di Gianluca Virgilio
Scienza e bellezza in un mondo pieno di spiriti
Nel giro di un paio di anni, Ferdinando Boero, zoologo marino dell’Università del Salento, ha pubblicato due libri che non hanno nulla di scientifico nel senso tradizionale del termine e che quasi certamente non entreranno a far parte del lungo elenco di pubblicazioni che lo studioso genovese vanta. Infatti, entrambi i volumi non presentano le consuete asperità delle pubblicazioni universitarie: note, citazioni dotte, linguaggio spesso incomprensibile per eccesso di specialismo, bibliografia finale che nessuno mai legge, ecc., ed evidentemente sono destinati ad un pubblico ben diverso da quello degli universitari (studenti e colleghi docenti), sicché chiunque potrà trarre profitto dalla lettura scorrevole e piana, ma non meno dotta, dei due libri. Il primo si intitola Ecologia della bellezza. I gusti della natura, Besa, Nardò 2007, pp. 158 (n. 11 della collana “Astrolabio”); il secondo Ecologia ed evoluzione della religione, Controluce, Nardò 2008, pp. 215 (n. 7 della collana “Riflessi”). Ne darò conto congiuntamente perché meglio risulti il pensiero dell’autore su due questioni di pubblico interesse, la bellezza del mondo e la religione.
La bellezza del mondo
“Ho fatto diverse recensioni di libri e, nelle recensioni, uno deve dire in poche parole quale sia il messaggio del libro. Se dovessi fare la stessa operazione per quel che ho scritto direi che il messaggio è che noi viviamo in un mondo bellissimo e che siamo bene attrezzati, sensorialmente, per apprezzare la bellezza”. Con queste sintetiche parole Boero “recensisce” (p. 157), in conclusione, il suo stesso libro Ecologia della bellezza.
Sulla soglia del volume, lo scrittore aveva dichiarato: “Ecco, questo libro nasce precisamente da questo problema: è possibile una scienza della bellezza che non sia marcatamente soggettiva e che non possa essere in qualche modo valutabile anche da esseri aridi come gli scienziati?” (p. 13). Il presupposto del discorso è che noi esseri umani “siamo capaci di fare cose belle ma oggi siamo sempre più inclini a farne di orrende. Se non altro perché siamo troppi e produciamo un impatto devastante anche per il solo motivo di esistere” (p. 26). Il lettore lo avrà capito: Boero cerca di utilizzare la scienza per definire qualcosa che corrisponda alla nozione di “bello”. Soltanto dopo aver individuato su basi scientifiche ciò che è bello, lo si potrà convenientemente salvaguardare, per es. in un parco naturale. Oggi è possibile una simile operazione, perché gli strumenti per farla ci sono tutti. Sentite questa esaltazione del paradigma scientifico: “La scienza unifica le culture perché è la sola cultura universale. Non ha vincoli regionali e non ha connotazioni storiche. Le leggi della termodinamica restano le stesse fin dal tempo della loro formulazione, e resteranno le stesse. Così come la teoria cellulare (…). Se sarà dimenticata, in un’età di oscurantismo, sarà riscoperta esattamente come è ora, in una nuova epoca illuminata. Mentre, se si perderanno le tracce della cultura attuale, nessuno riscriverà la Divina Commedia di Dante, o Sofa di Frank Zappa.” (p. 48). Da una parte, dunque, Boero avverte la specificità e unicità culturale dei prodotti della civiltà (Dante, Zappa), da salvaguardare, dall’altra ha per certo che solo la scienza può far ciò, rivestendo un carattere atemporale e universale.
Qua e là nel volume si avverte una certa nostalgia del tempo andato, il tempo dell’infanzia e della giovinezza, che spesso fa capolino nella pagina come quel tempo irrecuperabile, ma in cui si è venuta formando e consolidando la nostra personalità in un mondo non ancora sporcato dalla spazzatura. Molto interessante è il paragrafo in cui Boero commenta il comandamento Non fornicare, oggetto di molti equivoci in età infantile e che ora lo studioso propone come imperativo morale per tutti coloro che operano nel campo della scienza, e non solo: “Non fornicare significa non mescolare quel che la natura ha separato, o, ancora, non fare accoppiamenti contro natura, che poi è la stessa cosa” (p. 104). La proposta che nasce da queste pagine, dunque, è di grande apertura verso il mondo, che ci riserva e ci riserverà sempre delle sorprese. Sulla scorta di Carlos Castaneda, letto in gioventù, Boero riprende la figura dello stregone (A scuola dallo stregone è un titolo di Castaneda) e del suo particolare sguardo sul mondo: “Il vero stregone è chi riesce a vedere i fili d’erba, chi riesce a percepire quello che altri non vedono. Non vede cose soprannaturali, vede l’apparentemente banale che ci circonda. E’ lì che vivono le cose fuori di noi, le cose che alla fine, nella loro apparente insignificanza, condizionano la nostra vita. Chi riesce a vedere queste cose vede di più, sa di più…” (p. 133). Non c’è bisogno di droghe per ottenere una nuova visione del mondo, ma molta applicazione e dedizione. Il messaggio è dunque questo: che la bellezza c’è, ma non basta guardare, occorre saperla (educarsi a) vedere.
