di Antonio Lucio Giannone
Primo e unico romanzo di Rina Durante, La malapianta vide la luce nel 1964 presso Rizzoli nella collana «Zodiaco» nella quale erano apparsi, tra l’altro, volumi di giornalisti-scrittori famosi, come Indro Montanelli e Oriana Fallaci. Ambientato nel Salento e, in particolare, in una ristretta area geografica che comprende tre piccoli comuni, Melendugno, Cannole e Calimera, il romanzo narra la storia della famiglia Ardito, composta da Teta e Rosa e dai loro rispettivi figli, in un arco di tempo che va dalla fine degli anni Trenta alla caduta del fascismo. La malapianta prende le mosse proprio da quando Niceta (Teta) Ardito, contadino di Melendugno, rimasto vedovo con sei figli, si reca a Cannole per chiedere a Rosa di sposarlo. Questa che, a sua volta, aveva avuto tre figli da massaro Nino, morto affogato in uno stagno, accetta e va a vivere con lui. Da allora si sviluppa il racconto delle vicende dei vari componenti di questa famiglia, contrassegnate dalla miseria, dalla fame, dalla violenza, dalla morte.
Ciccio, il più piccolo dei figli di Teta, muore quasi subito di stenti e di malattia. Giulia, un’altra figlia di Teta, viene violentata e messa incinta da Antonio, figlio di Rosa, il quale poi muore in guerra. Successivamente Giulia ha una relazione con don Armando, il segretario del Fascio. Marta, figlia di Teta, viene messa a servizio in casa della signora Caroli, moglie di don Armando, la quale si uccide quando scopre il tradimento del marito con Giulia. Gino, un altro figlio di Rosa, con una lunga e avventurosa fuga in bicicletta da Torino dopo l’8 settembre del ‘43, ritorna dalla guerra con disturbi mentali e va alla disperata ricerca di Seggiòla, una giovane donna ormai sposata, della quale s’era innamorato prima di partire. Rosa intanto, che rimane nuovamente incinta da Teta, accetta di crescere come suo anche il figlio di Giulia e Antonio. Lo stesso capofamiglia, Teta, dopo aver svolto lavori illeciti, come il pescatore di frodo e lo spacciatore di banconote false, per cercare di migliorare le condizioni di vita della sua famiglia, viene arrestato e rinchiuso nel carcere di Lecce.
Questa, dunque, riassunta nelle linee essenziali, l’esile fabula della Malapianta, con cui la scrittrice vinse il Premio Salento 1964, assegnatole, due anni dopo, da una giuria composta, fra gli altri, da Maria Bellonci, Mario Sansone, Bonaventura Tecchi e Sandro De Feo[1]. Il romanzo, di primo acchito, farebbe pensare a un’opera tipica del neorealismo al quale rimandano indubbiamente alcune caratteristiche, come l’ambientazione meridionale, la scelta di personaggi appartenenti alle classi subalterne, l’arretratezza delle condizioni di vita in cui essi vivono, nonché il riferimento a precise coordinate storiche e geografiche.
Ma nel 1964, com’è noto, il contesto storico-letterario italiano era assai diverso da quello dell’immediato dopoguerra e dei primi anni Cinquanta nei quali sorge e si sviluppa il fenomeno del neorealismo. Si era ormai negli anni del cosiddetto ‘boom’ economico, dell’industrializzazione del paese, dei primi segnali di un diffuso benessere, mentre in letteratura, già alla metà degli anni Cinquanta, con «Officina» si era affacciato il tema dello sperimentalismo e alla fine di quel decennio «Il menabò» di Elio Vittorini e Italo Calvino, aveva affrontato il rapporto letteratura-industria. Se La malapianta fosse quindi un romanzo neorealista tout court, sarebbe piuttosto attardato rispetto ai tempi e forse non varrebbe la pena di riproporlo all’attenzione.
Le cose però non stanno così. Di estremo interesse risulta, a questo proposito, un articolo nel quale la Durante racconta che nel 1961 aveva mandato un dattiloscritto con la prima stesura del romanzo, composto tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, a Elio Vittorini, da lei conosciuto in occasione della sua venuta a Lecce nel 1956 per ritirare il Premio Salento, vinto per il romanzo Erica e i suoi fratelli – La garibaldina. Vittorini, nell’autunno di quell’anno, le rispose con una lettera in cui le spiegava «che non credeva più nel romanzo di argomento meridionale e che occorreva sperimentare altre forme di rappresentazione della realtà meno datati. Tuttavia apprezzava il linguaggio, che definiva fresco e vivace, e lo stile»[2]. Allora la scrittrice rimase piuttosto sorpresa da queste affermazioni perché – continua sempre nell’articolo – le «sembrò inammissibile che uno scrittore come lui potesse mettere da parte tutta una esperienza di vita e di letteratura, che lo aveva visto così impegnato, per una scelta diversa, che interpretavo come un abbandono del Sud. Secondo me, Vittorini sbagliava nel ritenere che il discorso del Sud fosse ormai chiuso»[3]. Tuttavia confessa che quel giudizio e le riflessioni dello scrittore sul «Menabò» la spinsero a una «revisione» del romanzo, a cui procede quindi subito dopo aver ricevuto quella lettera.
