di Antonio Lucio Giannone
“Tu non conosci il Sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado”: così incomincia La luna dei Borboni (Milano, Edizioni della Meridiana, 1952) di Vittorio Bodini, il maggiore scrittore salentino del Novecento, di livello nazionale e di respiro europeo, scomparso a Roma il 19 dicembre 1970, esattamente quarant’anni fa. E già da questi primi versi emerge il tema principale del suo primo libro poetico: il Sud. Questo motivo, a dire il vero, non era una novità assoluta nella letteratura italiana di quegli anni perché altri poeti, da Salvatore Quasimodo a Leonardo Sinisgalli a Alfonso Gatto, e altri narratori, da Carlo Levi a Francesco Jovine, lo avevano introdotto nelle loro opere, contribuendo a porre all’attenzione della nazione, nell’immediato secondo dopoguerra, il cosiddetto problema meridionale. Era completamente nuovo però il significato che esso aveva nel poeta leccese, perché il Sud di Bodini è una sua originalissima “invenzione”, come egli stesso rivendicò in una lettera a Oreste Macrì, datata “Lecce, 1 febbraio 1950”: “Ora questo Sud è mio; come le mie viscere; io l’ho inventato”.
Che significa allora Sud per Bodini? Intanto dobbiamo chiarire che Sud in lui equivale principalmente al Salento, che egli ha avuto il merito di inserire nella “geografia” letteraria del Novecento italiano. Perciò parlare del “Sud di Bodini” significa parlare innanzitutto del complesso, difficile, contraddittorio rapporto del poeta con la propria terra, col suo paese “così sgradito da doverlo amare”, come dirà in una poesia della Luna. Questo rapporto infatti non è stato sempre lo stesso, ma ha avuto una sua evoluzione, uno sviluppo che cercherò sia pure rapidamente di delineare.
All’inizio, quando Bodini fa il suo esordio, appena diciottenne, sulla scena letteraria, dimostra una chiara insofferenza verso la sua città. Non a caso, in un articolo del 1932, parla della sua “tendenza centrifuga”, cioè del desiderio di fuggire da Lecce e dalla sua provinciale e oppressiva atmosfera culturale. Anche per questo aveva aderito al futurismo, fondando un gruppetto d’avanguardia, il Futurblocco leccese, con il quale cercò di vivacizzare per poco più di un anno l’ambiente letterario e artistico cittadino.
Proprio nel manifesto del Futurblocco, ritrovato recentemente e apparso sul “Corriere del Mezzogiorno” del 1° maggio 2007, si può leggere questo significativo brano: “Noi viviamo nella più provinciale delle città di provincia, in una bassa servilità a tradizioni che esorbitano dai nostri limiti di sopportazione, rinchiusi come perle nell’ostrica d’un campanile una chiesa barocca una piazza con relativi caffè e colonna un giardino pubblico cinematografi, roba che non considero per il suo valore in sé e per sé, ma piuttosto come simboli della giornata provinciale, precisamente uguale alla successiva ed alla precedente. Simboli di sciovinismo paesano + bigotteria + statica pastasciuttesca + sentimentalismo + ruffianeria + maldicenza”.
Il rifiuto della sua città (e della sua terra) continua anche durante gli anni trascorsi a Firenze, tra il 1937 e il 1940, dove si laurea in Filosofia e riprende la sua attività letteraria, avvicinandosi alla corrente dell’ermetismo e aprendosi alla grande cultura europea (non a caso in un’altra poesia della raccolta Dopo la luna, dal titolo Troppo rapidamente,scriverà: “Il Sud ci fu padre / e nostra madre l’Europa”). A questo proposito, in uno scritto memoriale intitolato proprio Firenze, scrive così: “M’ero lasciato dietro Lecce ancora troppo giovane e pieno di polemiche contro la immobilità della sua vita, e ora mi ero posto per intero dalla parte di Firenze, accettando il rozzo errore che la prima fosse una forma sbagliata rispetto alla seconda – e in questo errore concorreva non poco quella che era la cultura in auge (il crocianesimo?) di quei tempi; mi ci volle non poco tempo per rendermi conto che si trattava di due ipotesi altrettanto motivate e legittime dell’universo”.
