di Paolo Vincenti
“Festa! ma che bella ma che bella questa festa”
(“Festa” – Raffaella Carrà)
E non bastava la festa della mamma. E non bastava la festa del papà. Bisognava introdurre anche la festa dei nonni. Confcommercio e Confesercenti lamentano una crisi senza precedenti, il crollo drastico dei consumi. E allora occorre spingere la gente ad acquistare, qualsiasi pretesto è buono per portare i consumatori nei negozi. Certo, la festa della mamma ha trovato humus, terreno fertile, in un paese di mammoni come il nostro (“mamma, ma la canzone mia più bella sei tu, sei tu la vita e per la vita non ti lascio mai più!”). “Son tutte belle le mamme del mondo”, anche le assassine, anzi in genere queste sono delle vere gnocche, o è l’effetto mash up che produce lo schermo televisivo. I commercianti aspettano a braccia aperte mariti e figli delle assassine per rifilargli rose, tulipani, borse, spille, foulards e cioccolatini a ufo, per la seconda domenica di maggio. E le potenziali uxoricide e infanticide vanno in brodo di giuggiole e decidono di rinviare il loro sanguinario progetto. Anche la festa del papà è tanto sentita nel Belpaese. E del resto come si fa a rinunciare alla figura protettiva e rassicurante del proprio genitore? Chi ci soccorre fin da piccoli quando siamo in difficoltà? Chi ci tira fuori di galera quando siamo nei guai? Chi compra i giudici? Chi ci aggiusta i processi? Il potente e influente papà. Chi ci soccorre quando abbiamo perso il lavoro? Il caro e pensionato papino. In effetti, San Giuseppe, il più importante dei papà della storia, almeno di quella cristiana, non è forse il protettore dei poveri e dei derelitti? Il San Giuseppe degli anni Duemila, cioè il papà bancomat, fornisce un aiuto prezioso ai suoi squattrinati figliuoli. Non a caso la festa del papà è stata fissata il 19 marzo, cioè nel giorno in cui si commemora il santo cristiano, fra zeppole, matthre e taulate te San Ciseppe. Fa niente, poi, se il devoto falegname ebreo fosse solo un padre putativo, avendo la Madonna partorito non da lui ma per opera dello Spirito Santo. Giuseppe, il caro babbo di Gesù, diventa emblema della dedizione e dell’amore paterno. E’ anche il simbolo della castità, sebbene i vangeli apocrifi affermino che avesse generato da precedenti matrimoni e fosse anche poligamo come era d’uso all’epoca nel popolo ebraico. Per questo, dunque, protettore delle ragazze da marito. Il protovangelo di Giacomo, del II Secolo, parla di Giuseppe come di un anziano falegname, vedovo con figli, cui venne data in sposa Maria, di appena 12 anni. Più che di un marito nel senso tradizionale, Giuseppe si pone come una figura paterna per Maria, di un vecchio saggio e rassicurante, con il bastone in mano, come è raffigurato nei presepi, proprio con quel bastone da cui, secondo la leggenda, quando venne scelto fra i vari pretendenti di Maria, spuntò una colomba che prese il volo oppure un mazzo di gigli. In Oriente, il culto di San Giuseppe si impose molto presto, mentre in Occidente si affermò a partire dal IX Secolo. Fu però solo nel 1621 che Papa Gregorio XV istituì la sua festa del 19 marzo, mentre nel 1954, Papa Pio XII fissò all’1 maggio quella di San Giuseppe lavoratore, volendo così cristianizzare una festa laica, cioè quella del lavoro, oggi celebrata dai sindacati con un grande concerto musicale a Roma. A allora, fra falò e ciciri e tria, si festeggia l’umile falegname di Nazareth, esempio di rettitudine e obbedienza. E i nonni, dai quali sono partito con questo pezzo demenziale? Vogliamo ricordare queste figure così importanti per la nostra crescita e formazione? Bisogna festeggiarli, almeno una volta l’anno. Del resto, i nonni non sono che dei papà e delle mamme raddoppiati e, soprattutto ai nostri giorni, contribuiscono fattivamente al bilancio famigliare, rimpinguando grazie ai loro risparmi le casse languenti della famiglia.
Ora c’è anche la festa dei vicini. Di questa festa non si sentiva tanto la necessità, considerando che i condomini d’Italia vantano il non invidiabile record di maggiore litigiosità europea. Ciò favorisce gli avvocati che svolgono una professione ormai inflazionata e sono spesso senza lavoro e incoraggia una speciale figura di mezzano, quella dell’amministratore di condominio. Questo compito, che una volta era svolto a tempo perso e gratuitamente da qualche volontario fra gli stessi condomini, oggi invece è di competenza di un professionista specializzato, che lucra sulle beghe e sui diverbi condominiali, sempre che questi non si trasformino in delitti sanguinari, e quindi la competenza passi agli avvocati penalisti e alla magistratura (vedi caso di Olindo e Rosa nella strage di Erba).
E poi, la festa delle donne. Una festa nata da motivazioni eminentemente politiche che oggi si è trasformata in un’occasione, per le casalinghe disperate, di stare una sera lontano dal marito, e per le nubili, di procacciarselo. Una delle versioni più conosciute sull’origine di questa festa è quella che ricorda la tragedia della fabbrica tessile di Cotton a New York, nel 1908, quando alcune operaie che protestavano contro la proprietà da diversi giorni, vennero bruciate vive da un incendio appiccato nella fabbrica dove esse erano state chiuse dentro. Ma la data del 1908 è molto controversa (si parla anche del 1909 e del 1911). In ogni caso, oggi la festa delle donne è anacronistica in quanto il gentil sesso ha guadagnato una sostanziale parità e anzi le donne, in funzione delle cosiddette “quote rosa” e grazie a leggi a tutela della loro minoranza, si sono accaparrate privilegi a discapito degli uomini. Dunque, al netto di serate danzanti e strip tease a vantaggio di casalinghe alcolizzate e donne manager con problemi di libido, non sarebbe il caso di ripensarla, questa festa?
