di Adele Errico
Logorate dalla malattia e pallide come cadaveri, le donne protagoniste delle opere di Edgar Allan Poe sono esseri morenti e mortiferi che scatenano nel personaggio maschile allucinazioni violente e contaminano il quotidiano di inquietanti fantasie oniriche. Tali figure evocano un’immagine rimasta impressa negli occhi di un bambino: una giovane madre che muore in presenza del figlio di tre anni. Elizabeth Arnold, madre di Edgar Allan Poe, acclamata attrice dei teatri di Boston, a ventiquattro anni moriva di tubercolosi.
Secondo Marie Bonaparte – autrice di un monumentale studio su Poe intitolato Edgar Allan Poe: studio psicoanalitico – questo trauma infantile è la causa di un inconscio attaccamento alla figura materna che rende necessaria, per lo scrittore, la ricerca di donne che le somiglino nella prematura malattia. Questa ricerca ha luogo tanto nella vita reale quanto nella finzione poetica.
Berenice, Ligeia, Eleonora, Morella, Annabel Lee sono finzioni letterarie nelle quali sopravvive il ricordo della madre defunta, simulacri che preservano la sua immagine, pretesti per disegnare, ancora una volta, i tratti di quel volto ormai perduto. Il protagonista maschile dei racconti e delle poesie, narratore in prima persona, osserva atterrito il decadimento fisico di queste donne di straordinaria bellezza; la malattia rende la donna amata dal protagonista irriconoscibile e, quando la morte sopraggiunge, l’ombra di lei comincia ad ossessionarlo in sogno, nel vortice di angoscianti vertigini, non più come oggetto d’amore ma come fantasma che lo perseguita fino alla morte. Amore e morte si confondono in un contesto di atmosfere cupe e rarefatte dalle quali emerge l’ombra della madre che il figlio non è in grado di lasciare andare.
La letteratura concede sfogo alla malinconia dell’orfano, gli consente di rivivere e commemorare il momento della morte e di regredire ad un bisogno primordiale di amore materno, di illudersi della resurrezione e sprofondare ancora nel lutto. Così, nel mondo letterario di Poe ritorna insistente l’ombra della madre che, rivivendo nelle vesti dei suoi personaggi femminili, ogni volta nasce e muore, innescando un ciclo infinito di celebrazione della rinascita e orrore della perdita. Poe ritrova la madre nei denti di Berenice che Egeo strappa in un momento di delirante sonnambulismo e che, secondo la Bonaparte, richiamano l’“impulso cannibalico infantile” di mordere il seno materno; la ritrova nella miracolosa reincarnazione di Ligeia nel corpo di Lady Rowena, nel perdono che la defunta Eleonora concede all’amato, colpevole di aver rotto il giuramento e aver sposato un’altra donna. Poe ritrova Elizabeth nell’orrore suscitato dalla scoperta della tomba vuota di Morella, reincarnatasi nel corpo dell’omonima figlia.
L’”imago” materna per Poe non è, però, appannaggio della sola letteratura. E’ invadente presenza anche nella vita reale. Per una tragica coincidenza la moglie di Poe, Virginia, subirà esattamente la stessa sorte di Elizabeth: la sposa-bambina (cugina tredici anni più giovane di lui) morirà di tubercolosi a ventiquattro anni. Il doloroso sovrapporsi delle due figure, la madre e la sposa, daranno vita al personaggio letterario di Annabel Lee, l’amore perduto che giace nel sepolcro vicino al mare:
“e così, per tutta la notte, giaccio a fianco
del mio amore: il mio amore, la mia vita,
la mia sposa, nella sua tomba, là vicino al mare,
nel suo sepolcro, sulla sponda del mare”.
I racconti di Poe scavano un’immaginaria cripta segreta nella quale il figlio può rincontrare la madre ogni volta che lo desidera, un intimo rifugio in cui i due restano uniti in un abbraccio che possa impedire alla madre di morire. L’invenzione di questi personaggi femminili è la risposta a una paura dell’abbandono; piuttosto che perderla, il figlio è disposto a giacere per tutta la notte accanto ad una tomba in riva al mare, a vegliare sulla madre che è anche sposa, sprofondando con lei nel buio del sepolcro. Accogliendo la teoria elaborata – sulla base degli studi di Bonaparte – da Angela Perduto in L’amore e la morte in Edgar Allan Poe, “non è morta, la madre, ma sepolta viva, incarcerata nelle parole”. Per impedirle la morte, Poe si serve di un tòpos dei suoi racconti: la sepoltura prematura. Seppellisce la madre, ancora viva nella sua memoria, sotto un cumulo di parole, la rende prigioniera della sua scrittura. Va a cercarla nel sepolcro, ne vìola la sacralità per riesumarla e ancora ucciderla, per farla reincarnare ogni volta in una donna diversa, sempre per darle lo stesso pallore, lo stesso morbo, la stessa morte. Con la scrittura l’autore affronta un male che altrimenti finirebbe col soffocarlo, dà forma a un pensiero doloroso, cura il tormento dando a chi scrive il coraggio di esprimerlo.
Il trauma si ripropone vivido ogni volta, il lutto che il bambino non è in grado di elaborare diventa scrittura in cui la madre assume sembianze sempre diverse; è Elizabeth a vestire i panni di tutte le donne di Edgar Allan Poe. Il bambino che, impotente, è costretto a guardare la propria madre morire si trasforma in scrittore onnipotente che è in grado di farla rivivere tutte le volte che vuole nelle fattezze dei suoi personaggi. Nell’immaginario misterioso e orrorifico di Poe, la madre defunta ritorna in vita e lo salva dalla mancanza e dall’abbandono.
[“Clinamen”, n. 3 dicembre 2018]