Purtroppo non è stato possibile finora mettere a confronto queste due diverse stesure della Malapianta per esaminarne le varianti e capire quindi in che direzione sia andata la «revisione» di cui parla l’autrice. Partendo dall’unico testimone disponibile, la redazione a stampa, si può solo formulare l’ipotesi che la Durante, tenendo conto delle osservazioni di Vittorini e del suo suggerimento di «sperimentare altre forme di rappresentazione della realtà di aspetti meno datati», abbia modificato almeno in parte l’impianto originario del romanzo, aprendosi ad altre esperienze letterarie di quegli anni che andavano decisamente oltre il neorealismo, anche se, al contrario dello scrittore siciliano, continuò a credere nel romanzo di argomento meridionale, come dimostra l’ambientazione dell’opera (e, in fondo, anche tutto il successivo lavoro da lei svolto come scrittrice e operatrice culturale).
Ma quali sono le tematiche prevalenti nella Malapianta, quelle che sono messe maggiormente in rilievo dall’autrice? Ebbene, non sono tematiche di natura sociale, come si potrebbe immaginare. La fame, la miseria, gli stenti quotidiani esistono ovviamente e sono alla base della vita dei personaggi del romanzo, almeno dei componenti della famiglia Ardito, ma non è su di esse che si appunta l’attenzione della scrittrice. Non c’è insomma un intento documentario alla base del romanzo, né un tono di denuncia delle condizioni di vita della gente del Sud o di polemica ideologica contro il fascismo, secondo gli schemi più vulgati della narrativa neorealista.
C’è un altro problema che sembra affliggere questi personaggi più delle condizioni di deprivazione sociale e materiale in cui vivono, ed è il malessere, il disagio di tipo esistenziale dal quale sono accomunati. Tutti i personaggi, infatti, sono dilaniati da un male sottile che condiziona le loro esistenze e ne fa delle monadi sofferenti e disperate. Solitudine, incomunicabilità, inettitudine, alienazione, aridità interiore: nessuno di essi sembra sfuggire a questo «male oscuro», per citare il titolo del famoso romanzo di Giuseppe Berto che esce proprio nel 1964, lo stesso anno della Malapianta.
Vediamo allora qualche esempio concreto nell’analisi dei personaggi, incominciando proprio da Teta, il capofamiglia. Ebbene, nel suo primo monologo interiore, Teta riflette, ad esempio, sulla sua incapacità di comunicare persino con i figli, che «non sente», pur essendo «parte di sé», e che anzi gli sono «estranei e lontani, sono da un’altra parte, immobili e segreti»[4]. Più avanti confessa che gli piacerebbe instaurare un dialogo con loro ma non ci riesce:
Se almeno mi si sciogliesse la lingua, una volta sola, per parlare con loro. So come lo dovrei fare, so cosa dovrei dire, ma non ci riesco, non ci riesco. Dovrebbe accadere quando siamo intorno al piatto, tutti vicini; o quando si sta in campagna seduti a riposare sotto gli alberi. Si sta buoni, così vicini in silenzio, si sente il vento passare tra le foglie e c’è intorno a noi un’aria d’attesa. Sento ch’è venuto il momento della spiegazione, e i ragazzi s’allungano contro il tronco e assumono la posizione di chi deve ascoltare un lungo discorso. Mi spiano da sotto lunghe ciglia bionde e aspettano[5].
Ma questo personaggio è caratterizzato anche da un tormento interiore che assume connotati di sapore quasi esistenzialistico, con l’idea della casualità dell’ ‘esserci’, del venire al mondo per puro caso:
Non dovrebbe accadere senza volontà, [il nascere] non dovrebbe essere frutto del caso […];
Non dovrebbero nascere [i figli] contro la tua volontà. Vuol dire che siamo già abbastanza soli e abbandonati per essere respinti e ignorati anche da coloro che ci costringono a venire al mondo[6];
e ancora – altro legame con l’esistenzialismo – col pensiero costante della morte a cui siamo ‘incatenati’ fin dalla nascita:
Si fa per vivere e invece questa vita ti si rivolta contro e ti divora. Bisognerebbe rinunciare anche a questo, crepare […]. Perché sono incatenato dalla morte, ma per raggiungerla non c’è che da percorrere questa strada maledetta che vorresti scavalcare con un solo balzo, magari mettendoci tutta la forza che ti rimane [7];
nonché, ancora, con un senso di rifiuto quasi totale della realtà: «Le cose che non amo superano quelle che amo. E quelle che amo sono troppo poche, e non si può dire neppure che siano»[8].
