Di ritorno dall’Albania

di Maurizio Nocera

Appena qualche settimana fa ero in Albania, a incontrare vecchi amici e amiche, che conosco ormai da più di cinquant’anni. Per lo più si tratta di anziani (come me d’altronde) scrittori e scrittrici. Quand’era vivo, primo fra tutti, il buon Dritëro Agolli (Menkulkas, 13 ottobre 1931 – Tirana, 3 febbraio 2017), ma poi anche Nasho Jorgaqi (Fieri, 1931), Tatiana e Gjikë Kurtiqi, la cara Teùta Hoxha, altri e altre ancora. È un vero piacere incontrarli e conoscere dalla loro diretta voce la storia del loro paese, in quanto conservano tutt’intero il sapere millenario del loro popolo, custodito con una memoria quasi maniacale. Quando mi capita di parlare con loro, mi indicano sempre il loro paese col nome di Shqipëria (paese delle aquile). Questo mi fa sorridere, perché comprendo la loro abitudine (giustamente) a chiamare il proprio paese col nome che loro conoscono sin dall’infanzia. Perché poi, siamo noi italiani a chiamare il paese dirimpettaio a noi Albania (col quale nome viene chiamato internazionalmente), perché – almeno così mi spiegava il vecchio scrittore otrantino Antonio Corchia – tale paese si trova là dove per noi sorge l’alba.

Ovviamente per me non era la prima volta che mi recavo a Tirana. Credo che la prima sia stata agli inizi degli anni ’70 (forse il 1972) del secolo scorso. Ad aprirmi la strada verso quel paese fu Tommaso Fiore, da me conosciuto al tempo in cui egli era direttore responsabile del periodico «Lotta partigiana», pubblicato in quel di Bari e col quale collaboravo. Fiore era stato già in quel paese nel 1964. Interessante la sua relazione su quel viaggio, tenuta il 2 dicembre di quello stesso anno presso la sede romana dell’Associazione Italia-Albania. Per cui, una volta tornato in Italia, il vecchio Fiore invitava spesso noi giovani a fare quell’esperienza cognitiva in un paese che si diceva essere sotto la dittatura comunista e con le frontiere chiuse ermeticamente.

Dopo quella prima volta, per me, che facevo parte di quell’associazione, i viaggi in Albania divennero quasi annuali perché, essendo salentino, quindi vicino all’altra sponda adriatica, mi veniva affidato il compito di guida. In particolare, il ricordo va ad uno di quei viaggi – quello del 1982 – perché, al ritorno, scrissi un Diario d’Albania, che Carlo Caggia, allora responsabile de «Il Corriere Nuovo» di Galatina, lo pubblicò su quel periodico.

Ma perché i salentini guardano spesso oltre l’Adriatico? Credo che per noi si tratti di un confine di frontiera e quindi, in quanto frontalieri, non possiamo distogliere lo sguardo da quella che è la nostra realtà geo-politica. Questo dato storico-fisico ha permesso una lunga amicizia tra i nostri due popoli. E ciò vale nonostante le alterne vicende storiche del secolo passato, spesso dovute alle differenti visioni governative dell’una e dell’altra parte. L’amicizia tra il popolo italiano e quello albanese data da secoli se non da millenni. In fondo a dividerci ci sono solo 70 miglia marine, che separano Capo d’Otranto (Palascìa) da Valona (Punta Linguetta). Fra questi due nostri popoli c’è sempre stato uno sforzo continuo per approfondire la conoscenza sul piano della cultura, delle tradizioni popolari e dei sentimenti di entrambe le parti, come pure da sempre ampio e approfondito è stato l’impegno per rafforzare i legami d’amicizia e dell’accoglienza. Albanesi combatterono in Italia durante il nostro Risorgimento unitario; Italiani combatterono in Albania durante tutte le battaglie per la loro indipendenza nazionale. E poi, per venire ad eventi più recenti, basta guardare all’impeto fraterno che caratterizzò i pugliesi all’indomani dell’esodo albanese all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso per avere la giusta dimensione di quel sentimento.

Ma torniamo all’oggi. L’Albania non è più quella di una volta. E la capitale Tirana ancora meno è quella di una volta. In poco più di 25 anni dalla caduta del regime comunista, oggi Tirana si presenta del tutto nuova, con nuovi palazzi, nuove strade, nuove aree verdi e un nuovo assetto urbano. Ciò che del passato è rimasto è il corso centrale, che dall’hotel “Tirana” porta all’università. Su questa strada rimangono ancora in piedi i palazzi costruiti durante il fascismo e che il regime di Enver Hoxha, nel novembre 1944, non gettò a terra, ma ne fece la sede di vari ministeri.

