di Antonio Di Seclì
Nel 1969 Taurisano, tutta la Comunità – i singoli cittadini, la Chiesa, i gruppi politici e l’allora Amministrazione – per la prima volta commemorò a 350 anni dalla morte la figura del suo cittadino più egregio, il filosofo Giulio Cesare Vanini, con un Convegno tenuto allora nel cinema Caroli.
Al Convegno parteciparono, tra i tanti, tre intellettuali di vaglia, che rispondevano ai nomi di Emil Namer, Andrzej Nowicki e Antonio Corsano.
A costoro va riconosciuto il merito primo di aver creduto nella rinascita della proposta filosofica vaniniana. E, anche se oggi i tre pensatori non pensano e non respirano più tra noi e non possono perciò più contribuire al dibattito vaniniano, perché per noi mortali la dimensione del tempo individuale è legata ai ritmi della natura, ci rimane sempre il portato dei loro studi che, in continuità, sollecitano le riflessioni dei nuovi studiosi.
Nel 1969 un allora generoso gruppo di trentenni di Taurisano aveva spinto, a beneficio di tutta la Comunità, per la ripresa degli studi e per la realizzazione del primo Convegno al quale tutti gli schieramenti politici presenti in Consiglio comunale aderirono, attivamente, creando un’insolita saldatura tra l’Amministrazione comunale, la politica, la cittadinanza e l’intellighenzia; unione che ai giorni nostri diventa una virtù sempre più rara da registrare.
Vanini era stato condannato al rogo il 9 febbraio 1619 a Tolosa e da allora una sorta di damnatio memoriae si abbattè sul giovane figlio di Terra d’Otranto.
Il pensiero e gli studi delle sue due uniche opere a noi pervenute circolavano per l’Europa sostanzialmente nello stretto ambito della respubblica delle lettere e veniva coltivato sovente a livello latomico. Attraverso mille rivoli carsici, però, il suo insegnamento connotato da profondo sentimento di libertà e di verità è approdato, miracolo dell’intelligenza umana, nelle nostre case, nelle nostre biblioteche, nelle nostre scuole.
Negli ultimi 50 anni, ovvero a seguito di quel primo Convegno, un’attività inusuale ha restituito al pensiero di Vanini lustro: sono state ripubblicate più edizioni delle sue opere, anche all’estero, e sono altresì state tradotte dal latino; è nata a Taurisano una Domus Vaniniana, nel medesimo palazzotto che la tradizione vuole proprietà dei Vanini; la bibliografia su Vanini è cresciuta oltre ogni immaginazione; è stato introdotto su diversi manuali scolastici di filosofia lo studio del pensiero vaniniano, ufficializzandone la valenza; nell’aprile del 2016 venne inaugurato in piazza Castello, luogo il più centrale di Taurisano, un monumento a Vanini: gesto che finalmente lo riconosceva come patrimonio e gloria collettiva della Comunità taurisanese, e universale. E tanto altro ancora.
Ma in questi giorni di febbraio in cui in vari modi si ricorda e si è celebrato, prima di tutto con il terzo Convegno Internazionale, l’uomo Vanini e il suo pensiero, ci piace ricordare una piccola disputa in versi, originata da Ugo Orlando, poeta dialettale, concittadino di Vanini, in arte Mastro Scarpa, contro Nicola De Donno che proprio in occasione del Convegno del 1969 declamò ai presenti una sua composizione in vernacolo: “Ggiuliu Cesare Vanini”.
Il classico sonetto in endecasillabi, due quartine e due terzine ovviamente, Nicola De Donno lo dedica ad Antonio Corsano, suppongo per il semplice motivo che quest’ultimo fosse taurisanese in primo luogo; ma può anche darsi, ancora, per il fatto stesso che De Donno, per noi riconosciuto poeta, fosse un filosofo stimato da Corsano; tant’è che, allorquando nel 1945 Corsano su sollecitazione di Mario Sansone raggiunse Bari per ricoprire la cattedra di storia della filosofia, Nicola De Donno fece parte di quel cenacolo di discepoli a Corsano più vicini insieme con Giovanni Papuli e altri ( v. D. M. Fazio, Cenni biografici di Antonio Corsano, in G. Papuli (a cura di), Verità e coscienza storica …, Congedo editore, Galatina 1993, p322 ).
Ecco il sonetto ( ora in Nicola G. De Donno, Cronache e paràbbule, Edizioni del Centro librario, Pompei 1972, p.190):
Ggiuliu Cesare Vanini . (ad Antonio Corsano)
Mal parlava, lu fessa! de li Preti,
e ccerte barzellette ca scrivìa
èrane, an capu soa, filosofìa,
e îne ffare, a cci dorme, de ausapeti
Decusì, dalli e dalli, nu tte creti
Ca la putìa scampare, la putìa:
e nfatti lu nnasàu la Pulizzìa:
cce puzzàa libbertinu e, passa, erèticu.
Lu bboja lu purgàu cu lla turtura,
e se scrupìu quant’era trastularu;
e ppoi, cu sse castica e sse mmatura,
li tajara la lingua cu llu zzaru,
li mmitara na fòcara a ccuḍḍura
e amme! Fattummeste verbuncaru.