Anche Rosa, la compagna di Teta, è raffigurata nella sua pura istintività di donna, nella sua «vita animale», nella sua «indolente e squallida aridità», immersa nella solitudine, nel silenzio, nell’afasia, incapace di comunicare, al pari di Teta, anche con i suoi figli. Da Luigi, un altro figlio di Teta, è vista, ad esempio, «in tutta la sua chiusa e irreparabile desolazione»[9] e a Giulia sembra
una pianta, un bastone che nulla le importasse. Basta ricordare – continua nel suo monologo – come metteva al mondo i suoi figli, quasi non fossero creature, coll’aria impassibile di una bestia. Sembrava che non potesse abitarla altro che la sua ottusa rassegnazione e una stolida ubbidienza quieta e soddisfatta di sé[10].
Questo personaggio però è l’unico del romanzo che riesce a provare, sia pure per una volta sola, un autentico sentimento d’amore per Teta, al punto che a Giulia, quando scopre che Teta e Rosa si amano, quella sembra «una situazione incredibile»[11]. E non a caso questo sentimento incomincia proprio quando l’uomo si presenta a casa sua per chiederle di sposarlo, rompendo il silenzio in cui questa donna era sempre vissuta. Teta infatti, «quel giorno aveva parlato, pronunziato poche frettolose parole»[12], cioè instaura per la prima volta nella sua vita un dialogo con lei: «Quell’uomo era venuto a chiederla senza sottintesi, con parole ferme e precise. Per il fatto che lui aveva adoperato parole, Rosa si era sentita a posto e come rigenerata»[13].
Rosa infatti «non aveva mai avuto appunto questo, le parole. Solo vita, urgente, incalzante, brutale sopraffazione e dolente rassegnazione»[14]. Quindi anch’ella «quel giorno aveva parlato, aveva pronunciato quelle quattro parole, senza una vera necessità; le prime parole gratuite della sua vita»[15]. In questo modo, attraverso il linguaggio cioè, stabilisce un rapporto con Teta che la tira fuori, sia pure provvisoriamente, dalla sua solitudine
Ma il personaggio che più incarna, nel romanzo, questa aridità interiore, che è quasi lo stigma degli Ardito, è Giulia, la quale sembra abbia avuto in eredità, quasi geneticamente, dal padre Teta la difficoltà nella vita di relazione, l’incapacità di uscire dai confini della propria esperienza per aprirsi agli altri, per comunicare con gli altri. «Ciò che mi deprime e mi fa sentire meschina è il sapermi sola»[16], dice in un brano significativo. Non riesce a provare un sentimento autentico d’amore e comprensione nemmeno con gli uomini che conosce. Con Antonio subisce passivamente prima l’approccio e poi la violenza sessuale, ma anche la relazione con don Armando, il segretario del Fascio di Melendugno, è vissuta «senza amore»[17]. Le loro solitudini infatti non riescono a fondersi nemmeno nell’amplesso: «E nell’affondare provò ad afferrarsi al viso lungo e biancastro di don Armando, chino su di lei. E anche don Armando rovinò con lei, insieme precipitarono giù, giù, abbracciati, smarriti e senza amore»[18].
Giulia arriva addirittura, a un certo punto, a nutrire pulsioni masochiste, a immaginare il piacere della sofferenza fisica quasi per punirsi del rapporto con quest’uomo: «Questa sera mi offrirò a lui, gli chiederò di prendermi. Che mi prenda, che mi calpesti, voglio che mi faccia del male, che si sporchi le mani»[19].
Anche Marta, sorella di Giulia, soffre di una variante dello stesso male ed è consapevole, forse più degli altri, che si tratta di una vera e propria ‘malattia’:
Questa che ora scopriva non era più solo fame, non più solo miseria, ma una ben più crudele e dolorosa infermità che l’aveva colpita e certamente non l’avrebbe più abbandonata.
Per questo non aveva risposto più a Eugenio, a quella sua letterina che aveva trovato sotto il cuscino.
