di Maurizio Nocera
L’occasione del primo incontro con l’artista Claudio Vino mi fu data dalla mostra leccese Pasolini Matera, incentrata sul film Il Vangelo secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini, organizzata sui materiali fotografici di Domenico Notarangelo, che a quel film non solo aveva partecipato come comparsa (è il centurione romano che ordina al cireneo di prendere la croce di Cristo, nel momento in cui quest’ultimo, sulla via crucis di Gerusalemme, non ce la fa più a reggerla), ma che aveva svolto (ovviamente su richiesta di PPP) le funzioni di suo vigilante (in quanto segretario della Federazione Giovanile Comunista Italiana di Matera), poiché in quel periodo temeva delle aggressioni fasciste. Nell’occasione delle riprese del film, Notarangelo scattò alcune immagini sul set, divenute ormai famose. Egli non era il fotografo di scena (quel compito lo aveva Angelo Novi, già fotografo di altri grandi registi italiani), tuttavia “scattò”, col tacito consenso del regista, quelle foto così straordinarie che mai nessuno di noi avrebbe potuto immaginare. Ma questa, delle eccezionali foto di Mimì Notarangelo è un’altra storia, che merita un capitolo a parte.
Torniamo alla mostra di cui scrivevo prima. Essa stava nella mente di Alessandro Turco il quale, in collaborazione con i figli di Notarangelo (Mario, Beppe e Tony), l’aveva allestita nei locali del Museo della Stampa “Martano e figli” di Lecce. Tra l’altro, Turco previde anche un incontro con l’artista Claudio Vino, in contemporanea con il critico d’arte Alvaro Spagnesi, che tenne una magnifica lezione sulla pittura di PPP. Quando arrivò il turno di prendere la parola l’artista barese, invece che parlare di sé, lasciò parlare alcune immagini di un video intitolato Il nulla lucente. Fu così che vidi per la prima volta questo video clip-opera d’arte.
Ovviamente, al momento, non conoscevo il pittore Vino, e quella fu l’occasione di conoscerci e scambiarci qualche parola, soprattutto dopo la visione del video e dopo aver saputo che quelle struggenti immagini egli le aveva dedicate a PPP e a sua figlia Ilaria, morta giovanissima in seguito ad un intervento chirurgico importante. Mi disse subito che non si era trattato di malasanità, tuttavia la pena che lessi nei suoi occhi fu così grande, che difficilmente riesco oggi che scrivo a cancellarla.
Mi fece dono di una brochure, pur’essa intitolata Il nulla lucente. A Pier Paolo Pasolini e alla dolcissima Ilaria. Leggendola,vengo a sapere che si era tenuta (15-30 giugno 2012) una mostra di Claudio Vino (pittore) e Gianni Zanni (fotografo) presso il Centro polifunzionale per gli studenti (ex Palazzo Poste) di Bari, con annesso un seminario su Pasolini intervista Pound: l’esperienza pura del delirio, alla quale intervennero il sindaco Michele Emiliano e diverse altre personalità tra critici d’arte, docenti dell’Ateneo barese e altri cultori di PPP. In seguito, e sempre a cura di Claudio Vino, fu pure pubblicato un opuscolo con lo stesso titolo e con gli interventi dei relatori del convegno, fra cui il saluto dello stesso sindaco Emiliano, e poi via via di seguito, Pasquale Voza (Università di Bari), Alessandro Cobianchi (presidente Arci Puglia), Corrado Petrocelli (Rettore Università di Bari), Angela Felice (Direttrice Centro Studi Pasolini di Casarsa), Mario Sechi (Università di Bari), Giuseppe Bonafacino (Università di Bari), Domenico Notarangelo (giornalista e scrittore), Francesco Tateo (Università di Bari), Valeria Dell’Era (poeta), Alvaro Spagnesi (storico dell’arte).
Il nulla lucente è un’opera d’arte a tutto tondo, che è impossibile cancellare dalla mente. Con essa l’artista, che è Claudio Vino, denuncia la logica della morte, di cui, in assoluto, è portatore il nazifascismo e qualsiasi altro tipo di stragismo. Altresì, e questo è un dato di non poco conto, l’artista ribadisce più volte il concetto che il poeta è sacro, e per tale motivo va sempre salvaguardato. Quando un poeta (PPP) viene ucciso, comunque sia avvenuto tale assassinio, il popolo urla: «Hanno ucciso un poeta!»; «Un poeta hanno ucciso!».
Dopo avere visto il filmato, le immagini e i suoni si registrano così profondamente, che l’inconscio, di tanto in tanto, te le riproietta su un sipario immaginario. Non è facile descrivere alcune immagini, tanto forte è il pathos che si vive. Si tratta di una continua sequenza di installazioni curate da Vino e fotografate da Zanni. Già la prima immagine ti dà un colpo psichico formidabile. C’è la scritta a caratteri cubitali Petrolio, romanzo incompiuto (Einaudi 1992) di PPP, accanto ad un altarino celestino pallido del tipo di quelli descritti da Gabo Marquez in Cent’anni di solitudine. La musica struggente, che accompagna le immagini, è così penetrante nelle pieghe dei sensi che, come contrizione dell’anima, scende fino alle più intime dimensioni dell’inconscio. È nella comunione dei differenti elementi artistici organizzati nel clip, che ti permettono poi di accorgerti che in esso c’è la storia, la sofferenza, il dolore di PPP e di Ilaria. Del primo quel che tutti noi di lui sappiamo, della seconda quello che di lei non sappiamo, ma iniziamo già a sospettare: la struggenza e la doglianza. Nei vocabolari non esistono queste due ultime parole, eppure mi viene di scriverle e sottolinearle, perché è questo il sentimento che provo nel vedere Il nulla lucente.
