La linea di ricerca di Stefano Zamagni

di Guglielmo Forges Davanzati

Stefano Zamagni è uno dei più autorevoli economisti italiani, impegnato anche sul fronte politico, da decenni, per regolamentare il non-profit e, più in generale, il cosiddetto Terzo Settore. La sua attività scientifica è prevalentemente rivolta allo studio delle complesse intersezioni fra etica ed economia e il libro che presenterà oggi a Trepuzzi (Prudenza, Il Mulino, 2015), dialogando con Giacomo Fronzi e con chi scrive, ne costituisce un brillante esempio.

Per lungo tempo, nella Storia del pensiero economico, la dimensione etica dell’agire economico è stata sostanzialmente espunta dal discorso economico. Ciò è essenzialmente da imputare al prevalere, a partire dagli anni settanta dell’Ottocento, dell’approccio neoclassico e della conseguente ridefinizione del campo d’indagine dell’Economia, concepita come scienza che studia i problemi di allocazione di risorse scarse fra usi alternativi dati. Questo approccio richiede di considerare l’agente economico come un individuo che, in assenza di condizionamenti storico-sociali e in un vacuum istituzionale, massimizza una propria funzione-obiettivo (assunte esogene le preferenze), dati i costi monetari e di tempo (la c.d. razionalità strumentale). Di norma, la funzione-obiettivo include argomenti che attengono esclusivamente al proprio interesse, sebbene occorra chiarire che, sul piano strettamente logico, non si può dedurre che l’assioma della razionalità strumentale sia incompatibile con qualche forma di comportamento pro-sociale o altruistico.

Nei tempi più recenti, maggiore attenzione, anche da parte di economisti di orientamento neoclassico, è stata data alle motivazioni etiche dell’agire economico, con particolare riferimento allo studio dei meccanismi che sono a fondamento della genesi e della propagazione delle norme morali.

Nella tradizione liberista, in una linea di ricerca che, idealmente, va da Mandeville ad Hayek e a Rand è semmai l’egoismo a essere considerato una virtù, dal momento che è solo il perseguimento dell’interesse individuale che consente di raggiungere il massimo benessere sociale.

Una linea di ricerca più recente, nell’ambito di questo orientamento, estende l’approccio tradizionale, rilevando che anche i comportamenti pro-sociali, altruisti, finalizzati alla condivisione, possono essere razionalizzati all’interno della cornice metodologica dell’individualismo e dell’utilitarismo. Tecnicamente, ciò si realizza includendo nella funzione di utilità del singolo agente anche l’utilità di altri individui con i quali egli si relaziona. In tal senso, è razionale essere morali. Sul piano macroeconomico, si teorizza che la propensione al rispetto dei codici etici è funzione del tasso di crescita del Pil, secondo la seguente sequenza causale. Al crescere del reddito procapite gli individui tendono a soddisfare innanzitutto i loro bisogni primari per poi soddisfare bisogni lato sensu relazionali, incluso il ‘bisogno di solidarietà’. In tal senso, si stabilisce che la crescita economica è anche crescita morale. A ciò si aggiunge che, per effetto dell’aumento del reddito medio, e della conseguente diffusione dei ‘bisogni di solidarietà’, aumenta la domanda di fairness che i consumatori esprimono nei confronti delle imprese. In un contesto nel quale vige la ‘sovranità del consumatore’, sono in ultima analisi le scelte dei consumatori a orientare la scala e la composizione merceologica della produzione, che, per l’operare di effetti di reputazione, incentiva le imprese a riorientare l’offerta verso beni con maggior contenuto di ‘eticità’. In tal senso, si può affermare che – in questo contesto teorico – è razionale essere morali. Più in generale, in questo ambito teorico, si rileva che la distribuzione del reddito, in un’economia di mercato deregolamentata, riflette il contributo individuale alla produzione, così che, in una condizione di equilibrio, il salario reale unitario eguaglia la produttività marginale del lavoro. Questa condizione, oltre che costituire una condizione di efficienza, può essere anche considerata come una condizione di equità, nella specifica accezione dell’etica produttivistica – ovvero di una visione etica per la quale è giusto che ciascuno si appropri di quella parte del prodotto sociale che ha contribuito a generare.