Nel corso dei secoli spesse volte i pugliesi si sono trovati coinvolti con gli albanesi negli stessi avvenimenti, e non è una leggenda se entrambe le origini dei nostri antenati hanno una comune matrice. Se scorriamo rapidamente le pagine della storia millenaria del popolo albanese, ci rendiamo conto di quanto esso ha dovuto lottare contro le dominazioni straniere che, di volta in volta, l’hanno preso di mira con la prospettiva di cancellarne la storia, la cultura, la lingua, perfino l’etnia. Ovviamente si è trattato sempre e solo di tentativi, perché poi il popolo albanese, nonostante le secolari occupazioni, è riuscito sempre a tenere la testa alta e a non farsi mai definitivamente annientare. La storia lo dimostra.

Dritero Agolli mi raccontava spesso che gli attuali albanesi sono gli ultimi discendenti degli antichi Illiri, popolazione di lingua indo-europea stanziatasi sin dai tempi dell’età del bronzo nei territori corrispondenti oggi in quella stessa area albano-balcanica. Si ha notizia di questa popolazione dagli antichi autori greci e latini, che per primi usarono la denominazione “illirici” per le tribù che la componevano. Lo storico Polibio (II secolo a. C.) riferisce abbastanza diffusamente degli scontri sostenuti, per mare e per terra, dagli Illiri prima con i Greci e poi con i Romani: i Greci avevano colonizzato le coste adriatiche, mentre i Romani avevano bisogno di aprirsi una strada per i traffici con l’Oriente (la costruiranno nel II secolo, dopo aver sottomesso gli Illiri, e saranno le famose vie Egnazia e via Appia). Particolarmente significativo è quanto racconta lo stesso Polibio a proposito della terribile regina degli Illirici, Teùta, vedova di Agrone, la quale a quanto pare fu un’irriducibile avversaria dei disegni espansionistici di Roma, stringendo alleanza con gli Epiroti contro i Greci e i Romani. Ancora oggi, Teùta è un nome molto diffuso fra le donne albanesi, così come molti uomini si chiamano Ilir collegandosi all’antico nome degli Illiri.

Dritero, ma anche Nasho, e Teùta, ed anche Tatiana e Gjikë, mi hanno raccontato spesso di ciò che avvenne al popolo albanese nel XV secolo quando l’Albania cadde sotto il dominio ottomano. La resistenza opposta dalle popolazioni albanesi a quell’invasione è scritta nell’epopea di Gjergj Kastrioti Skënderbeu (Kruja, 6 maggio 1405 – Lezhë, 17 gennaio 1468) [su questo straordinario eroe popolare albanese esiste una vastissima bibliografia; cito solo due libri per me fondamentali: Gino Pallota, Scanderberg principe degli albanesi (Roma 1967) e Kristo Frasheri, George Kastrioti Scanderberg (Tirana 1962).

I miei amici scrittori e scrittrici albanesi mi dicono che Giorgio Castriota Scanderberg (nome italianizzato) fu signore di Kruja, che riuscì a riunire sotto un’unica bandiera le diverse signorie, superando le divisioni e i contrasti. Unì altresì questi nobili albanesi nella Lega di Lezhë, di fatto un’alleanza politico-militare contro l’impero ottomano. Le vicende sono note: solo quando Scanderberg morì, l’Albania cadde sotto il gioco ottomano e cominciò la prima grande emigrazione di massa di quel popolo. Molti esuli di quell’epoca si diressero sulle coste del Salento, su quelle della Puglia, verso la Basilicata, la Calabria, la Sicilia, con qualche punta d’immigrati che raggiunse gli Abruzzi, l’Umbria e le Marche. Accadde allora un po’ quello che è accaduto più recentemente, agli inizi degli anni ’90, quando, ancora una volta, e questa volta per altri motivi, vi fu un nuovo esodo di massa.

È significativo sapere che, proprio nel periodo della dominazione ottomana dell’Albania, le armate della “Sacra Porta” salparono da quelle coste per attaccare e distruggere la nostra Otranto. La storia ci dice che era il 29 luglio 1480 e il navarca ottomano greco-turco, nonché gran visir Gedik Ahmet Pascià (… – Edirne, 18 novembre 1482), una volta tornato prima a Valona poi a Costantinopoli, fu strangolato per avere usato in Otranto tanta crudeltà.

La dominazione ottomana dell’Albania durò più di quattro secoli. Per gli albanesi le speranze di indipendenza cominciarono a concretizzarsi solo nella seconda metà del XIX secolo quando venne fondata (10, giugno 1878) a Priznen (Kosovo) la Lega per la Difesa dei Diritti della Nazione Albanese comunemente conosciuta col nome di Lega di Prizren; nel 1884 invece nacque a Costantinopoli la rivista «Drita» (Luce), scritta tutta in lingua albanese, che si fece interprete dei sentimenti nazionali e indipendentisti del popolo; alcuni anni dopo questo evento, nacque a Korcia la prima vera scuola nazionale albanese. Negli anni 1910-11, numerose rivolte costrinsero il governo turco a fare delle concessioni. La situazione precipitò quando l’Italia dichiarò guerra alla Turchia per cui, l’anno successivo, lo fecero anche tutti gli Stati balcanici. Gli Albanesi decisero allora di riunirsi a Valona, la prima città ad essere liberata dagli insorti, e in essa, il 28 novembre 1912, nella casa del patriota Ismail Qemali (Valona, 16 gennaio 1844 – Perugia, 24 gennaio 1919), proclamarono l’indipendenza nazionale.

