di Guglielmo Forges Davanzati
I processi di automazione e digitalizzazione dei processi produttivi sono alla base di quella che alcuni analisti definiscono – forse enfaticamente – quarta rivoluzione industriale. L’Italia arriva tardi (il c.d. Piano Calenda è del 2017, a fronte di una misura analoga attuata in Germania fin dal 2011) e ci arriva con una struttura produttiva fragile e resa ancora più tale dalla crisi e dalle errate risposte di politica economica (con perdita del 12% del Pil nell’ultimo decennio e del 25% della produzione industriale). Ci arriva anche non avendo attenuato il dualismo regionale che strutturalmente la caratterizza e che vede (poche) imprese di grandi dimensioni collocate lungo l’arco alpino in grado di innovare e di intercettare i cambiamenti tecnologici in atto a fronte di una pletora di imprese di piccole-medie dimensioni prevalentemente collocate al Sud, poco innovative e non pronte a utilizzare gli sgravi fiscali previsti dal Piano Calenda per l’ammodernamento degli impianti. Ci arriva anche senza una idea chiara su come incentivare le innovazioni, se si considera che – pure a fronte delle criticità del Piano Calenda – l’attuale Governo sembra muoversi in una direzione diversa, depotenziando gli strumenti previsti dal Governo precedente.
Queste criticità si riversano anche sul nuovo ruolo che la formazione è tenuta a svolgere. Ha ancora senso, almeno per le grandi imprese 4.0 che domandano lavoro 4.0, un’Università irrigidita da vincoli burocratici dei quali ai più sfugge il senso e articolata in settori disciplinari? Ha ancora senso l’ANVUR, l’agenzia nazionale di valutazione della ricerca, che, attraverso una valutazione che premia il conformismo (valutando la sede delle pubblicazioni, non il loro contenuto), accentua lo specialismo? Ha ancora, cioè, senso tutta l’eredità delle ultime continue riforme del sistema universitario italiano per la grande impresa che prova a intercettare i cambiamenti di Industria 4.0?
Parrebbe proprio di no, almeno se si considera che l’attuazione delle innovazioni rese disponibili dalla quarta rivoluzione industriale, per i segmenti alti della forza-lavoro (quadri, dirigenti), richiede un maggior investimento in conoscenze di carattere generale e minore specialismo. Questa necessità è del resto implicata da qualunque avanzamento tecnico, dal momento che la sua rapidità rende rapidamente obsolete le mere competenze – il saper fare immediatamente spendibile – acquisite nelle scuole e nelle aule universitarie.
Si può rilevare, infatti, la discrasia esistente fra le politiche formative pubbliche e la ricerca e la crescente disaffezione, da parte di alcune sedi universitarie, del mondo imprenditoriale e, per riflesso, di alcuni esponenti politici nei confronti delle ‘rigidità’ dei percorsi formativi introdotti dalle riforme degli ultimi anni. Disaffezione che si concretizza nella richiesta di maggiore interdisciplinarietà e di maggiore investimento in conoscenze, sapere critico, c.d. ‘intelligenza emotiva, al fine di far interiorizzare abiti mentali funzionali all’apprendimento. Due esempi possono essere sufficienti. Il primo: il Ministro Calenda, nella fase di discussione e attuazione del programma che prende il suo nome, ha manifestato grosse perplessità nei confronti dell’accentuazione dello specialismo indotta dall’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca, definendola “roba assurda”. Il secondo: in una recente intervista rilasciata al Sole-24 ore, il Rettore del Politecnico di Torino ha ben fotografato le necessità di quella parte dell’imprenditoria italiana: “lo studente deve essere contaminato [per] renderlo più flessibile e capace di qualificarsi in un ramo che ancora oggi non tira e che domani tirerà”. In questo scenario, è verosimile attendersi l’accentuazione di effetti di polarizzazione dei sistemi formativi – effetti peraltro già in atto – con sistemi formativi finalizzati a formare lavoratori high-skilled in aree del Paese con maggiore concentrazione di imprese innovative e sistemi formativi per lavoratori low-skilled nelle aree periferiche. Una polarizzazione, peraltro, che vede l’intera economia italiana late comer nella ristrutturazione capitalistica su scala globale e nella capacità di intercettare le innovazioni della quarta rivoluzione industriale. L’evidenza empirica disponibile nel caso italiano sembra mostrare che questa doppia polarizzazione è già in atto. Si registra, in particolare, che:
- a) L’86% delle imprese italiane non ha attuato alcuna trasformazione in impresa 4.0 secondo i criteri Mise. L’8.4% delle imprese 4.0 sono nella classe dimensionale 250 addetti e oltre;
- b) su fonte Ministero dello sviluppo economico, nel Centro-Nord la diffusione delle tecnologie digitali è intorno al 9.5% – nel confronto con la diffusione di tecnologie mature – contro il 6% circa del Sud.
Non sembra casuale il fatto che il Ministero dello sviluppo economico abbia selezionato alcune sedi universitarie – prevalentemente localizzate a Nord, con eccezione di Napoli e Bari – per sostenere i processi innovativi delle imprese 4.0, creando, di fatto, una sorta di sistema formativo ‘parallelo’ a quello istituzionale, che si articola direttamente all’interno dell’impresa (attraverso la formazione professionale) in regime di contrattazione decentrata.
E’ probabilmente prematuro provare a prevedere quali traiettorie seguirà la quarta rivoluzione industriale (ammesso che di rivoluzione si tratti), ma si può oggi intuire una linea di tendenza che va nella direzione di generare – in assenza di una guida politica dell’innovazione stessa – una profonda revisione dei sistemi formativi, nella direzione di un sostanziale superamento dei dispositivi di valutazione messi in atto negli ultimi anni e di un peso crescente della formazione (non solo tecnico-ingegneristica) fatta dentro l’impresa con l’eventuale collaborazione di alcuni poli ‘di eccellenza’, decretati tali da quella parte del sistema produttivo italiano interessato e pronto a intercettare le innovazioni. Si tratta, al momento, di un percorso ancora embrionale che peraltro relega in secondo piano l’interlocuzione con le organizzazioni sindacali e con lo stesso Ministero dell’Istruzione. E che, soprattutto, accentua le divergenze regionali anche sul piano dell’istruzione e della formazione.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 9 dicembre 2018]