Dentro le immagini e i suoni del video intuiamo quale sia stata la struggenza di Ilaria Vino nel metabolizzare la storia di vita di PPP, morto tragicamente (ucciso) il 2 novembre 1975 sul litorale ostiense. E ancora, attraverso le stesse immagini sentiamo su di noi la cappa dolente che ci avvolge nel sapere dell’incredibile fine di Ilaria, morta che aveva appena 21 anni. È a questo punto che lo sconforto ci assale trasformandosi come pietas di un’intera umanità, umanità spesso trafitta come da un chiodo crocefigero simile a quello del Cristo del Calvario. Ecco: è questa la doglianza che ci gonfia dentro nel vedere e nel sapere di PPP e di Ilaria. È questo quel tanto di sacro laicale che è possibile distinguere ne Il nulla lucente, un “nulla” che, paradossalmente, si magnetizza nella nostra mente come un reliquiario, denso di immagini che trasbordano la stessa dimensione del sacro. I continui riferimenti ai versi del PPP della Poesia in forma di rosa (1964) fanno sì che l’opera di Claudio si gonfi di armonie tradimitazionali, dove si condensano le vite vissute, i miti, alcune certezze. PPP scrive: «Io sono una forza del Passato./ Solo nella tradizione è il mio amore./ Vengo dai ruderi, dalle chiese,/ dalle pale d’altare,/ dai borghi/ abbandonati sugli Appennini o le Prealpi»
Le icone immaginali si accavallano come i semi di un antico rosario ai piedi dell’altare di un dio che dio non è, se è vero, com’è vero, che la tragedia di PPP appare confusa in quella di Ilaria, anche lei, martire della modernità, caduta sotto i ferri di una sala operatoria lucente. E tutto concorre a fare di questo video opera d’arte un’ode densa di nostalgia. Ecco un’altra parola cruciale dell’opera di Claudio Vino e delle fotografie di Gianni Zanni. Tutta l’opera ne è intrisa intimamente. Qui, la parola nostalgia sta per sguardo pietoso dell’artista per la perdita di una persona a lui molto cara. Si tratta di quel nostos (ritorno) e algos (dolore), vale a dire “dolore del ritorno” o, meglio, “dolore derivante dall’impossibilità di portare indietro il tempo”, che per Vino dovrebbe essere il tempo del sorriso lucente della figlia Ilaria viva. Il nulla lucente è un’opera d’arte nostalgica, non di quella mielosa e romantica scaturente tra due fidanzatini appena separati dal destino, ma si tratta di un esempio di nostalgia che, sia pure nel dolore del ricordo, rasserena la mente, proprio com’era nelle intenzioni di Andrej Tarkowskij nel film Nostalghia.
Così Il nulla lucente si alimenta, immagine dopo immagine, di un canto melodioso di un uccello (forse un usignolo); di continue icone sindoniche dei volti di PPP e di Ilaria; di cornici-gocce di vetro apparentemente fuori contesto ma che invece rappresentano l’involucro dentro al quale Vino ha enucleato la sua struggenza, la sua doglianza, appunto la sua nostalgia. C’è poi una lirica e un deserto assolato dal vento, degli angeli anime vaganti, la voce di un Domencio Modugno che canta Mio folle amore, e un’altra fuori campo che tristemente dice “addio, addio”. C’è poi un classico volto di Carlo Marx e quello ormai noto di un povero cristo desolato e mantegnato. E ancora, in un’altra teca spicca un cuore rosso sanguinare. È il cuore di Ilaria. A un certo punto ti chiedi: ma che ci stanno a fare in delle altre piccole teche sotto vetro quel cellulare, quel vestitino, quella maschera nera dal quale emergono due splendidi occhi? Sono l’essenzialità di Ilaria, che ora dorme sonni eterni.
Il nulla lucente continua a emozionare, affondando in noi come la zagaglia nel costato dei martirizzati (PPP e Ilaria). Così ci appare il nuovo altarino infiorettato di rosso, i volti del regista pescati dal Vangelo secondo Matteo, un airone colpito da un dardo, e una serie di lettere alfabetiche che si susseguono tra carte stropicciate, croci conficcate in pezzi di legno, un cardiogramma intriso di sangue vivo, e ancora un cuore (quello di Ilaria) sforbiciato su un centrino di pizzo ricamato nella forma della lettera H. E ancora: il volto della ragazza, il suo candore, il bianco della morbida pelle, la purezza dello sguardo, e quelle enormi sublimi ali bianche di un angelo evanescente. Il ramo di mirto con delle bacche nere si staglia nel vuoto lucente, che forse è il vuoto, il nulla. Appunto.
Il nulla lucente è infine una mano, una mano su delle macerie, una mano e altre mani che chiedono pietà, che domandano aiuto, che implorano vita. Le vite (quelle di PPP e Ilaria) che ora non ci sono più e che mai più torneranno. E tuttavia, un amico poeta, per vincere il dominio della morte tra gli uomini ha scritto: «Forse la morte non porta/ via tutto, o forse volevo/ solo dirti di un luogo di luna,/ di un castello imbiancato/ dai respiri di Idrusa» (Antonio L. Verri).
Così è. Ed è vero. Forse la morte non porta via tutto: nell’anfratto più recondito della nostra mente, resta sempre quell’immagine di dolcezza del volto a noi caro che, nei momenti del più cupo dei nostri sconforti, ci illumina di un Nulla lucente.
«Una mattina mi son svegliato,/ o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!/ Una mattina mi son svegliato/ e ho trovato…».
(2013)