Una delle feste più “festeggiate” è quella di San Martino, l’11 novembre, quando allegre e numerose brigate di amici e parenti in tutta Italia si danno convegno per sbevazzare in libertà protetti dall’alibi della ricorrenza religiosa. “A San Martino ogni mosto è vino”. Ma San Martino è notoriamente il santo dei cornuti. Incerte sono le origini di questo singolare protettorato, se ne riportano varie e fantasiose versioni. Secondo alcune, deriva dal fatto che in passato durante il periodo della festa si tenevano in alcune parti dell’Italia meridionale importanti fiere degli animali cornuti, e dunque i maligni, collegando le corna che da sempre simboleggiano l’infedeltà coniugale alla festa di San Martino, coniarono alcuni proverbi, come “per San Martino, gira e rigira, tutti i cornuti vanno alla fiera”. Un’altra versione, diciamo più erudita, riporta a Roma e al “Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica” in 140 volumi di cui fu autore Gaetano Moroni, nell’Ottocento (riferito da Domenico Rotella in “Notizie in controluce”, on line).” ll Moroni afferma che già da alcuni secoli prima era tenuta in gran conto una devota usanza: dall’11 novembre iniziava di fatto l’Avvento, tempo di penitenza in preparazione del Natale, durante il quale si praticava il digiuno e l’astinenza da ogni carne, compresi quindi gli amplessi coniugali. Poiché quaranta giorni erano lunghi, i mariti più ligi temevano che le mogli meno pazienti si prendessero – diciamo così – alcune libertà eccessive e quindi si affidavano al santo che vigilava l’inizio della penitenza, affinché vegliasse sulla onorabilità del focolare domestico. Fu così che la malizia popolare finì col rendere il povero Martino l’inconsapevole patrono di tutti coloro che comunque avevano moglie: la mentalità rigorosamente maschilista vedeva in ogni donna una potenziale Messalina, fatte sempre salve – ovviamente – le donne di casa propria. Detto tutto ciò, si potrebbe infine pensare che i portatori dell’ingrato trofeo sulla fronte costituiscano un’unica grande categoria; invece a Roma – almeno stando alla classificazione che ne fece il poeta Giggi Zanazzo ai primi del Novecento – se ne conoscevano addirittura cinque. La base era ovviamente costituita da coloro che non sapevano di essere traditi ed erano i classici Becchi. C’era poi il cosiddetto Cuccubbone, ossia quello che ne era consapevole ma che fingeva per quieto vivere; il Beccone, invece, oltre ad accettare lo stato di cose ne ricavava pure un vantaggio o un guadagno; il Tribbecco portava gli amici a casa e poi si assentava con una scusa; infine il Calidone (quello che secondo lo Zanazzo “portava lo stendardo nella processione di San Martino”) accompagnava lui stesso la moglie a casa degli amici! La figura del “cornuto e contento”, tuttavia, non era soltanto oggetto di dileggio da parte del popolo, bensì era addirittura una specifica figura di reato contemplata – con questa letterale dicitura! – dalla “Pratica Criminale delle Pene di Roma”, una sorta di codice penale di epoca pontificia rimasto in vigore fino al 1811. Va anche detto che la punizione non era di tipo detentivo bensì – almeno per certi versi – improntata a più raffinata crudeltà: la norma prescriveva infatti che il reo “ducatur mitratus per urbem”, ossia fosse messo alla berlina per le vie di Roma tenendo sul capo una sorta di “mitra” (che in verità è il copricapo a due punte che in genere portano i vescovi). In cosa consisteva esattamente la pena? Il colpevole di lieta passività dinanzi alla moglie fedifraga veniva posto a cavalcioni di un asino e coronato con un cappello di carta con le punte ben aperte all’insù, per simboleggiare quelle corna di cui si faceva vanto. Dopo di ciò gli sbirri lo conducevano in giro per esporlo agli insulti e agli sberleffi di chiunque. Al giorno d’oggi – essendo ormai mutati i tempi – i Cuccubboni, Tribbecchi e allegra compagnia vanno direttamente in televisione a magnificare la qualità delle loro corna, facendo a gara nell’affermare che le proprie sono più maestose di quelle altrui.”
Basta con le feste? No! Bisogna citare almeno la festa di San Valentino il 14 febbraio, amata dai pasticceri perché in quel periodo, dopo l’abbuffata natalizia, generalmente gli affari languono e la festa degli innamorati fornisce un buon pretesto per acquistare e regalare cioccolatini e baci a profusione ( “ma caro, mi vuoi tutta ciccia e brufoli?”, chiede l’innamorata al suo valentino, prima di evirarlo oppure di sfregiarlo con l’acido. “Sì, questo amore è splendido”, canta il fidanzato alla sua morosa prima di farla a pezzi e buttare il suo cadavere nel fiume) . E ancora Halloween, il 31 ottobre. Infatti, non bastasse il Carnevale, ci voleva il revival delle zucche con i ceri dentro, per far chiasso e caciara in un periodo dell’anno altrimenti morto, come appunto quello della festa dei morti. E così zompettando di festa in festa, il nostro calendario sarebbe pieno di liete ricorrenze, solo a volerle celebrare tutte, il che in un paese di crapuloni e scansafatiche non sarebbe certo un azzardo. E siccome il nostro è anche un paese di burlatori, buontemponi e ciurmatori, e la maggior parte di quelle descritte sono feste laiche, non sarà meno che appropriato il noto detto “passata la festa gabbato lo santo”.
MARZO 2016