Quando, allora, Bodini si accorge che la sua città, la sua terra sono “ipotesi altrettanto motivate e legittime dell’universo” e decide anzi di metterle al centro del suo interesse umano e letterario? Nell’immediato dopoguerra, allorché egli manifesta chiaramente l’esigenza di un rinnovamento della letteratura che tenesse conto di quanto era accaduto nella società italiana di quegli anni, dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Per lo scrittore salentino non si poteva più continuare a scrivere come prima, rinchiudendosi nella torre d’avorio della “poesia pura”, come avevano fatto gli ermetici. Bisognava aprirsi al reale, senza però scadere nella pura descrizione, nel mero documento, come facevano molto spesso i neorealisti. Da qui la necessità di una “terza via” per la poesia italiana di quegli anni, che Bodini ha avuto il merito di indicare con le sue raccolte e con la rivista “L’esperienza poetica”, che fondò e diresse dal 1954 al ’56.
Ecco allora che alla sua immaginazione si affaccia il Sud, il Meridione d’Italia, che era sì una precisa realtà storica e geografica con tutti i suoi problemi di natura sociale ed economica, ma che si prestava benissimo a una reinvenzione fantastica. E infatti al 1946 risalgono le prime poesie e i primi racconti di Bodini nei quali balza in primo piano il tema del Sud. Si tratta di tre liriche, fra le quali figura quella citata all’inizio, pubblicate sulla rivista “Mercurio”col titolo Tre notizie dal Sud, e di due racconti, La stregoneria e Balletto delle fanciulle del Sud.
Ma qui il Sud è ancora più un fatto di atmosfera, di costumi, di abitudini di vita che una concreta realtà, anche se non mancano ovviamente gli elementi reali, dai quali anzi, come succede anche in altre composizioni, il poeta parte per poi trasfigurarli. Ciò si può vedere già dalla prima poesia della Luna, citata all’inizio, in cui ci sono sì le “case di calce”, che sono un elemento reale, caratterizzante, del paesaggio salentino, ma nella quale il Sud è associato già a una condizione esistenziale, alla casualità dell’esistere, dell’ “esserci” sulla terra (“da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado”).
Questo tema diventa una scelta definitiva per Bodini e acquista una valenza ancora più ampia e complessa dopo un’esperienza fondamentale della sua vita, la permanenza in Spagna, dove si trattiene dal novembre del 1946 all’aprile del 1949. Qui egli scopre un altro Sud, che gli serve per capire meglio anche il suo e infatti in una poesia dal titolo Omaggio a Góngora scriverà: “Cordova è una dolce tempesta / di bianco verde e nero e in quell’accordo / di calce e di limoni e di freschi cancelli / trovo il mio Sud ma con più aperta coscienza / con più aperta tristezza e più valore”. In Spagna infatti si immerge nella realtà profonda di quella nazione alla ricerca del suo “spirito nascosto” e scopre le numerose affinità che la legano al suo Salento, come si può vedere nei bellissimi reportage e prose di argomento spagnolo raccolti da chi scrive nel volume Corriere spagnolo (1947-54) (Lecce, Manni, 1987). La sua guida ideale in questo viaggio alle radici dell’Andalusia diventa allora Federico García Lorca, che gli insegna a scavare nell’inconscio collettivo del popolo spagnolo partendo dalle manifestazioni più tipiche del folclore iberico: il flamenco, la corrida, il combattimento dei galli, le processioni della settimana santa, la festa di capodanno a Madrid e così via.
Una volta tornato a Lecce nel 1949, Bodini si dedica all’appassionata esplorazione della propria terra, un po’ come aveva fatto con la Spagna, andando anche qui alla ricerca delle radici, dell’identità meridionale e in particolare salentina, attraverso l’individuazione di alcune costanti storiche, artistiche, antropologiche. E infatti ai primi anni Cinquanta risalgono alcune splendide prose, nelle quali Bodini elabora la “sua” immagine del Sud, attraverso uno scavo nella storia e nell’arte, nella società, nel costume e nelle tradizioni meridionali. Questi scritti costituiscono, per così dire, la base teorica, gli antecedenti più immediati dei suoi primi due libri di poesia, La luna dei Borboni (1952) e Dopo la luna (1956), nei quali, come s’è detto, balza in primo piano il motivo del Sud, che arriva a diventare metafora di una tragica condizione umana ed esistenziale.