In sintesi, ecco una proposta di libera interpretazione dei versi : “Il fesso sparlava dei preti e contrabbandava per filosofia alcuni pensieri che erano piuttosto delle barzellette con lo scopo di stuzzicare chi se ne stava tranquillo.// Così facendo non è possibile pensare che la facesse franca; infatti la polizia annusò il puzzo di libertinismo e di eresia (insito in quel che diceva).// (quando allora) il boia lo torturò, venne immediatamente a galla che fosse un imbroglione e, quindi, per emendarsi e maturare,// gli fu mozzata la lingua con un coltello di acciaio, gli misero tutt’intorno un rogo e … amen! (verbum caro factum est) lo arsero ( gli fecero la festa!).
Com’è evidente, conoscendo anche le convinzioni di De Donno, il sonetto poggia tutto sull’ironia, sul doppio senso, con l’intento di esorcizzare il dolore e l’irritazione che il poeta di Maglie provava per la crudele sorte toccata all’autore dell’ Amphiteatrum (1615) e del De Admirandis (1616).
In verità, mi sembra anche di comprendere che il registro utilizzato da De Donno, apparentemente censorio, somigli molto a quello utilizzato nella sua opera da Vanini medesimo. Questi, fingendo di criticarli, diffondeva i nuovi saperi in contrapposizione a quelli immutabili dell’ortodossia. Così che, attraverso l’apparente finzione di criticare e combattere la scienza, rivelava in realtà il proprio pensiero oppositivo e innovatore.
In questo ambiente, convegnistico e poetico, si inserisce la penna, l’estro infiammabile e la sensibilità caparbia di Mastro Scarpa, sollecitati dall’equivoco generato dall’incomprensione.
Chi è costui? E’ un bravo poeta dialettale, molto noto a Taurisano agli ultracinquantenni. Tra le nuove generazioni al contrario è poco conosciuto o noto soltanto per qualche sua composizione fortemente caratterizzata. Ha avuto e conserva il merito di aver valorizzato il vernacolo in ambito poetico, sollecitando in molti l’interesse per questa lingua e per questa poesia, affrancando creatività nuove, nonché la soggezione o ancor più la sudditanza nei riguardi della lingua nazionale.
Si chiamava Ugo Orlando (Taurisano 1910 – 1996) e dal secondo dopoguerra in poi ha allietato e descritto fatti, persone, vizi e virtù della Comunità taurisanese.
Con Antonio Resta ho curato qualche anno fa, l’intera raccolta “Poesie” del nostro ( Edizioni Grifo, Lecce 2016/I edizione, 2017/II edizione ) e nel gennaio del 2018 in “Il delfino e la mezzaluna” (periodico della Fondazione Terra d’Otranto, a.V,nn. 6-7 ) è uscito un mio contributo dal titolo “Ugo Orlando. Poesie”.
Mastro Scarpa è stato un poeta autodidatta, naturale, vero. Utilizzava il dialetto di Taurisano svincolandolo certamente da ogni pregiudizievole subordinazione alla lingua italiana, come avrebbe potuto dire Donato Valli.
Quanto alla diatriba insorta verso Nicola De Donno, a proposito del sonetto “Ggiuliu Cesare Vanini”, null’altro conosciamo se non la poesia di Orlando dal titolo “Vanini e la critica di De Donno”, perché non ci è stato possibile cercare, con rammarico, una traccia eventuale di carteggio e di chiarimento tra Orlando e De Donno tra le cose custodite dai famigliari a Taurisano; né abbiamo cercato qualcosa nell’archivio di De Donno.
Ecco la composizione:
Vanini e la critica di De Donno [1969]
Sutta nnu celu nasce, simminatu
Te tittature nìure e inquisizioni
Lu giovine Vanini, spurtunatu,
te nove mete amante e nnove azzioni.
Te nna nazione a ll’aḍḍa se spustava,
canciannu cunnutati a ḍḍunca scia,
tuttrine fàuse e vere preticava,
ci sa percè, ma cu filosofia.
Era sapiente, dottu, era avvocatu,
cu ssette lustri scarci ca tinia;
era stutiosu e sspintu te ci è nnatu,
caru De Donnu, a lla filosufia!
Era, se tice, mèssciu te latinu,
preticature a quiḍḍi tiempi raru,
no’ certamente fessa o libertinu,
comu ticisti tie, nè trastularu!
Sàggiu, valente e riccu te loquenza,
giòvine spiritosu, intraprendente;
ci sape cc’era ssutu te ḍḍa scienza,
ci l’ia scampata viu, naturalmente.
E tie vinisti qquai cu nn’arbaggia
ticennu ca Vanini era mbrujone.
Caru De Donnu meu, sbajasti via;
taja lu vastu a ḍḍa composizione!
