di Antonio Errico
Disse una volta Albert Einstein che la più bella e profonda emozione che possiamo provare è il senso del mistero; sta qui il seme di ogni arte, di ogni vera scienza.
Non faceva distinzione fra l’arte e la scienza, Einstein, dunque. A queste due dimensioni dell’essere e del sapere attribuiva la funzione di rappresentare e di indagare il senso del mistero. Ma riteneva che tanto l’arte quanto la scienza trovano il loro principio in una emozione: in un sentire a volte, quasi sempre forse, indecifrabile, in uno stupore nei confronti di un fenomeno, di un elemento, in uno sbalordimento, un soprassalto del sentimento, in una vertigine che scompagina e confonde la visione delle cose, la logica apparente, i metodi di interpretazione. L’emozione è la conseguenza di un confronto non cercato con la bellezza del mondo, con l’ombra del tragico che lo attraversa, con la presenza o con l’assenza di manifestazioni che lo rivelino, con la prossimità e la lontananza, con l’ordinario e lo straordinario, con la percezione delle cose con cui ha avuto inizio, con l’immaginazione e l’ipotesi di quelle che potrebbero determinarne la fine.
L’arte e la scienza cominciano da lì, da quella emozione, e non si può dire, non si può sapere se non finiscano anche con un’altra emozione, con un altro soprassalto, un altro sbalordimento, un’altra vertigine, un altro stupore per la scoperta di qualcosa che c’era e che non si conosceva, per l’invenzione di qualcosa che non c’era e che è stata generato. Arte e scienza confessano, più o meno esplicitamente, l’infinitamente piccolo dell’umano davanti all’infinitamente grande del sovrumano.
L’una e l’altra si spauriscono pensando l’infinito. Poi, lo scienziato cerca di ricondurre lo spaurimento in una struttura logica che gli consenta di formulare delle risposte, il poeta si ferma all’interrogativo perché considera che la risposta all’interrogativo sull’origine e sulla funzione dei fenomeni sia costituita dai fenomeni stessi.
Se la bellissima, suggestiva ambizione dello scienziato è quella di arrivare ad un punto dal quale si possa guardare il mondo come si guarda il proprio giardino, l’ambizione del poeta, non meno suggestiva, non meno bella, è quella di lasciare al pensiero la possibilità di contemplare il mondo come una tempesta di luce, come un’impenetrabile densità di tenebre, un caos perfetto nel suo sconosciuto principio e nella sua imprevedibile conclusione.
Se lo scienziato lancia con ogni suo pensiero, ogni gesto, una sfida all’enigma, all’incompreso, il poeta ha stabilito con se stesso il patto di lasciarsi sedurre dalla bellezza della sproporzione, dalla dismisura fra il pensabile e l’impensabile, dalla indecifrabile metamorfosi degli esseri e delle cose, dal senso nascosto, indefinito, dalla nebbia dell’arcano che confonde i contorni e rende impenetrabili le cose.
L’uomo che non sa di scienza e che di poesia sa qualcosa appena, ma che si consola pensando che in fondo sia dell’una che dell’altra non si può sapere che qualcosa appena, si fa sempre più persuaso che ha un concreto bisogno delle certezze della scienza ma anche della suggestione di una poesia, che ha bisogno, allo stesso tempo pur se in maniera diversa, di quello che la scienza gli rivela e di quello che gli nasconde la poesia con l’ingannevole promessa di rivelarglielo un’altra volta, con un’altra metafora, sorprendente e nuova.
Ecco, forse è questo l’elemento che la scienza e la poesia ( l’arte, comunque) hanno profondamente in comune: aggiungere sempre qualcosa al conosciuto, sorprendere l’umano sulle infinite possibilità dell’umano ma con la consapevolezza che c’è sempre qualcosa al di là di qualsiasi conoscenza. Allora si può pensare che la relazione tra scienza e poesia sia addirittura necessaria. In fondo, come si fa a sapere se al fisico che indaga l’universo ad un certo punto non possa servire l’intuizione annotata in una poesia, se alla sua cognizione non serva un’emozione, e come si fa a sapere quali contributi possano venire alla poesia dalla scoperta delle onde gravitazionali, per esempio, se una formula matematica non possa risultare funzionale alla compiutezza di un verso.
Poi, probabilmente, il gioco continuerà al modo di sempre, con il fisico che cercherà di sciogliere i nodi e con il poeta che cercherà di stringerli più forte.
Arte e scienza, allora, cominciano da un punto, proseguono per strade differenti, per ritrovarsi poi, dopo esperienze profonde e diverse, allo stesso punto, ancora una volta con lo stesso stupore, e da lì cominciare un’altra volta il giro, all’infinito.
Ma il percorrere strade diverse non esclude una più o meno occasionale, più o meno ricercata, reciprocità. In un suo saggio famoso intitolato “Scienza e letteratura”, Ezio Raimondi riporta un passo della prefazione alle “Ballate liriche” in cui William Wordsworth sostiene che se le fatiche dell’uomo di scienza creeranno mai una rivoluzione materiale diretta o indiretta, nella nostra condizione e nelle impressioni che generalmente riceviamo, il poeta non dormirà più di adesso. Sarà pronto a seguire i passi dello scienziato, non solo negli effetti indiretti generali, ma gli sarà vicino. Le più remote scoperte del chimico, del botanico, del mineralogista, saranno temi adatti alla sua arte, se mai verrà il tempo in cui questi argomenti saranno famigliari, se mai verrà il tempo in cui quella che ora si chiama scienza sarà pronta ad assumere, per così dire, forma di carne e sangue.
Sono passati più di duecento anni da quando Wordsworth scrisse queste cose. Avrebbero dovuto chiudere ogni discorso sulla contrapposizione fra arte e scienza, fra pensiero umanistico e pensiero scientifico. Non è accaduto. Una serie di ragioni ne hanno fatto da impedimento, fra cui il settorialismo disciplinare, l’esagerazione della specializzazione, l’esasperazione della tecnica, l’esaltazione della tecnologia, forse anche una serie di incomprensioni o di egoismi culturali.
Ma forse questo è il tempo giusto per cambiare il modo di pensare. Perché in questo tempo, attraverso un’opera di divulgazione straordinaria, la scienza ha assunto, come diceva Wordsworth, una forma di carne e di sangue.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica, 9 dicembre 2018]