Perché sono diversi: lui è vivo, libero, puro; lei è una creatura malata e insufficiente[20].
La sua malattia si chiama alienazione, incapacità di avere un rapporto concreto, diretto, positivo con le cose, con la realtà, oltre che col suo prossimo, simile anche lei, in questo, al padre:
Per la prima volta sentiva il disagio di trovarsi in una casa non sua, ogni cosa intorno aveva un’aria indifferente che la respingeva[21];
La fame era stata capace di tanto: ormai le cose le stavano intorno senza altro significato che quello che la fame aveva loro attribuito. Lei era sempre al di qua di esse, soffocata dalla sua incapacità di sollevarsi sino a loro, e di intenderle[22].
Non a caso, non risponde nemmeno alla lettera che Eugenio, il figlio di don Armando con cui era nata «un’affettuosa intesa», quando lei era a servizio in casa della signora Caroli, gli scrive dalla guerra.
.Tra i personaggi maschili, oltre a Teta, spiccano Luigi, Gino e don Armando, i quali pure, per vari motivi, vivono in una condizione di disagio esistenziale, di solitudine. Luigi, ad esempio, che è figlio di Teta, è un ragazzino svelto che risente però dell’assoluta mancanza di affetti in cui è vissuto in famiglia. Ha l’abitudine di rifugiarsi spesso in un posto preciso della sua casa, «tra la pila e l’arco»[23] del cortile, in cerca di un po’ d’ombra d’estate ma soprattutto per non essere cercato, come una sorta di protettivo grembo materno. Da lì ripensa alla madre morta, alla quale si riferisce col termine «l’altra», quasi per metterne in rilievo l’estraneità:
Quando c’era quell’altra donna lui veniva sempre chiamato da lei o dagli altri. Tutti sembravano occupati a chiamarlo, per far piacere a lei. Ora nessuno più lo batteva. Non piangeva quasi più, neppure quando si tagliava un dito o urtava il naso per terra. Invece l’altra lo batteva spesso, a volte selvaggiamente, e così gli altri al tempo dell’altra[24].
Da lì osserva, appunto, gli altri. Osserva, ad esempio, Rosa, «questa, che alcuni chiamavano mamma»[25], e capisce «dalla sua espressione indifesa, in cui nascondeva una paura animale, che non solo Rosa non lo aveva ancora “visto” ma quasi sicuramente non lo avrebbe “visto” mai»[26]. E qui, per Luigi, ‘essere visto’ da Rosa significa che questa donna non si accorgeva minimamente della sua presenza, non lo riconosceva, non stabiliva un rapporto affettivo con lui come, d’altra parte, facevano tutti gli altri componenti della famiglia Ardito.
Di questo malessere esistenziale, di questo rapporto conflittuale con la realtà, non soffrono però solo loro, ma anche gli altri personaggi del romanzo che fanno parte della piccola borghesia del paese. L’anziana signorina Ravizza, insegnante della piccola Marta, impazzisce; la signora Caroli, moglie di don Armando, si impicca a un ulivo, dopo aver scoperto il tradimento del marito. Anche quest’ultimo soffre di solitudine, al punto che, durante un colloquio, confida a Giulia: «Mi sento così solo»[27]. E così la vecchia baronessa, nella cui casa, a Lecce, viene portata Giulia da piccola, manifesta i segni della demenza, credendo che Giulia sia la figlia morta da bambina e resuscitata.
Anche la rappresentazione del paesaggio, spesso di tipo espressionistico, senza alcun compiacimento estetizzante, è funzionale alla caratterizzazione dei personaggi. Della campagna salentina è messa in rilievo l’aridità e lo squallore, che sono il correlativo oggettivo dei sentimenti, anzi della mancanza di sentimenti degli Ardito:
La terra sotto gli alberi era patinata di bianco, come di sale, con qualche ciuffo d’erba secca, e qualche gobba di tufo affiorante qua e là, a precisare col bianco il suo interno arido squallore[28];
Fu un lungo viaggio, reso interminabile dalle numerose soste nei paesi. Giulia guardò sfilare le campagne sempre colle stesse gobbe affioranti, biancastre, nella luce illividita dall’alba, e cogli stessi ulivi in preda al delirio, e i muretti di confine snodantisi come grigi serpenti fra i campi bruciati dal vento[29] .