La linea di ricerca di Zamagni si discosta da quella dominante e propone una visione del rapporto fra dimensione etica e dimensione economica di significativo interesse.

Il volume che verrà oggi presentato, di agevole lettura anche per i non addetti ai lavori, è idealmente suddiviso in due sezioni. Nella prima l’autore ripercorre storicamente il modo in cui si è arrivati al paradigma oggi dominante in Economia, basato sull’assioma della scelta razionale, ovvero sull’assioma in base al quale gli agenti economici effettuano, in ogni circostanza di tempo e di luogo, indipendentemente da condizionamenti storico-sociali, la scelta più conveniente, che si assume essere, di norma, una scelta egoistica, auto-interessata. Qui, Zamagni rileva alcune aporie di questo assioma, che interrogano la fallacia costruzione antropologica della teoria economica dominante. In particolare, viene fatto osservare come quest’ultima non dica nulla in merito alla desiderabilità dei fini che gli agenti economici si propongono (occupandosi solo della coerenza fra strumenti e obiettivi) e come essa si occupi esclusivamente del rapporto uomo-merce, mai del rapporto uomo-uomo, dunque mai della intersoggettività. Nel primo caso, viene fatto osservare che che i fini che si perseguono hanno rilevanza fondamentale per lo studio delle scelte economiche e, ancor più, per la comprensione dei loro effetti. E’ estremamente riduttivo, ad esempio, interrogarsi solo sul mezzo migliore per arrivare a un obiettivo, se questo obiettivo è autolesionistico. Nel secondo caso, la fondamentale distinzione che viene posta a riguardo è fra utilità (che attiene appunto al consumo di beni e servizi) e felicità (che non può non riguardare i rapporti intersoggettivi). L’autore riprende la cosiddetta economics of happiness¸ ovvero la tesi (suffragata da numerosi riscontri empirici) per la quale l’aumento del reddito non si associa a un aumento della felicità, per qualunque indicatore si voglia adottare per quantificarla. Possedere grandi ricchezze non rende felici, in molti casi rende infelici, per numerose ragioni, fra le quali la paura di perderle. Ma, in un meccanismo perverso di ostentazione dei consumi, i possessori di grandi ricchezze sono indotti a competere fra loro; e la competizione sui consumi vistosi rende i partecipanti al gioco sempre più ossessionati dalla ricerca della ricchezza, sempre più impegnati nel lavoro, sempre meno nelle relazioni interpersonali, sempre più timorosi di perdere le ricchezze accumulate, per conseguenza sempre meno felici.

La seconda parte del libro è più direttamente riferita alla prudenza. La categoria della prudenza non trova spazio nell’analisi economica dominante ed è tuttavia di massimo rilievo per comprendere le fondamentali disfunzioni del capitalismo contemporaneo. Il riferimento, ancorché implicito, è a un fenomeno noto come breveperiodismo, ovvero l’attitudine – propria del mondo della finanza – a perseguire obiettivi di brevissimo termine. L’attitudine breveperiodista e dunque l’assenza di prudenza – osserva Zamagni – è, per sua natura, distruttiva. Ha costi sociali altissimi (si pensi alla tutela dell’ambiente), è intrinsecamente connessa a comportamenti anti-sociali (l’avidità), per molti aspetti – ed è questa la tesi conclusiva del libro – è l’origine ultima della lunga crisi economica che le economie industrializzate stanno vivendo da ormai un decennio e, connessa a questa, dell’esplosione delle diseguaglianze.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di Giovedì 18 ottobre 2018]

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