Salvatore Toma e il vile polverone della vita

di Augusto Benemeglio

 

1. Il sangue di Cristo

C’è stato un tempo in cui il Salento è stato tempio della memoria ancestrale, primo mattino del mondo, Eden silenzioso , dove forse non c’è Dio, ma un’attesa di Dio, si sta aspettando Dio, come in “Aspettando Godot”. Intanto gli aborigeni, deposte le armi , se ne stanno intanati nella grotta dei Cervi, a eternare la loro memoria in quella forse unica strana misteriosa felicità data dal colore dei primi graffiti. Ed è qui, idealmente, in questo panorama d’innocenza ricuperato, che Salvatore Toma fa muovere la sua penna a biro, rigorosamente colorata, azzurra, o, preferibilmente rossa. E’ qui che il poeta di Maglie descrive una nuova umanità “rosso salento”, color del sangue. Ma in quei versi strani c’è anche l’informe, il caos eterno, l’assoluto più lontano, l’estraneità più impenetrabile e esclusiva, l’auto-emarginazione, l’isolamento da terra di frontiera, deserto, nuova Palestina, la storia e la cultura cristiana , con il tradimento di Giuda, la passione e la crocifissione di Cristo e il suo sangue che continua a scorrere e irrora la terra e va a finire negli ospedali o tra le sbarre delle prigioni, nei luoghi dove soffrono tutti gli oppressi della terra.

Presso mezzogiorno
mi sono scavata la fossa
nel mio bosco di querce,
ci ho messo una croce
e ci ho scritto sopra
oltre al mio nome
una buone dose di vita vissuta.
Poi sono uscito per strada
a guardare la gente
con occhi diversi.


2. L’eterna adolescenza

Toma porta la sua dilacerante esplosione espressionista, quel gioco tra sospensione –rassegnazione e melanconia-sogno-pigrizia, che è tipico della realtà salentina e di tutti gli altri poeti e pittori “ maledetti” che fanno parte di quella costellazione novecentesca, di “seminale nuclearità salentina”, di cui parla Donato Valli, contrassegnata da una profonda e irrevocabile inquietudine che li esagita e li porta ad un estremismo espressionistico-azionistico virulento.” Porta – dice Antonio Errico – “l’amore, la morte, la poesia. Come tre abissi, come tre cieli”. Porta – dice Valli – “tre dilemmi mentali: il rapporto vita-morte, il rapporto uomo-animale, il rapporto sogno-realtà. Porta la sua eterna adolescenza nel palmo della mano, appicca l’incendio alla sua chioma da cacciatore di nuvole, entro nello stagno in cui si doma “il canto della rana rimota alla campagna!” Qui fanno feste da quattro soldi, ai lati delle strade, alzano i cristi le madonne e i santi in mezzo alla sfacciata polvere che ricopre tutte le cose, i loro visi, il loro vestiti, il vile polverone della vita, alzano turpi balletti di false nuvole e inghiottono cinghie sotto le suole, mentre io me ne sto fuori, coi miei cani, col mio fiasco di fino, con le mei foglie un po’ ingiallite. Me ne sto all’aperto vero.

Chi muore
lentamente in fondo al lago
fra l’azzurro e i canneti
non muore soffocato
ma lievita piano in profondità.
Avrà sul capo una foglia
e su di essa un ranocchio
a conferma dell’eternità.

 

3. Il canzoniere della morte

Nel suo libro uscito postumo, il “Canzoniere della morte”, Einaudi editore, (1999) recentemente riedito, sono raccolte le liriche sul tema della morte, a cura di Maria Corti, che ebbe da sempre un legame di intimità affettiva, oltreché culturale con Maglie, la città di Toma e con la divorante luce delle estati salentine. Sappiamo che l’autrice de L’ora di tutti era molto legata a Oreste Macrì e a Maglie, perciò non fu difficile al giovane Toma incontrare Maria Corti e rivolgerle un saluto che era forse una sfida: “Lei non si interesserà mai della mia poesia”.

Solo dopo la scomparsa prematura del poeta magliese, morto a 35 anni, Maria Corti, sembrava aver colto il senso di quel saluto di sfida.

