di Guglielmo Forges Davanzati
La saldatura che si è creata fra leghisti e parte della cosiddetta sinistra radicale, sul tema del controllo dei flussi migratori, è un segno piuttosto inquietante del declino del dibattito pubblico in Italia. Secondo politici ed economisti che si riconoscono in questa comune visione del ‘problema’, l’Italia accoglierebbe troppi immigrati e l’immigrazione costituirebbe un problema per i nativi, dal momento che, accrescendo la concorrenza nel mercato del lavoro, sottrarrebbe loro posti di lavoro e ne ridurrebbe i salari.
Si tratta di una tesi radicalmente falsa, che non coglie la reale natura del fenomeno. E’ innanzitutto una tesi falsa sul piano fattuale, dal momento che, come documentato su fonti ufficiali, l’Italia accoglie meno immigrati della media europea e meno dei Paesi centrali del continente (Germania in primis). I residenti non nati in Italia costituiscono circa il 10% della popolazione, a fronte di più del 13% del Regno Unito e di oltre l’11% della Francia. E’ poi una tesi falsa sul piano della più elementare logica economica. La visione leghista – sostenuta anche da intellettuali provenienti dalla sinistra radicale – rinvia alla riproposizione della teoria marxiana dell’esercito industriale di riserva, secondo la quale all’aumentare dell’offerta di lavoro segue una riduzione dei salari. Con ogni evidenza, questo effetto presuppone che la forza-lavoro sia omogenea, ovvero che i lavoratori abbiano le medesime abilità e competenze. E ciò, nei fatti, non è. Anche nei casi nei quali gli immigrati sono dotati di elevato titolo di studio, nel momento in cui arrivano in Italia (anche per effetto della lacunosa legislazione sul riconoscimento del valore legale delle loro lauree) si offrono, di norma, in segmenti del mercato del lavoro nei quali non sono richieste particolari competenze tecniche. Per questa ragione, l’immigrazione può esercitare un effetto di compressione dei salari degli italiani solo in questi segmenti del mercato del lavoro, ovvero solo laddove le competenze richieste dalle imprese sono di livello medio-basso. In più, utilizzando categorie marxiane, gran parte di coloro che sbarcano sulle coste italiane ingrossano semmai la fila del sottoproletariato.
Ciò che non funziona nella narrazione ormai dominante è l’eccesso di semplificazione. Sul tema dei flussi migratori si giocano molteplici variabili, fra le quali quelle che probabilmente pesano maggiormente sono – per i Paesi d’arrivo – la deindustrializzazione (fenomeno globale, molto accentuato in Italia) e il calo demografico (anche questo fenomeno globale, almeno per i Paesi OCSE, molto accentuato in Italia e ancor più nel Mezzogiorno).
La deindustrializzazione, quantificata con il calo dell’incidenza della produzione industriale sul Pil, implica una consistente riduzione della domanda di lavoro qualificato e, per conseguenza, l’aumento della domanda di lavoro con basso livello di istruzione. La deindustrializzazione, peraltro, accentua il profilo relazionale dell’attuale configurazione del capitalismo – su scala globale, anche in questo caso, e ancor più in Italia. Se, cioè, la domanda di lavoro qualificato si riduce, diventa sempre più necessario, per il singolo datore di lavoro, rivolgersi a propri conoscenti o parenti per trovare occupazione. Si tratta dei cosiddetti legami deboli, nel primo caso, legami forti, nel secondo caso. E si tratta di legami che gli immigrati difficilmente possono sfruttare.
Il calo demografico è il secondo fattore in gioco. A fronte di un tasso di sostituzione quantificato in almeno due figli per donna, l’Italia registra un ben modesto 1.35. Ciò significa che – nonostante il ‘nativismo – la popolazione italiana è inevitabilmente destinata a ‘mescolarsi’ con altre etnie. Si badi che il calo del tasso di natalità non è un dato di natura. E’ piuttosto il risultato di politiche del lavoro che, sebbene non intenzionalmente, hanno prodotto questo esito. Si pensi alle misure di precarizzazione del lavoro e, più in generale, alla notevole compressione della quota dei salari sul Pil che si è registrata almeno nell’ultimo ventennio (ancora una volta su scala globale, con significativa accelerazione in Italia).
Le ragioni per le quali gli immigrati possono e di fatto contribuiscono alla crescita economica sono ben note: mantengono in attivo il saldo demografico, con effetti positivi sul tasso di crescita della produttività del lavoro (per molte mansioni, al crescere dell’età dei lavoratori occupati si riduce la loro produttività), contribuiscono al sistema pensionistico (dal momento che pagano tasse accedendo meno degli italiani ai servizi di welfare), attivano consumi (soprattutto in ragione del fatto che, in media, sono giovani e i giovani tendono a esprimere una propensione al consumo maggiore rispetto a individui più anziani).
Vi è di più. Un aspetto quasi mai considerato nel dibattito sulle immigrazioni, riguarda il dato stando al quale sono molte – e in numero crescente – le imprese gestite da immigrati. Unioncamere calcola che a fine 2017 circa un’impresa su 10 con residenza in Italia è di proprietà di stranieri, e che molte di queste sono proprietà di individui provenienti da Paesi poveri.
Nonostante queste evidenze, la dottrina del nativismo mostra una notevole capacità di resistenza. E’ plausibile ipotizzare che ciò dipende dal fatto che essa si propone come baluardo in difesa dell’ordine sociale, messo sotto attacco (almeno nella percezione di una parte consistente della popolazione italiana) dallo straniero. Questa paura si salda con gli interessi della base elettorale della Lega, ovvero con gli interessi delle piccole imprese prevalentemente localizzate al Nord, che, non essendo in grado di competere mediante innovazioni, hanno perso significativi margini di profitto negli anni della crisi. Istat calcola, a riguardo, che solo il 10% delle imprese italiane non ha registrato cali di profitto nell’ultimo decennio. Queste imprese non sono interessate a un aumento dell’offerta di lavoro, dal momento che, con margini di profitto ridotti e con crescente difficoltà di accesso al credito, non assumono. In più, ed è un elemento rilevante, sono, di norma, imprese il cui proprietario ha un basso titolo di studio, e la bassa scolarizzazione tende ad associarsi a propensioni xenofobe.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di Venerdì 2 novembre 2018]