Centrale, ad esempio, deve essere considerata una prosa intitolata Barocco del Sud, in cui egli trova nel barocco la chiave di lettura della sua città e di un’intera civiltà. Ma per Bodini il barocco leccese non è tanto e non solo uno stile architettonico e artistico, ma una condizione dello spirito in cui si riflette un disperato senso del vuoto (l’horror vacui), che si cerca di colmare con l’esteriorità, l’ostentazione, l’oltranza decorativa, tipica delle chiese e dei palazzi leccesi.
Così pure di grande interesse è La Puglia contro Pietro Micca, in cui lo scrittore, partendo da un fatto apparentemente marginale come l’assenza, sui manuali scolastici dell’epoca, del sacco di Otranto del 1480 da parte dei turchi, alla fine riflette sulla secolare emarginazione a cui è stata sottoposta la storia del Sud nei confronti di quella nazionale e che riguarda tanti aspetti della civiltà, della cultura, della società meridionale.
Adesso insomma il tema del Sud si sostanzia di una profonda riflessione storica, sociale, antropologica che conferisce alla poesia bodiniana uno spessore particolare e le dà anche una sorprendente attualità. Non a caso in uno dei best seller di questi ultimi anni, Gomorra di Roberto Saviano (Milano, Feltrinelli, 2006), per dare il senso della storia del Mezzogiorno e della lunga storia di emarginazione e di separatezza dal resto della nazione sono citati alcuni memorabili versi di una poesia bodiniana, Xanti-Yaca, tratta sempre da Dopo la luna: “Al tempo dell’altra guerra contadini e contrabbandieri / si mettevano foglie di Xanti-Yaca / sotto le ascelle / per cadere ammalati. / Le febbri artificiali, la malaria presunta / di cui tremavano e battevano i denti, / erano il loro giudizio / sui governi e la storia”.
Altamente significativa ancora, in tal senso, è la collaborazione al settimanale milanese “Omnibus”, sul quale, tra il settembre del 1950 e il maggio dell’anno seguente, pubblica sei articoli dedicati ai “problemi del Mezzogiorno”. In quello intitolato Il paradiso di cartapesta, si occupa, ad esempio, dell’artigianato tipico leccese, che interpreta come un’altra manifestazione dell’anima barocca della città, mentre in L’amore in Puglia ha il muso storto prende in esame il rapporto uomo-donna nel Sud, alla base del quale rinviene lo stesso senso di vuoto che aveva intravisto nelle facciate delle chiese leccesi.
Ma in questi scritti, che costituiscono degli esempi di alto giornalismo letterario, Bodini non trascura nemmeno la realtà sociale ed economica della sua terra. Di grande rilievo, ad esempio, sono i due “pezzi” dedicati a un avvenimento di drammatica attualità come l’occupazione, da parte dei contadini, delle terre incolte dell’Arneo e al conseguente processo che finisce con l’assoluzione degli imputati. Di questo avvenimento lo scrittore si fa testimone appassionato schierandosi accanto alle giuste rivendicazioni dell’umile gente salentina e contro la dura reazione delle forze dell’ordine, e dimostrando concretamente il suo generoso impegno etico-civile.
In questo filone rientra anche Squinzano, vino a Milano, una sorta di inchiesta condotta in loco dallo scrittore sulla lavorazione vinicola a Squinzano, ricca di cifre e di dati, nella quale forse per la prima volta si fa luce su questo problema. Al tempo stesso però questo scritto è anche uno straordinario reportage di tipo quasi antropologico su usanze, tradizioni, mentalità del popolo meridionale rimaste immutate nei secoli. Anche qui insomma Bodini dimostra di saper coniugare mirabilmente l’analisi dei dati della realtà meridionale con la sua interpretazione e trasfigurazione artistica.
(2011)