della scrittura è vero invece il contrario: il libro dimostra che lo studio e la padronanza dell’arte si rendono indispensabili proprio per l’espressione dei contenuti più difficili da maneggiare. Nabokov spiegava ai suoi studenti il funzionamento di un meccanismo fragile come quello della letteratura con straordinaria precisione e pazienza. Ecco il commento all’episodio della giovane Gerty MacDowell sulla spiaggia di Sandymount che, fra molte fantasticherie, incarna perfettamente una convenzione che lei assume come ideale:
Quando diciamo cliché, stereotipo, trita frase pseudoelegante, e così via, intendiamo dire, tra l’altro, che quando quella frase è stata usata per la prima volta in letteratura era originale e aveva un significato incisivo; e infatti è diventata trita proprio perché essendo così vivida e ben fatta, e attraente, in seguito è stata usata e riusata fino a diventare uno stereotipo, un cliché. Possiamo pertanto dire che i cliché sono frammenti di prosa defunta e di poesia marcescente. Comunque, la parodia ha delle interruzioni. Cosa fa Joyce in questo capitolo? Fa in modo che quella roba defunta e putrefatta sveli qua e là la sua origine vitale, la sua prima freschezza. Qua e là la poesia è ancora viva. La descrizione della funzione religiosa che la coscienza di Gerty recepisce in trasparenza ha una bellezza autentica e un fascino luminoso e commovente, così come l’ha anche la dolcezza del crepuscolo; e naturalmente la descrizione dei fuochi d’artificio – il brano culminante citato sopra – è davvero emozionante e bella: è la freschezza della poesia che assaporiamo prima che diventi un cliché.
Ma Joyce riesce a fare qualcosa di ancor più ingegnoso. Noterete che quando inizia il flusso di coscienza di Gerty, il suo pensiero si concentra soprattutto sulla sua dignità di creatura vivente e sul vestire con gusto, perché è una devota seguace delle mode lanciate dalle riviste «Woman Beautiful» e «Lady’s Pictorial»: «Una blusa blu elettrico tinta in casa (perché il «Lady’s Pictorial» prevedeva che il blu elettrico sarebbe diventato di moda), con elegante scollo a V fino all’attaccatura del seno e taschino per fazzoletto (nel quale lei teneva sempre un fiocco di bambagia imbevuto del suo profumo preferito perché il fazzoletto rovinava la linea della blusa); la gonna trequarti blu marino con lo spacco per agevolare il passo metteva in risalto alla perfezione la sua figura snella e aggraziata», ecc. Ma quando, contemporaneamente a Bloom, vediamo che la poverina è incurabilmente zoppa, proprio i cliché dei suoi pensieri acquistano una sfumatura commovente. In altre parole, Joyce riesce a costruire qualcosa di reale – pathos, pietà, compassione – dalle formule defunte che si diverte a parodiare (pp. 473-474).
L’episodio nel romanzo è indimenticabile per molte ragioni, ma la lezione è esemplare.
Nabokov amava le costruzioni narrative complesse: le sue sono popolate di alcuni fra i ritratti psicologici più contorti della letteratura, tuttavia sia nei romanzi che nei saggi l’insieme è sempre tenuto saldamente in mano da una straordinaria capacità di orchestrazione e da uno stile che ne fa uno degli esempi più alti della scrittura in prosa. Gli eventi storici che hanno tormentato i suoi primi quarant’anni di vita hanno prodotto nella sua opera influssi per lo più obliqui, ma la lettura di Parla, ricordo può togliere ogni dubbio a chi lo pensi sostenitore della sola nostalgia di un mondo perduto, rivelando invece la quantità di temi che è in grado di toccare: Il dono, Fuoco pallido, Disperazione, Pnin sono romanzi perfettamente riusciti; quattro, cinque degli altri non sono molto lontani. E ha scritto Lolita.
Nota. Il libro di cui si parla è Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura, Milano, Adelphi, 2018. Gli altri due libri citati nell’articolo sono: Parla, ricordo, Milano, Adelphi, 2010; Intransigenze, Milano, Adelphi, 1994. I romanzi di Nabokov qua e là menzionati sono stati tutti ripubblicati da Adelphi. I riferimenti in merito a Thomas Pynchon studente alla Cornell University si trovano nell’intervista di Alfred Appel jr. a Nabokov in Intransigenze, edizione citata, pp. 101-102 (sul tema in rete si possono reperire anche altri saggi). Il giudizio di Nabokov su Finnegans Wake, si trova poco prima, a p. 96. Il libro di Albert Thibaudet a cui si allude è la vecchia e insuperata monografia Gustave Flaubert pubblicata nell’originale francese nel 1935 (tr.it. Gustave Flaubert, Milano, il Saggiatore, 1960). (wn)
[Pubblicato in “Nazione Indiana” il 19 gennaio 2019]