Ed è significativa, a questo proposito, un’immagine ricorrente, quasi una sorta di ‘metafora ossessiva’, per dirla con Mauron, che riflette anche stavolta questo cupo senso di disperazione, di desolazione affettiva che impronta il romanzo. Si tratta di un’immagine di caduta, di sprofondamento, di franamento che è riferita sia alle persone che alle cose, agli elementi del paesaggio e di cui esistono numerosi esempi:
C’era un’aria di sonno sotto gli aranci, la terra bolliva sotto i piedi, i muretti franavano crepitando alla minima spinta[30]; Gli ulivi brillavano anche essi nella luce rosea, e i tronchi grossi e contorti sembravano sempre sul punto di abbattersi in preda alle convulsioni[31]; prima di prendere una soluzione qualsiasi [Giulia] sentì sulla bocca quella di lui e si lasciò andare ad un piacevole franamento di tutto il suo corpo…[32]; E anche don Armando rovinò con lei, insieme precipitarono giù, giù, abbracciati, smarriti e senza amore[33]; C’è un modo di franare stando in piedi, diritta e tranquilla, con gli altri intorno che ti guardano e sono tranquilli anche loro del tuo modo sempre uguale di tenerti su, senza scosse e cambiamenti. Ed è in quell’istante preciso che tu te ne sei andata, e hai detto loro addio con tutte le tue forze, senza dire una parola, pur sapendo di franare là dove nessuno di loro saprà più ritrovarti [34]; Ricordo quante primavere ci hanno trovato ancora uniti nel sonno, prima che il risveglio ci separasse ancora e ci ripigliasse il gusto assurdo di franare ciascuno nella sua vuota e spavalda irresolutezza[35].
Quello rappresentato nella Malapianta, insomma, è un mondo desolato e senza speranza e solo alla fine, un po’ inaspettatamente e forse anche non del tutto coerentemente a dire il vero, si apre un piccolo spiraglio di luce nella vita di questi personaggi. In casa Ardito, infatti, quando Teta è in carcere, arriva il socio Rocco, che prende il suo posto accanto a Rosa, assicurando alla famiglia una certa tranquillità economica, mentre proprio nell’ultima pagina è descritta la partenza in campagna, di buon mattino, di Giulia e Luigi per riprendere il lavoro, quasi come un segnale di rinascita, di una nuova vita.
Queste, quindi, sono le tematiche prevalenti del romanzo, le quali, oltre ad essere tipiche del romanzo modernista del Novecento, erano di estrema attualità all’inizio degli anni Sessanta sia in campo letterario che cinematografico. Basti pensare a certi romanzi, come La noia di Moravia, del 1960, e il già citato Il male oscuro di Berto, del ’64, nonché ai film di registi come lo svedese Ingmar Bergman e l’italiano Michelangelo Antonioni. La Durante era un’appassionata frequentatrice di sale cinematografiche, una cinefila, e quindi non potevano sfuggirle i film dei due famosi registi che proprio nei primi anni Sessanta toccarono forse il punto più alto della loro creatività. La maggior parte dei film di Bergman sono caratterizzati, com’è noto, dai temi della crisi dei sentimenti, della solitudine dell’uomo, della difficoltà della vita di relazione, oltre che da una problematica e da una inquietudine religiosa che però manca del tutto nel romanzo. Di Bergman nei primi anni Sessanta escono, ad esempio, Come in uno specchio (1961), Luci d’inverno (1962) e Il silenzio (1963). Del regista italiano invece vorrei ricordare, in particolare, la celebre ‘trilogia dell’incomunicabilità’, che comprende tre film usciti tra il 1960 e il 1962, L’avventura (1960), La notte (1961) e L’eclisse (1962), cioè proprio negli anni in cui la Durante procede alla «revisione» del suo romanzo. Anche in questi tre film, che sicuramente hanno avuto una notevole suggestione sulla scrittrice, sono presenti i temi dell’incomunicabilità, della solitudine dell’individuo nella società contemporanea, dell’alienazione dell’uomo in un mondo non più fatto a misura sua.
La novità della Durante, e in un certo senso la sua originalità, sta però nel fatto di avere trasferito, forse per la prima volta, questa tematica da una classe, la borghesia, a cui essa era tradizionalmente associata, a un ceto sociale e a un ambiente, il mondo contadino del Sud, a cui invece finora era stata sempre estranea. E questo provoca anche indubbiamente, a dire la verità, qualche forzatura, qualche squilibrio, qualche scompenso nella delineazione dei personaggi. Nei monologhi di Teta, ad esempio, sia il contenuto (riflessioni di tipo esistenzialistico) che la forma (un italiano pulito, forbito, corretto) risultano essere poco credibili in bocca a questo personaggio in rapporto alla sua cultura e al suo grado di istruzione, e in ogni caso portatore di valori e di una concezione della vita molto lontani da quelli che emergono nel romanzo (e basti pensare proprio al ruolo, alla centralità che assume la famiglia nel mondo contadino meridionale).