A beneficio di chi non ha dimestichezza con il dialetto taurisanese, riporto una libera parafrasi, poggiata più sul senso generale del messaggio che sulla singola parola:
“Nasce sotto un cielo disseminato di perfide dittature e inquisizioni, il giovane Vanini, sfortunato, innamorato di nuove mete e nuove esperienze.//
Si muoveva da una nazione all’altra, camuffando i connotati in ogni luogo in cui andava, predicava false e vere dottrine, chissà per quale ragione; ma con filosofia!//
Era sapiente, dotto, era difensore [della filosofia], con meno di sette lustri di vita che aveva; era studioso e nato per studiare, caro De Donno, la filosofia!//
Era, come si dice, maestro di latino, predicatore come pochi in quei tempi, non certamente fesso o libertino, come hai detto te, né ciarlatano!//
Saggio, valente e ricco d’eloquenza, giovane spiritoso, intraprendente; chissà cosa avrebbe partorito la sua sapienza, se fosse rimasto in vita, naturalmente.//
Invece tu sei venuto qui [a Taurisano, nel Convegno] con un’alterigia [fuori luogo]/ dicendo che Vanini era imbroglione./ Caro il mio De Donno, hai sbagliato via;/ libera da ogni molestia quella composizione! //
Allo stato dei fatti, risulta che Orlando abbia criticato De Donno, ma non sappiamo neppure se il poeta di Maglie abbia mai ricevuto le sei quartine che lo accusavano.
Come è possibile constatare dall’analisi dei versi dell’Orlando, appare evidente che questi non abbia compreso l’ironia dotta di De Donno, equivocando certamente su termini come “lu fessa!”, “cce puzzàa libbertinu” e “trastularu”.
Questi termini lo hanno fatto inalberare, adontato da sacro amor patrio a fronte delle offese che il concittadino filosofo dovette subire in pieno Convegno di commemorazione e di studi da un forestiero sgarbato e presuntuoso. Allora ecco che Mastro Scarpa, focoso e piccusu (puntiglioso) per indole, ma mai cattivo, invitava con una metafora tutta popolare di tajare lu vastu a ḍḍa composizione. Come dire: libera la composizione da quel fardello offensivo, da quel peso gratuito, o meglio ancora ritratta e distruggi il tuo componimento su Vanini.
L’equivoco, originato da sicura incomprensione del sottile ragionamento di De Donno, ha portato Mastro Scarpa a scontrarsi inutilmente con colui che forse è il miglior poeta dialettale salentino.
E per restare in tema, in un momento in cui a Lecce e a Taurisano per il 400° della morte viene testimoniato anche a livello accademico il dovuto tributo al libero pensiero del martire che, pur di non rinnegare, si è lasciato, senza metafora, ardere sul rogo, vale la pena riportare anche un’altra testimonianza poetica di De Donno:
La Cerimonia di Vanini. ( a Donato Valli)
Tie ca si’ mmortu pe lla libbertà,
Ggiuliu Cesare rivoluzzionariu,
cc’effettu fannu tante Autorità,
ssettate tunne pe ll’anniversariu?
Ulìa cu ssacciu tie se scropi sguariu,
tra sti Pilasṭri de sta Società,
tie ca li guardi de tantu calvariu,
e lli scabbini de tant’anni fa!
«Paura a cquḍḍi e a cquisti è ccunzijeri»,
dice, «e cci cchiù bbrilloccu ole parutu,
cchiù ete invece culu de bbiccheri.
Lu focu tannu ca m’à ncinnarutu,
e mmoi st’Autorità cullu ggenzieri,
scopu era e scopu è, cu rrestu mutu.»
(ora in “Nicola G. De Donno, Cronache e paràbbule, Edizioni del Centro librario, Pompei 1972, p.191)
Stupendo e toccante sonetto dal profumo dantesco sia per la domanda che il poeta pone allo spirito del filosofo rivoluzionario, martire della libertà, sia per la risposta, soprattutto, che questi attraverso il poeta ci invia:
“Il fuoco che, allora, mi ha incenerito e, oggi, queste Autorità che presenziano con l’incensiere in mano (che mi incensano), aveva allora (il fuoco) e hanno (oggi) le Autorità il solo scopo di farmi restare muto (di ammutolirmi, di mettermi il bavaglio).”
Anche questa volta, quella del sonetto è la struttura della composizione. Il sonetto, con dedica a Donato Valli, verosimilmente è nato nei giorni del Convegno del 9 febbraio 1969, perché riguarda “La Cerimonia di Vanini”, appunto!
Nei versi il filosofo di Taurisano viene definito rivoluzionario, morto per la liberta!
Peccato che Mastro Scarpa, tutto preso dalla quotidianità, non abbia potuto conoscere queste strofe, perché avrebbe altrimenti, e senza dubbio, compreso il pensiero vero di De Donno riguardo a Vanini; e avrebbe certamente, lui piccusu e strutturalmente cavillusu, tagliato il basto alla sua composizione.
Ora però nell’altra vita hanno forse entrambi, ci piace immaginare, tutto il tempo per chiarire l’equivoco e ascoltare senza mediazione di terzi la lezione dirimente del più giovane Giulio Cesare Vanini che, mi sembra di vederlo, se la ridacchia con quel suo tratto di filosofo mordace, profondamente salentino.