Era la prima volta, dopo l’epopea di Scanderberg, che si riparlava di unità nazionale in Albania. Il nuovo governo chiese subito il riconoscimento del nuovo Stato alle grandi potenze, che lo concessero, ma ad un duro prezzo: sarebbero state loro stesse, e non gli albanesi, a fissare le frontiere del nuovo Stato, e questo non secondo i confini naturali, ma secondo i calcoli delle monarchie confinanti. Tuttavia anche questa indipendenza fu di breve durata, perché le stesse monarchie calarono nuovamente sul giovane Stato nel tentativo di sottometterlo e smembrarlo. Così gli albanesi ripresero a lottare. Questa situazione di belligeranza continuò fino al 1920, allorquando il popolo riuscì nuovamente ad eleggere una nuova Assemblea nazionale ed un nuovo governo di unità patriottica presieduto da Theofan (Fan) Stilian Noli (Ibriktepe, 6 gennaio 1882 – Fort Lauderdale-Florisa-Usa, 13 marzo 1965), vescovo ortodosso e scrittore.

Nasho Jorgaqi mi dice che Fan Noli non governò a lungo, in quanto le potenze straniere, brigando e intrigando, fomentarono dei dissidi religiosi (musulmani contro cristiani, cattolici contro ortodossi) istigando sentimenti nazionalistici con l’obiettivo di dividere nuovamente il popolo e lo stesso Stato albanese. Su tutto ciò egli ha scritto un grosso volume, intitolato appunto Fan Noli (Shtëpia botuese Dudaj, Tirana, 2003).

A questo punto ci vuole poco per capire che siamo all’aggressione fascista dell’Albania del 7 aprile 1939, della quale mi parlano Teùta e Tatiana dicendomi che il popolo ricominciò a lottare riacquistando la sua indipendenza e la sua libertà il 29 novembre 1944. Si tratta di una pagina importante e significativa non solo per l’Albania, ma per noi italiani e perfino per la stessa Europa. Ma questo della Resistenza albanese è un altro capitolo a parte.

Da parte sua mi dice Gjikë (un buon scrittore di favole e direttore di più di un giornale) mi dice che la lotta contro il nazifascismo portò nuovamente alla solidarietà tra il popolo italiano e il popolo albanese. Molti dei soldati italiani, rimasti sbandati dopo l’8 settembre 1943 e abbandonati da buona parte dei loro comandi militari, si unirono ai partigiani albanesi, formarono il battaglione “Antonio Gramsci”, ed entrarono a far parte dell’Esercito di Liberazione Nazionale. All’interno della formazione partigiana italiana ci furono diversi pugliesi e salentini. Tra questi è da ricordare la tredicenne leccese Annunziata Fiore, figlia di un lavoratore avellinese trasferitosi in terra albanese alcuni decenni prima. L’elenco dei leccesi combattenti in terra shqipëtara è abbastanza lungo. Sono citati nei libri: Liri Populit. Partigiani italiani in Albania (Firenze 1974); Enzo Misefari, La resistenza degli albanesi (Milano 1976); N. La Marca, Italia e Balcani fra le due guerre (Roma 1979).

Le vicende successive alla seconda guerra mondiale, che riguardano l’Albania, sono dell’oggi e abbastanza note. Qui, a chiusura di questo breve Ritorno dall’Albania, mi piace ricordare alcuni saggi di autori salentini come, ad esempio, quello del pittore Vincenzo Ciardo, che scrisse Albania degli anni Trenta, resoconto di un suo viaggio del luglio 1928 in quel paese; e poi quello di Bianca D’Amore, Storia delle minoranze etniche. L’Albania di Terra d’Otranto (Apulia, dicembre 1975); il libro di Pierfranco Bruni, La Puglia arbereshe, grecanica, franco-provenzale (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2009); Domenico De Rossi, Cenni storici sui rapporti tra il Salento e l’Albania nei primi anni del secolo XX (Ass. Italia-Albania di Gallipoli, Galatina, Editrice Salentina, ottobre 1979); Mario Proto, Albania oggi (Ass. Italia-Albania di Lecce, novembre 1986); Enzo Panareo, Tommaso Fiore e l’Albania (idem); Giorgio Casalino, L’Italia e l’Albania (idem); Lina Santamaria, Gli albanesi di Terra d’Otranto (idem).

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