Ma, come s’è detto, La malapianta si allontana dai modi del neorealismo anche per la tecnica narrativa utilizzata. D’altra parte non bisogna dimenticare che in quel periodo erano sorte correnti, in Italia e fuori, che avevano dato il via a una sperimentazione anche nell’ambito del romanzo, come il Nouveau roman in Francia e il Gruppo 63 in Italia. Ora, la Durante non arriva certo a queste posizioni di estrema avanguardia, ma pure introduce alcune novità nella struttura narrativa. Per usare una metafora botanica, in linea quindi col titolo del suo romanzo, possiamo dire che sul tronco della tradizione realista la scrittrice ha saputo innestare una problematica e una tecnica squisitamente moderne, tipiche della narrativa novecentesca, più inquieta e «interrogativa» per usare la definizione di Giacomo Debenedetti[36].
Esaminiamo allora questa tecnica partendo dall’esame del punto di vista. Riprendendo la terminologia di Genette[37], possiamo dire che nella Malapianta la focalizzazione zero è alternata alla focalizzazione interna variabile. All’inizio e fino a una certa pagina, infatti, la narrazione è condotta da un narratore esterno onnisciente, che narra in terza persona, secondo gli schemi classici quindi del romanzo realista. Nelle pagine successive e fino alla fine, questo tipo di narrazione si alterna col racconto da parte dei vari personaggi che volta a volta sono messi in rilievo dall’autrice. Questi infatti, a turno, e spesso anche in prima persona, riferiscono le loro impressioni, i loro ricordi, rievocano vicende anteriori che li riguardano, rompendo il ritmo della fabula. Da qui la molteplicità dei punti di vista, quegli «intrecci di voci» per riprendere il titolo di un libro di Cesare Segre[38], che è il tratto saliente della Malapianta da un punto di vista narratologico.
Il romanzo, insomma, risulta costruito come una sorta di mosaico con l’accostamento di vari tasselli, che sono costituiti da nuclei di racconti, effettuati secondo le diverse prospettive dei personaggi. Questi tasselli sono collegati gli uni con gli altri in maniera piuttosto labile, e di solito coincidono con segmenti narrativi corrispondenti a brevi capitoli (non numerati) o a paragrafi, staccati gli uni dagli altri per mezzo di spazi bianchi. In alcuni casi, si tratta di veri e propri racconti, in sé compiuti, e come incastonati all’interno del romanzo. Si veda, ad esempio, il racconto del periodo vissuto dalla piccola Giulia in casa della vecchia baronessa leccese, dal quale emerge un senso di oppressione e di claustrofobia, o quello della fuga in bicicletta di Gino insieme al tenente, dal ritmo mosso e vivace.
Da qui deriva il carattere frammentario, spezzettato della narrazione che procede quindi non in maniera cronologicamente ordinata, ma a sbalzi, a salti, con ellissi, rimandi appena accennati, con rallentamenti causati dalle frequenti analessi, alle quali l’autrice ricorre per rievocare le vicende anteriori dei vari personaggi.
Ma ecco qualche esempio di questa tecnica narrativa. Nel seguente brano si può notare il passaggio, brusco e improvviso, dalla narrazione oggettiva, in terza persona, a quella in prima persona, col monologo interiore di Teta, che ha inizio quando Rosa lo informa di essere rimasta di nuovo incinta:
“Maledizione!” fece Teta, e provò la sensazione di essere legato al letto e schiacciato da un peso enorme.
Ah! Rosa, Rosa, perché mi fai altri figli?
Si fa per vivere e invece questa vita ti si rivolta contro e ti divora. Bisognerebbe rinunciare anche a questo, crepare. Quando venne il primo fu tutto diverso. Avevo paura di non amarlo abbastanza e volevo che fosse tutto in regola per non pentirmi mai di quello che avevo fatto[39].
Anche in quest’altro brano, in cui Giulia pensa al suo rapporto con don Armando, i livelli di narrazione cambiano in continuazione:
Ma si comporta come se fosse la sola a pensare.
Che posso fare contro tutti? Se uno si mette in testa di non vivere, come gli si può dire “alzati e cammina”?
Ma questo pensiero le viene dall’essere quella che è per Antonio, per Armando.
Per Armando. È questo il punto.