Quando sarò morto
e dopo un mese appena
come denso muco
color calce e cemento
mi colerà il cervello dagli occhi
se mi si prende per la testa
(l’ho visto fare a un mio cane
disseppellito per amore
o per strapparlo ai vermi)
per favore non dite niente
ma che solo si immagini
la mia vita
come io l’ho goduta
in compagnia dell’odio e del vino.
Per un verme una lumaca
avrei dato la vita:
tante ne ho salvate
quando ero presente
sciorinando senza vergogna
l’etichetta della pazzia
con l’ansia favolosa di donare.
Per favore non dite niente.

E curò questa raccolta di liriche che (forse) meglio contrassegna la personalità di Toma. Maria l’ha fatto da par suo, con il segno più rigoroso e l’attenzione più sensibile e duttile, nonché con la vastità intellettuale e l’umiltà della grande studiosa.

 

4. L’esilio

Le fu chiesto: Perché questa rivalutazione di un poeta che sembrava ormai dimenticato? “Me ne parlò Oreste Macrì e cominciai a studiarlo. Compresi subito che si trattava di un picaro, naif, anarchico, un poeta maledetto, insomma. La sua poesia non è stata evidentemente ben compresa dalla gente, ne lui è stato preso abbastanza sul serio. Da vivo fu presente sui giornali e riviste locali e nella memoria dei suoi amici, nulla di più. Ne lui, da poeta maledetto, si è mai preoccupato di mettere ordine alla sua produzione. Ma la sua poesia è autentica e originale. Toma era un poeta che è vissuto in esilio nella sua Maglie, provincia in cui era destinato a rimaner chiuso, era necessario farlo uscire dalla provincia e renderlo nazionale. Ho tentato di farlo, ho tentato di ricostruire la sua fisionomia poetica.

Il maiale
era lì che mi guardava.
Il macellaio
faceva finta di niente
e gli girava intorno indeciso
col coltellaccio allucinato.
Voltai l’angolo
il maiale pareva
implorarmi a restare
posando alla catena
come un lupo in olfatto.
Così rimasto incantato
non sentì il coltello
forargli la gola
e non vide il sangue
colargli a dirotto.
Era tutto concentrato
a rivedermi apparire.

 

5. Perché “Il canzoniere della morte”?

“In queste liriche emerge senz’altro la voce più profonda dell’io di un poeta maledetto, enormemente originale. La morte è vagheggiata come la Laura del Petrarca, una bella donna con cui si parla, si conversa; una donna innamorata accondiscendente, premurosa. Su questo concetto (ritenuto un po’ blasfemo) è nata una polemica con Nicola G. De Donno, che sostiene, invece, che il corteggiamento della morte di Toma far parte di un suo modo originale di essere “poeta”, un po’ alla Rimbaud, e un po’ alla Pessoa, “poeti fingitori”, ma in realtà poi si è ben distanti dall’attuare qualsiasi atto concreto in quella direzione.

Invece Maria Corti sostiene che a  Maglie non ci si è accorti della scelta di Toma di farsi uccidere dall’alcool che gli regalava i sogni della notte e che lo avrebbe portato ad incontrarsi con la morte” e De Donno dissente ancora più irritato: “ Toma beveva perché “le piaseva el vin”, come direbbero i veneti, e non per cercare  la morte nell’alcol. Questa mi sembra una forzatura inaccettabile”, disse il professore direttamente al sottoscritto.

Signori, “Il Canzoniere della morte” – continua la Corti – è originalissimo e non c’è nulla di simile nella storia della poesia italiana. Ad esempio in “bestiario Salentino”, Toma preferisce agli uomini gli animali, perché hanno più naturalezza, più ingenuità misteriosa e magica, una purezza e una moralità estranee agli uomini. Il suo primitivismo linguistico è dovuto anche all’oggetto che canta: la civetta, la Calliope, i bisonti, il nibbio, il tordo, la beccaccia. Furiosi impasti linguistici per una realtà che si trasforma in favola. Tra sogno e realtà. Toma trasforma la realtà in favola personale, complici il sogno e affioramenti surreali dell’inconscio, complice l’alcool, deriva esistenziale dell’autore, che si è sempre sentito appartato dalla vita e appollaiato su una quercia.

