di Paolo Maria Mariano
12 febbraio 1989: Thomas Bernhard muore a Ohlsdorf, un paese austriaco del distretto di Gmunden, nella casa che gli aveva trovato Karl Ignaz Hennetmair, suo factotum, che scrisse un diario su tutto quello che Bernhard, lo scrittore che stimolava sentimenti contrastanti in patria e celebrazioni all’estero, gli disse in un anno. È una casa colonica di trenta stanze, ben più grande di quanto a Bernhard servisse. Quell’ampiezza dava fisicità alla solitudine che emerge dalle sue pagine, forse cercata ma poi in fondo rifiutata, una solitudine ammantata di nostalgia per quello che la società austriaca tutta, al centro della sua attenzione, avrebbe potuto essere e non era, almeno per lui. Ed è anche una nostalgia per quello che egli stesso o per lui non era stato. Fa quella nostalgia da contraltare silente alla sua impetuosa invettiva, all’insoddisfatta e ripetitiva polemica del suo monologare; fa in modo da evitare che diventi una stanca e noiosa giaculatoria, semmai possa apparire come un florilegio di stile, travestito da pessimismo e disperazione, entrambi alla finestra della follia, coscientemente sfiorata, mai valicata.
Cosa ci resta di Bernhard a trent’anni dalla scomparsa? Di certo le opere: soprattutto romanzi come “Correzione”, “Il Soccombente”, “Il nipote di Wittgenstein”, “Antichi Maestri”, “Perturbamento”, “Estinzione”, “Gelo”, la sua prima prova nella narrativa; e questo per citare forse i più rilevanti, da inserire nella biblioteca ideale del Novecento; poi ci resta il teatro e con lui rimangono i racconti, la poesia, e gli articoli.
Ricorre la tensione tra l’apparente insensatezza del mondo e la domanda di senso; affligge i suoi personaggi, gli ambienti stessi. “Erano entrambi persone assolutamente straordinarie,” scrive ne “Il nipote di Wittgenstein” (Adelphi, 2008), “nonché cervelli assolutamente straordinari, solo che uno ha messo in pubblico il suo cervello, l’altro lo ha messo in pratica. […] Senza ombra di dubbio, Paul il pazzo ha raggiunto il livello di Ludwig il filosofo, e se uno dei due ha rappresentato di sicuro uno dei vertici della filosofia e della storia dello spirito umano, l’altro ha rappresentato uno dei vertici della storia della pazzia …” Paul, il nipote di Ludwig, fu amico di Bernhard; s’incontrarono nel 1967; Bernhard era ricoverato nel Padiglione Hermann dell’Altura Baumgartner, il regno del Professor Salzer, chirurgo polmonare, anch’egli zio di Paul, e quest’ultimo era ricoverato duecento metri più in là, nel padiglione Ludwig, appartenente all’Am Steinhof, il manicomio di Vienna. Una suora infermiera depose sul letto d’ospedale di Bernhard la copia appena stampata di “Perturbamento”, scritto un anno prima a Bruxelles, nella residenza di rue de la Croix 60. Bernhard era appena rinvenuto da un’anestesia totale, necessaria a un’operazione polmonare. Bernhard fu di salute cagionevole, dopo un’infanzia problematica. Sua madre era emigrata nei Paesi Bassi, dove fece la domestica mentre portava a termine la gravidanza: il padre biologico, un carpentiere di Salisburgo, non riconobbe Thomas Bernhard; si eclissò. Per primo fu il nonno materno ad avvicinarlo alla musica e alla letteratura, e il nonno aveva scritto un romanzo per il quale aveva ricevuto il Premio Nazionale Austriaco per la Letteratura. Thomas, però, era irrequieto, così la madre ritenne di doverlo consegnare a un istituto di rieducazione in Turingia. Di seguito lasciò presto il ginnasio per fare il commesso in un negozio di generi alimentari. Ventenne cominciò ad avere necessità del sanatorio. Più grave fu ciò che lo portò nel Padiglione Hermann, ma gli valse l’incontro con Paul Wittgenstein, il nipote del genio su cui Bernhard costruì il Roithamer di “Correzione”, e gli valse l’ispirazione per un nuovo romanzo. Non so dire quale distanza ci sia tra il Paul storico e quello letterario. Può sembrare che i personaggi di Bernhard siano in fondo maschere – questa impressione ebbe Orham Pamuk e così ne scrisse in “Altri colori” (Einaudi, 2010) – ma sono maschere che aiutano alla creazione di un clima; supportano quella voce monologante che mette in scena il rischio della follia, l’odio per l’ipocrisia, l’abisso dell’invidia (“Il soccombente”), rileva la vacuità del gesto ampolloso e lo fa con un narrare iperbolico, anche con non poca furbizia e ironia implicita. A Wilfrid Sebald la scrittura di Bernhard apparve una forma di humor nero: sebbene il lettore non sia incline al riso per il materiale che gli è proposto – sosteneva – risuonano le risate fuori scena. Sebald non ebbe il Nobel per la letteratura per un incidente d’auto. Lo avrebbe avuto se fosse rimasto in vita, sostenne il segretario dell’Accademia svedese. Sebald era portato anche lui a una scrittura tendenzialmente monologante, ma aveva uno stile lontano dall’invettiva, dalla durezza apodittica di Bernhard, semmai era incline alla quiete, sia pur malinconica e a tratti dolorosa.
Cosa ci rimane, quindi, di Bernhard? Certo tutto quello cui ho alluso. C’è anche un’altra cosa che la sua scrittura implica: uno scrittore è tale – e Bernhard lo fu – quando riesce a trovare una ‘voce’ che sia sua e sia inconfondibile, perché è questo, assieme alla lucidità e alla chiarezza della sua analisi del mondo, che lo distingue forse da chi è giusto uno scrivente, come il senso della misura del proprio lavoro e la serietà nel compierlo distingue uno scrivente da uno scribacchino, quello che Bernhard non fu.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di Martedì 12 Febbraio 2019]