Che cosa sono per lui? Lo vorrei proprio sapere[40]
Anche la tecnica di rappresentazione delle parole e dei pensieri deriva dal romanzo modernista. Oltre al discorso indiretto libero, del quale fece grande uso Verga, frequenti sono infatti, come abbiamo accennato i monologhi interiori che in qualche caso sfiorano il flusso di coscienza, come il primo monologo interiore di Teta, già citato. Qui si possono trovare, oltre che i suoi pensieri, anche una domanda a Rosa, immaginata ma non pronunciata («Ah! Rosa, Rosa, perché mi fai altri figli?») e poi anche una frase rivolta a se stesso («Dicevo: Tu Teta non arriverai mai a quel punto: pensa, i figli non sono gatti»). Cioè, ci si trova davanti proprio a quella casuale rappresentazione di pensieri e impressioni di un personaggio che è il flusso di coscienza, tecnica introdotta da Joyce, com’è noto.
Ma oltre che dalla letteratura, la Durante è stata influenzata, come s’è detto, anche dal cinema. Dal linguaggio filmico deriva, ad esempio, la tecnica usata in due sequenze nelle quali Luigi osserva gli altri dal suo particolare punto di vista, dalla sua altezza, stando seduto, quasi acquattato, «tra la pila e l’arco». Ebbene queste sequenze richiamano quella che in termini tecnici, nel cinema, è chiamata «inquadratura soggettiva», in cui sullo schermo si vede esattamente ciò che vede un determinato personaggio, cioè dal suo particolare punto di vista. Anche qui infatti il punto di vista è quello del ragazzo che osserva e riconosce le persone dalla sua prospettiva, cioè dal basso. E da quella prospettiva riconosce le persone. Ecco come racconta l’arrivo del postino che porta il telegramma con la notizia della morte in guerra di Antonio:
Rivedevo i piedi di Rosa quella mattina andare verso il postino, arrestarsi vicino ai piedi grossi di lui, pestare la terra incerti, voltarsi verso di me, verso il postino, tornare lentissimi indietro[41]
E così pure in un altro brano sono i piedi di Giulia e di Rosa a entrare nell’angolo visuale del ragazzo:
Il piede dorato di Giulia apparve sul profilo del pilastro, un po’ slargato e vibrante sotto il peso delle mezze. Comparve anche l’altro piede, ed entrambi si fermarono davanti a Luigi, e accanto ad essi le mezze furono posate, nella polvere gialla, gonfie e stillanti e vagamente ridanciane […]
Comparvero altri piedi, questa volta lunghi e ossuti, con le dita nodose e adunche; lasciarono nuove orme che cancellarono le precedenti. Luigi riconobbe i piedi di Rosa, questa, che alcuni chiamavano mamma. Riconobbe il piede zoppo della caviglia più grossa ed il suo gonfiore infantile e la piega sul dorso[42].
Qualche osservazione, infine, sullo stile e sulla lingua. In campo stilistico si nota un’oscillazione tra due tendenze. Da un lato, uno stile più sobrio, quasi spoglio, dall’altro, invece, un maggiore grado di letterarietà. Il primo è presente soprattutto nelle parti dialogiche, caratterizzate da uno stile asciutto ed essenziale, per le quali i riferimenti possono essere gli scrittori americani tradotti da Pavese e Vittorini, quali, ad esempio, Steinbeck, Caldwell e Faulkner. Basti citare l’incipit del romanzo:
Teta mise sotto l’asina e andò a Cannole. Tornò con la Rosa, e con i tre figli di lei.
Per la strada le disse soltanto:
“Rosa, i miei sono sei. T’ho detto due, ma sono sei”
“Ma allora non fa più cinque!” [43]
Il secondo, uno stile più letterario, caratterizza invece certe descrizioni paesaggistiche di tono lirico, ricche di similitudini e analogie, nelle quali si nota l’influenza della prosa d’arte novecentesca. D’altra parte, non bisogna dimenticare che la formazione della Durante avviene nel fervido ambiente culturale salentino degli anni Cinquanta-Sessanta, dove venivano pubblicate riviste di raffinata cultura letteraria come «L’Albero» di Girolamo Comi, «L’esperienza poetica» di Vittorio Bodini e il già ricordato supplemento letterario del «Critone» curato da Pagano. Si noti, ad esempio, in questo brano, l’accurata aggettivazione e le immagini ricercate:
Nei lunghi pomeriggi estivi, Maria e Giulia andavano a stendersi sotto gli alberi delle serre. Si udiva lo scirocco strofinarsi contro i rami, e rotolare i sassi e le foglie secche. Si stendevano sulla crosta dei campi duri di sole e sentivano sotto la pelle le stoppie pungenti e cedevoli.
Il sole era forte, alto e lontano, se ne udiva il brusio dentro la chioma degli alberi che gettavano un’ombra confusa sui loro corpi[44].