Quando lo scienziato vede gli spiriti
A distanza di appena un anno dal suo primo libro, Boero pubblica Ecologia ed evoluzione della religione, Controluce, Nardò 2008, pp. 215, che reca in copertina non so se un sottotitolo o un messaggio pubblicitario del seguente tenore: “Da uno scienziato una visione “funzionalista” della religione”.
Scrive Boero: “Questo libro, però, non ha lo scopo di fornire una documentazione su come si sia evoluta la religione, si chiede invece perché si sia evoluta e abbia avuto così grande successo. Non mi interessa molto ricostruire quel che è avvenuto, con estremo dettaglio, mi interessa capire perché la nostra specie è religiosa, perché la religione è così diffusa in tutte le culture”. (p. 44) Per far questo Boero prende le mosse da alcune esperienze extranaturali, in cui degli spiriti (per fortuna benigni!) sono entrati in contatto con lui. Boero si dice, dunque, testimone e protagonista di queste esperienze extranaturali, ch’egli non saprebbe spiegare da un punto di vista scientifico, ma alle quali crede pienamente. “Io sono agnostico (…) – afferma -. Ho fede nelle potenzialità del mio apparato sensoriale, e sono ingenuo nei suoi confronti. Credo a quel che mi racconta. Non ho pregiudizi positivi o negativi sull’esistenza o meno di qualcosa che i miei sensi non possono percepire. Se non lo posso percepire non mi interessa né in positivo né in negativo”. (p. 124). Ora, perché Boero ci racconta queste cose? La risposta è che le sue esperienze extranaturali gli hanno fatto maturare la convinzione che “avere fede in uno spirito la cui esistenza è stata rivelata da qualcuno che lo ha visto, che è entrato in contatto con lui (e che magari è stato persino toccato da lui), è un primo passo per la costituzione di una religione” (p. 40). “Insomma, la religione è il marchio di fabbrica della nostra specie. Fa parte integrante della nostra cultura” (p. 48). A dare ragione a Boero c’è il fatto che pare non esistano e non siano mai esistiti popoli sulla faccia della terra che non abbiano sviluppato uno spirito religioso. La domanda che ne deriva, allora è: come si spiega l’universalità della religione? La risposta per Boero è che “l’uomo è un animale sociale e ha sviluppato la cultura proprio per comunicare, ed è forse proprio la religione il primo motore di questo processo. Tutte le culture umane hanno sviluppato una qualche forma di religione e spesso le manifestazioni culturali sono tutt’uno con quelle religiose.” (p. 54). Questa è, dunque, la tesi cardine, “l’idea che ha portato a scrivere questo libro: la religione è la principale forma di cultura che l’uomo ha evoluto per agevolare e promuovere la socialità. Quanto più un individuo ha comportamenti sociali, tanto più sarà una “brava persona”” (p. 126). Così si spiega anche la definizione di “visione funzionalista” assegnata all’opera in copertina.
La religione delle meduse
Insomma, per formare una società “abbiamo bisogno dei riti” (p. 115). Si badi: Boero ci tiene a tenere un sufficiente distacco dall’oggetto del suo studio: “Mi spiace – egli dice -, non sono per nulla religioso. I riti mi annoiano profondamente, anche se trovo affascinante la lettura dei testi sacri. (…) … a me piace di più studiare le meduse che le religioni, credo che avvicini di più a dio. Sono gli animali più semplici…” (p. 151), scrive con tono disarmante. Lo annoiano i riti e non sopporta molto gli intermediari tra il mondo degli umani e il mondo dell’al di là: “Il rapporto tra chi crede e chi è creduto dovrebbe essere diretto, e non mediato da terzi” (p. 148); e poi ancora: “Le domande che mi pongo sono: abbiamo davvero bisogno di qualcuno che faccia da tramite tra noi e il mondo degli spiriti? Abbiamo davvero bisogno di giustificare il nostro essere delle brave persone con il fatto che quello è il volere di Dio? Dopo tanti anni di evoluzione culturale, non potremmo capire che è giusto comportarsi in modo socialmente corretto semplicemente perché così si deve fare?” (p. 156). Egli è contro ogni religione istituzionalizzata (“… immagino un mondo senza religione (istituzionalizzata)” p. 152), ma pensa anche che, per il bene dell’umanità, occorra non trascurare l’azione degli intermediari religiosi, “scendendo a patti” con essi: “Usare dio come strumento di convinzione è una bestemmia. Ma non abbiamo altra strada che abbia un barlume di speranza. Allora forse dobbiamo scendere a patti con quei signori