Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) X

di Gianluca Virgilio

I Balcani  – e non solo – innamorati di Madre Teresa di Calcutta, di origine albanese e nata a Skopje. A Tirana le è stata dedicata un’intera piazza, a Skopje la casa natale è un museo e un’attrazione turistica. Ma Martín Caparrós, La fame, Einaudi, Torino 2015, pp. 117-123, la accusa di non aver mai fondato una clinica, ma solo luoghi per raccogliere i moribondi affamati!

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Con quale stato d’animo vado a scuola. Credo che lo stato d’animo giusto sia quello pieno di gioia. La gioia nasce dalla semplice consapevolezza di trasmettere il desiderio di sapere alle nuove generazioni. Parlare ai ragazzi significa tenere aperta la porta del futuro, sapere con certezza che non tutto si esaurirà con la mia vita che volge verso il tramonto, poiché ci sono cento giovani che ti ascoltano – e ti ascoltano anche quando fanno finta di non farlo – mentre stanno iniziando il loro cammino. Insegnare diventa allora un compito vitale, significa lasciare delle insegne su quel cammino, delle tracce da seguire, che facilitino l’orientamento per quanti rischiano di smarrirsi. L’insegnante non deve plasmare, formare, tanto meno inculcare alcunché nelle menti dei giovani; l’insegnante deve lasciare dei segni orientativi e non ingannevoli sulla strada dei giovani, avendoli preceduti.

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La valutazione degli studenti. Mai dare troppa importanza alla valutazione, che deve essere solo un segno usato dall’insegnante per favorire l’orientamento dello studente e spronarlo a fare meglio. La valutazione dice allo studente: ecco la strada che hai fatto finora e quella che ti rimane da fare: mettiti in cammino!

Guai all’insegnante che usi la valutazione per punire o per ricattare! Chi valuta punendo, in realtà rivela lo scacco del suo ruolo e non rimuove la ragione dell’empasse educativa. Peggiore l’insegnante che ricatta usando il voto per mantenere la disciplina in classe: se non stai zitto al tuo posto non avrai mai un buon voto, ma solo votacci! Questi insegnanti non provano gioia nell’andare a scuola, ma solo un senso profondo di inadeguatezza, cui sopperiscono con punizioni e ricatti. Essi hanno paura degli studenti e incutono in essi paura.

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Massimo Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014. Il libro appare molto suggestivo e ricco di grandi aperture e insegnamenti, ma ha il limite oggettivo nel fatto che è stato scritto da un universitario, che probabilmente non ha mai vissuto la vita di un prof di scuola. A p. 68, Recalcati ribadisce il concetto di fondo del suo libro: “Nel nostro tempo la scuola non è più un’istituzione disciplinare, ma un’istituzione di resistenza all’indisciplina dell’iperedonismo acefalo che governa la nostra società”. Obietto quanto segue: 1) La scuola è un’istituzione disciplinare a tutti gli effetti; 2) Nella scuola non si manifesta, se non in modo residuale, alcuna forma di “resistenza all’indisciplina dell’iperedonismo…”, bensì si riscontra un generale conformismo che dai tempi in cui lo denunciava Pasolini, peraltro citato da Recalcati,  si è andato solo accentuando; non è vero che l’iperedonismo che governa la nostra società sia acefalo, poiché la testa è individuabile nel finaz-capitalismo, che impone il discorso del capitalista fondato appunto sull’iperedonismo consumistico. Pertanto, a me pare che Recalcati descriva più la scuola come dovrebbe essere che la scuola com’è in realtà. Il problema è che l’equivoco finisce col nascondere la realtà dei fatti e col rendere vana l’analisi – per certi versi esatta – delle problematiche educative.

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Il mio libraio Tommaso chiude: affitto del locale troppo alto, spese molte e molte tasse; così, non ce la fa più e chiude. Il libro che ho comprato da lui oggi è l’ultimo.

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Ricreazione. Nella lettera 403 del 17 aprile 1883, a Franz Overbeck, l’amico che gli propone di insegnare nel liceo di Basilea, Nietzsche risponde: “Ma c’è qualcosa di più importante, al cui confronto la professione di insegnante, per quanto utile ed efficace, varrebbe al massimo ad alleggerirmi l’esistenza, come ricreazione. E soltanto quando avrò adempiuto il mio dovere riuscirò a vivere con la coscienza tranquilla quel genere di esistenza che tu desideri per me.” (Epistolario 1880-1884, p. 341).

Promemoria per il docente. Innanzitutto v’è la cosa più importante che va fatta; poi si potrà insegnare, e questo insegnamento sarà allora per il docente una ricreazione. Che cosa può essere insegnato, infatti, se non si è avuto nulla di importante da perseguire? Ricreazione: s’intenda proprio nel senso di ri-creare, creare di nuovo, con gli studenti, quel qualcosa d’importante che si è fatto o che si è capito della vita.