In altri brani si incontrano spesso similitudini e analogie, che sono tipiche del linguaggio poetico:
La vedevo adesso la terra, distintamente, non quella massa oscura e confusa che appare sempre a distanza, ma in tutti gli elementi che la compongono: il giallo del tufo, le carcasse grigie dei vermi, miriadi di invisibili radici sottili e tremule come bave di ragno, e il marrone di quella pasta densa e terribile che chiamiamo terra. Infine sentivo il suo odore caldo e rassicurante, antico e lacerante come una ferita, il suo odore, come un lungo mormorio, triste e desolato[45].
O, ancora:
C’erano le gazze a guardarla dal viluppo dei rami, e qualche merlo mandava ogni tanto un grido lamentoso nell’imprevedibile geometria della campagna, desta per vaghi rumori subito inghiottiti dal silenzio. Un freddo gelatinoso le veniva incontro alle ginocchia, e Giulia aveva l’impressione che la campagna avvolta nella nebbia le avrebbe svelato un suo aspetto inedito e sconosciuto. Dai rami grigi dei fichi piovevano gocciole sull’erba[46].
A livello lessicale, spiccano alcuni termini dialettali. In alcuni casi essi vengono adattati alla lingua italiana, non sempre in maniera convincente a dire il vero. Ecco qualche esempio: «intavolato» (da taulatu, ammezzato di tavole), «mezze» (menze, recipienti di terracotta o di rame), «fornello» (furnieddhu, tipica costruzione rurale salentina), «fuori» (fore, campagna), «stoppa» (stuppa, gioco con le carte). Altre volte invece sono usati nella stessa forma dell’originale e messi tra virgolette, con una nota a piè di pagina dell’autrice che ne dà il significato: chiangi, gnifa, spase, puccia, nachiri, fiscoli, quaremma, pupi, tata (per quest’ultimo curiosamente vengono utilizzati anche i termini italiani «papà», «padre» e addirittura un improbabile «babbo»). In ogni caso questi termini dialettali non sono mai usati in maniera mimetica, cioè per caratterizzare ambiente e personaggi, ma assumono una valenza quasi decorativa, estrinseca. Anche da questo particolare punto di vista, insomma, La malapianta si allontana dai canoni neorealistici e si avvicina a forme e modi più sperimentali e ‘moderni’ di narrativa.
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[1] Tra le recensioni del romanzo si segnalano: F. Lala, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 26 giugno 1964; G. Spagnoletti, in «ABC», agosto 1964; N. Carducci, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 15 settembre 1964; M. Bellonci, in «Il Messaggero», 21 ottobre 1965. Si veda anche T. Fiore, Terra di Puglia e Basilicata, Cosenza, Pellegrini, 1966, pp. 332-343.
[2] R. Durante, Il Salento strizzò l’occhio a Vittorini, in «Quotidiano di Lecce», 16-17 marzo 1986.
[3] Ibid.
[4] R. Durante, La malapianta, Milano, Rizzoli, p. 39.
[5] Ivi, p.40.
[6] Ibid..
[7].Ivi, p. 39.
[8] Ivi, p. 48.
[9] Ivi, p. 45.
[10] Ivi, p. 133.
[11] Ibid..
[12] Ivi, p. 128.
[13] Ivi, p. 127.
[14] Ivi, p. 128.
[15] Ivi, p. 129.
[16] Ivi, p. 135.
[17] Ivi, p. 107.
[18] Ibid.
[19] Ivi, p. 119.
[20] Ivi, p. 145.
[21] Ivi, p. 71.
[22] Ivi, p. 144.
[23] Ivi, p. 78.
[24] Ivi, p. 43.
[25] Ivi, p. 44.
[26] Ivi, p. 45.
[27] Ivi, p. 102.
[28] Ivi, p. 48.
[29] Ivi, p. 112.
[30] Ivi, p. 7.
[31] Ivi, p. 33.
[32] Ivi, p. 102.
[33] Ivi, p. 107.
[34] Ivi, p. 127.
[35] Ivi, p. 171.
[36] Il riferimento, ovviamente, è a G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971. La definizione è a p. 515.
[37] Cfr. G. Genette, Figure III. Discorso del racconto [1972], Torino, Einaudi, 1976.
[38] Cfr. C. Segre, Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, 1991.
[39] Ivi, p. 39.
[40] Ivi, p. 117.
[41] Ivi, p.81.
[42] Ivi, p. 44.
[43] Ivi, p. 5.
[44] Ivi, p. 22.
[45] Ivi, p. 55.
[46] Ivi, p. 98.
Grazie. Non vedo l’ora di iniziare a leggerlo. Bellissima recensione.