dagli strani vestiti, che parlano in strani edifici, dicono strane parole con una strana cadenza…” (p. 162). Ed io mi chiedo se non implichi uno “scendere a patti” anche la convinzione di Boero circa il ruolo del cristianesimo nella costituzione europea. Egli dice in proposito: “In questi mesi si sta discutendo moltissimo della costituzione europea, e molti chiedono a gran voce che vengano citate le radici cristiane dell’Europa. Non trovo che sia una richiesta bislacca. (…) Le nostre radici culturali sono nel cristianesimo…”. (p. 137). Forse, data la varietà e la complessità del nostro passato, varrebbe un supplemento di riflessione in proposito. Tuttavia, Boero non ha dubbi che lo spirito religioso degli occidentali si sia molto affievolito. Lo vede bene nel confronto che egli fa tra i teo-con e gli islamici fondamentalisti: “Oggi i cristiani sono molto forti fisicamente, ma la loro spiritualità si è affievolita. I teo-con, i nuovi fondamentalisti, non sono affatto pronti a morire in nome della loro religione, sono pronti a uccidere. Chi va a combattere deve essere pagato profumatamente, mentre dall’altra parte i combattenti fanno a gara per raggiungere il luogo degli scontri e per morire da martiri eroi. La nostra spiritualità non arriva al punto di vederci felici in caso di morte durante uno scontro armato, la loro sì. La nostra forza fisica è superiore alla loro, ma la loro spiritualità è superiore alla nostra” (p. 146); mentre sarebbe bene che la nostra religione “si facesse i fatti suoi”: “Ci sono religioni che “si fanno i fatti loro”, come quella dei miei amici papua, e ci sono religioni che non si accontentano di essere padrone a casa propria”. (p. 136).
Una nuova religione per il terzo millennio?
Nella parte finale dell’opera, Boero elenca quelli ch’egli chiama i tredici comandamenti di Mae (lo spirito che glieli ha suggeriti, a cui egli crede per averlo visto personalmente). Li riporto, sia perché sarebbe utile seguirli nella nostra vita quotidiana sia perché costituiscono un compendio della saggezza di Boero:
“Resta sempre bambino nel tuo spirito.
Sorridi sempre, ma sii serio dentro.
Cerca di capire gli altri, conoscendoli.
Non pensare di essere migliore di chiunque altro.
Cerca sempre di essere il migliore.
Rispetta l’ambiente che ti circonda.
Segui la conoscenza.
Combatti l’ignoranza.
Parla senza ambiguità.
Pensa sempre a quello che dici.
Evita di dire quello che pensi se questo può ferire un innocente.
Quando pensi a Mae salutalo, ti sta sorridendo.
Non aspettarti che Mae risolva tutti i tuoi problemi, ha altro da fare.”
(pp. 173-174).
Viene da chiedersi, a questo punto, se Boero non voglia fondare una sorta di religione del terzo millennio. La domanda è legittima, dal momento ch’egli dichiara esplicitamente che i comandamenti gli sono stati suggeriti dallo spirito di nome Mae (Boero, quindi sarebbe il suo profeta). In realtà, la conclusione vera dell’opera è in un richiamo, di matrice tutta illuministica, alla responsabilità dell’uomo contemporaneo: “Dobbiamo fare in modo che il livello culturale delle persone aumenti, che aumenti la loro consapevolezza” (p. 160); fino all’illuminazione finale, che già Leopardi anticipò due secoli addietro: “Ecco, forse ci sono. Il peccato originale è l’assolutismo, il pensare che noi siamo al centro del creato, è un peccato di superbia che ci mette al di sopra di tutto e ci fa perdere di vista quanto siamo piccoli a confronto del resto dell’universo. E forse Dio voleva farci capire che poi non siano così importanti, che il mondo non è lì solo per noi, che ci ha concesso un grande privilegio ma che non dobbiamo esagerare a pensare di essere il centro di tutto. Certamente noi siamo importanti per … noi. Ma questo non ci autorizza a pensare di essere i più importanti tra gli esseri dell’universo” (p. 189).
Ci vuole una maggiore consapevolezza individuale e collettiva da una parte, e dall’altra una seria riflessione sulla nostra “superbia” antropocentrica. Questo è il messaggio che Boero ci trasmette, non so se col tono dello scienziato utopista o con quello di chi nutre un autentico spirito religioso, e ad esso si affida, in conclusione.
(Recensione a Ferdinando Boero, Ecologia della bellezza. I gusti della natura, Besa, Nardò, 2007; Ferdinando Boero, Ecologia ed evoluzione della religione, Controluce, Nardò 2008), “Il Paese Nuovo” di giovedì 8 ottobre 2009, p. 6, poi in unigalatina, 7 luglio 2011.