A questo punto
cercate di non rompermi i coglioni
anche da morto.
È un innato modo di fare
questo mio non accettare
di esistere.
Non state a riesumarmi dunque
con la forza delle vostre certezze
o piuttosto a giustificarvi
che chi s’ammazza è un vigliacco:
a creare progettare ed approvare
la propria morte ci vuole coraggio!
Ci vuole il tempo
che a voi fa paura.
Farsi fuori è un modo di vivere
finalmente a modo proprio
a modo vero.
Perciò non state ad inventarvi
fandonie psicologiche
sul mio conto o crisi esistenziali
da manie di persecuzione
per motivi di comodo
e di non colpevolezza.
Ci rivedremo
ci rivedremo senz’altro
e ne riparleremo…
Addio bastardi maledetti
vermi immondi
addio noiosi assassini.

 

6. Abbiamo violentato e ucciso

In effetti certi suoi versi lasciano intendere questo suo progetto di morte: “Inutile fuggire/ bisogna accettarsi/o rompere o sparare /o uccidere o uccidersi/ occorre ribellarsi / forse annientarsi/forse uccidersi /qualcosa bisogna fare/uccidere forse / forse annientarsi/cercare l’esaltante/ nullità dei morti/ . E in effetti Toma passava gran parte del suo tempo al bosco delle querce delle “Ciancole”, il bosco segreto, dove costruiva il suo mondo di ideali e di sogni, che erano sogni di morte. Nel bosco scriveva i suoi versi, sui muri, sugli alberi della fossa: “Ci ho messo una croce/ e ci ho scritto sopra/ oltre al mio nome/una buona dose di vita vissuta/ Poi sono uscito per strada / a guardare la gente/con occhi diversi”…

Non voleva rassegnarsi alla comoda abiezione della nostra società. Amava gli animali e raccontando la fine del mondo sosteneva che non ci sarebbe stata nessun Apocalisse “Ma la terra si trasformerà/ in un animale/ che per infiniti secoli/ abbiamo violentato e ucciso/mangiato e fatto a pezzi/. Essi sono là/ che ci aspettano…”.

E’ vero, scrive Giorgio Linguaglossa, io concordo con Maria Corti: “Dinanzi alla sua disperata autenticità, scoloriscono e impallidiscono le scritture poetiche più scaltrite ma anche più professionali degli esistenzialisti milanesi e dei minimalisti romani. Recluso nell’isolamento della provincia, Toma scrive una poesia lontana anni luce dalla ideologizzazione neosperimentale, è un ruminatore-visionario che accentra il discorso lirico, una sorta di primitivismo linguistico, intorno al problema della propria morte”:

Io spero che un giorno
tu faccia la fine dei falchi,
belli alteri dominanti
l’azzurrità più vasta,
ma soli come mendicanti.

*

Se su una moto
vai incontro a un grattacielo
e dietro c’è una stella
per un’ovvia ragione
vedi la stella cadere:
allora per incanto
esprimi un desiderio:
io vorrei
una grande esplosione.

 

7. Vagheggiamento di una purezza assoluta

La realtà di Toma – scrive Donato Valli – “è immersa nella sua sera, un certo maledettismo che è tipico del Salento , degli artisti salentini della seconda metà del novecento, immersa nell’annientante malinconia, nella tenebra materna della morte, che ha l’azzurrità del mare. Questo annullamento di sè dà alla scrittura la leggerezza, la bellezza che tocca il culmine della labilità”. Salvatore Toma porta quell’accelerazione esistenziale, come un sogno di un lontano mattino, un vagheggiamento di purezza assoluta, che rende candido, innocente e commovente l’incontro con il suo canzoniere.

Il poeta esce col sole e con la pioggia

come il lombrico d’inverno

e la cicala d’estate

canta e il suo lavoro

che non è poco è tutto qui.

D’inverno come il lombrico

sbuca nudo dalla terra

si torce al riflesso di un miraggio

insegna la favola più antica.

Se si potesse imbottigliare

l’odore dei nidi

se si potesse imbottigliare

l’aria tenue e rapida

di primavera

se si potesse imbottigliare

l’odore selvaggio delle piume

di una cincia catturata

e la sua contentezza,

una volta liberata”…

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