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Sogno all’alba. Arrivo a Lecce, in pullman, dopo un lungo viaggio dal profondo Nord, durante il quale ho dormito, sicché sono felice che il sonno mi abbia sottratto alla fatica e alla noia del viaggio. Sono fresco e riposato e contento che mi rimanga solo un breve tratto di strada per arrivare a casa.

Mi sveglio e penso che una sensazione simile devo averla già provata dopo uno dei miei tanti ritorni a casa e che dunque il sogno non ha fatto altro che riprodurre quella sensazione.

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Uno dopo l’altro, sono morti tutti i miei insegnanti del liceo. Vivere in una piccola città significa anche questo, sperimentare la graduale scomparsa delle persone che l’hanno abitata e che hanno accompagnato una parte della nostra vita.

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La nostra libertà in una noce. Ricopio un brano di B. R. Barber, Consumati. Da cittadini a clienti, Einaudi, Torino 2010, p. 78: “In Africa, per la cattura delle scimmie viene tuttora utilizzato un metodo diabolicamente semplice che suggerisce i paradossi con cui deve confrontarsi la “scelta” della nostra era del consumismo globale. A un palo saldamente ancorato nel terreno viene fissata una piccola scatola contenente una grossa noce raggiungibile unicamente attraverso una stretta apertura che consente solo il passaggio della zampa della scimmia tesa nel tentativo di afferrare la noce. La scimmia può inserire la zampa con estrema facilità, ma nel momento in cui chiude la mano per afferrare la noce, non riesce più a estrarla.  Chiunque (tranne la scimmia) capisce immediatamente che tutto ciò che l’animale deve fare per liberarsi è lasciare la presa. Gli ingegnosi cacciatori hanno addirittura scoperto che le loro prede restano intrappolate così per ore, addirittura giorni, perché la scimmia – indotta dal desiderio – non lascerà mai cadere la noce. Morirà prima (come spesso accade). I consumatori sono le scimmiette del capitalismo: liberi, in teoria, di comprare e non comprare, ma con l’ethos infantilistico che accende i loro desideri, una volta caduti nella trappola scoprono di non essere più in grado di uscirne. I grandi magazzini e i mercati virtuali non sono certo prigioni; ma non si può neppure dire che offrano agli esseri umani qualcosa che lontanamente assomigli alla libertà pubblica, morale e civile”.

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L’altra sera, cena con i miei compagni di liceo. Marcella racconta un episodio di vita scolastica che mi vide protagonista quarant’anni fa. La docente d’Italiano veniva da Lecce ed era una donna molto raffinata e perbene. Un giorno chiese un temperino per la sua matita spuntata, ed io mi alzai dall’ultimo banco, tirai fuori dalla tasca dei pantaloni il coltellino che portavo sempre con me, lo aprii e glielo porsi dalla parte dell’impugnatura, mentre lei si ritraeva inorridita, neanche la volessi scannare, ed esclamava: “Ma quello non è un temperino, è un coltello!”. Pare che io le abbia risposto: “Professoressa, che ci posso fare? Io uso questo per temperare le matite!”.

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Penso al termine “ideologia” con cui si definisce il comunismo, il fascismo, il nazismo e tutti gli -ismi di questo mondo, ma non la democrazia. Infatti, l’accezione negativa del termine “ideologia” è propria del punto di vista democratico. Quindi appare ovvio che la democrazia non si rappresenti mai come ideologia perché il suo punto di vista non prevede una simile possibilità. Questa impossibilità/incapacità appare all’origine della mistificazione della realtà attuale e dunque è essa stessa il principio fondatore della democrazia come ideologia. La principale caratteristica dell’ideologia è l’incapacità autocritica e, come conseguenza, l’incapacità di porre rimedio ai danni che essa provoca.

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Guardare alle cose del mondo da un solo punto di vista significa guardarle in modo ideologico. Per dire le cose come stanno bisogna avere uno sguardo estraniato, esterno, privo di un’unica prospettiva; il che è molto difficile perché l’uomo tende a considerare le cose per come le vede e  così gli sfuggono gli altri punti di vista. Esempio: per anni ho raggiunto Lecce da Galatina percorrendo sempre la stessa strada, la statale n. 476, poi provinciale 362, giungendo a Lecce sempre nella stessa zona, dalle parti dell’ex-provveditorato. Quando, negli anni ottanta, hanno aperto la statale Gallipoli-Lecce (SS 101), da Galatina si poté arrivare Lecce prendendo questa superstrada, giungendo in un punto diverso del capoluogo. Ricordo ancora il mio senso di estraniamento la prima volta che feci il nuovo percorso. Ma è proprio il senso di estraniamento che ci certifica dell’estrema varietà delle cose. Infatti, si arriva a Lecce da Frigole, da Monteroni, da Brindisi, da Maglie, ecc., e sempre si ha una visione diversa della città. Una visione completa della città racchiude tutti i punti di vista e non coincide con nessuno: sarebbe questa una visione non ideologica della realtà. Ma quanti dovrebbero essere i punti di vista sufficienti per non cadere nell’ideologia? Risposta: un numero tendente all’infinito!

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La democrazia come la punta di un iceberg, la cui parte sommersa paragonerei al totalitarismo. Sicché la democrazia non sarebbe altro che il modo in cui il totalitarismo appare agli occhi del mondo, la sua faccia buona, presentabile, non mostruosa.

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Recentemente, parlando ai miei studenti, mi è occorso di fare riferimento all’Ottocento come a “il secolo scorso”. Mi sono subito accorto dello sbaglio, ma ho anche riflettuto ad alta voce sul mio lapsus. Ho detto agli studenti che io, avendo trascorso gran parte della mia vita nel Novecento (ben 37 anni), mi considero un uomo di questo secolo, rispetto al quale “il secolo scorso” è appunto l’Ottocento; mentre per gli studenti, nati nel Duemila, le cose stanno diversamente. Ho aggiunto che se mi capitasse di vivere nel XXI secolo almeno quanto ho vissuto nel XX, allora certamente non esisterei a definirmi un uomo del XXI secolo e a considerare “il secolo scorso” il Novecento.

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Dopo tre ore a scuola, tre ore di insegnamento, mi sento “svuotato”. La metafora è esatta: sono un vaso che ha lasciato il suo contenuto a scuola.

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Bisognerebbe scrivere parole che non invecchino (aere perennius) o almeno avere fiducia che ciò accada. Ma bisognerebbe anche credere nella storia e pensare che essa costituisca un solido fondamento del nostro desiderio. Ed invece noi abbiamo inventato la storia solo per dar ragione al nostro desiderio, come i fanciulli che prendono sul serio il loro gioco capriccioso. Ma noi siamo mortali e tutto ciò che esiste muore con noi e al di là di noi.

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Approssimandosi le feste natalizie, ho fatto vedere ai miei ragazzi La febbre dell’oro di Charlie Chaplin. Prima di iniziare la visione del film, ho dovuto vincere il pregiudizio degli studenti, secondo il quale tutto ciò che non appartiene all’oggi, è superato, ovvero non vale nulla, tanto più se si tratta di un film del 1925, muto, e per giunta in bianco e nero. Dall’attenzione con cui i ragazzi hanno seguito le vicende del’omino, di Giacomone e di Georgia, ho desunto che il film stava piacendo, e quando alla fine ho detto: “Se vi è piaciuto, applaudite!”, tutti hanno fatto un lungo applauso e a me è sembrato di riportare una bella vittoria.

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Nell’epoca attuale, ch’io definisco neobarocca, non si può che avere un’idea positiva del Barocco. La ragione è chiara: l’età presente si specchia in quella passata, vi si riconosce e se ne compiace. Il giudizio sul Seicento di Manzoni, di De Sanctis, di Croce …. tutta roba da moralisti, incapaci di vera critica!

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Penso al bellissimo Epistolario di F. Nietzsche, vera e propria autobiografia del filosofo, penso alla sua solitudine e al vivo sentimento d’amicizia testimoniato dalle sue numerosissime lettere. Solitudine e amicizia: un binomio inscindibile.

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Pentedattilo, un paesino abbandonato in provincia di Reggio Calabria, rinasce con una nuova vocazione: quella turistica. Nelle poche botteghe di cianfrusaglie aperte in questo paesino vi è tutta la vanità della nostra società consumistica.

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Nella lettera a Franz Overbeck da Nizza di mercoledì 23 febbraio 1887, Nietzsche parla dei suoi “incontri fortuiti”. Ne enumera tre: con Dostoevski; e poi: “(egualmente fortuito è stato l’incontro a ventun anni con Schopenhauer, a trentacinque con Stendhal)”. A questo proposito, parla di “istinto di parentela” e di “gioia” provata ad ogni incontro.

Nella stessa lettera aggiunge sulla storia: “In definitiva la mia diffidenza arriva a farmi chiedere se in fin dei conti la storia sia possibile. Che cosa si vuol dunque stabilire? – qualcosa che “non era stabile” neppure nel momento in cui accadeva? – “ (Epistolario 1885-1889, cit., pp. 327-328).

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