Da Montmatre a Montparnasse

di Paolo Maria Mariano

Quel territorio intellettuale che Enrique Vila-Matas cercava quando passò due anni del settimo decennio del Novecento a Parigi, nella soffitta di Marguerite Duras, lo sfiorò soltanto, forse per età, forse solo per ventura. Quel territorio, quello che il nome Duras sembrava da lontano promettere implicitamente all’allora giovane Vila-Matas, aspirante scrittore, era abitato da altri, molti di quelli che avevano attraversato la guerra, la ricostruzione successiva della società, le dispute ideologiche, talvolta trasformatesi in ottuse e irragionevoli battaglie. Edgar Morin è stato ed è ancora un abitante del centro di quel territorio: l’ambiente dell’Intelligenza francese e del Novecento.

Il padre, sefardita di Salonicco, aveva il sogno di Parigi e lì riuscì ad andare a fare il commerciante, e lì il figlio Edgar nacque l’8 luglio 1921, in rue Meyran, nel nono arrondissement, ai piedi della butte Montmatre, e da lì le strade del padre e del figlio si divisero, almeno nello spirito, alla scomparsa della madre quando il bimbo aveva dieci anni, per poi ricongiungersi quando il tempo del padre ormai declinava nella vecchiaia.

Edgar Morin attraversa la guerra nella resistenza, una sorta di ufficiale di collegamento che si avvicina prima all’esperienza socialista, connesso al Fronte Popolare, e poi s’iscrive al Partito comunista, pur continuando a interagire con gruppi diversi: un sommergibile, per il gergo dell’epoca. È quello il tempo in cui cambia nome e documenti varie volte, per le esigenze belliche. Alla fine, il suo nome proprio rimane, Edgar, ma il cognome da Nahoum diventa Morin (nome di battaglia). Le ragioni della decisione del cambio e la circostanza sono lasciate sfumate nei pensieri biografici che Morin ha raccolto nel suo Mon Paris, ma mémoire, tradotto in italiano lo stesso anno della sua edizione francese pubblicata da Fayard (La mia Parigi i miei ricordi, Raffaello Cortina Editore, 2013). Chiaro è invece il motivo del suo iniziale rifiuto, dopo la seconda guerra mondiale, di intraprendere la carriera dell’insegnamento per il fastidio provato al pensiero di dover rifare lo stesso corso per trent’anni. Accetterà il ruolo di addetto allo Stato Maggiore francese, nel 1944, e di Capo Ufficio Propaganda del governo militare, nel 1946, così passerà tempo a Berlino, trovando materiale per il suo primo libro, L’an zéro de l’Allemagne, che gli permetterà, una volta rientrato a Parigi, di cominciare a scrivere per riviste e giornali. Nel 1950 entra nel CNRS (la versione francese e forse più funzionante dell’italiano Consiglio Nazionale delle Ricerche), nella sezione di antropologia sociale, e comincia la sua carriera di sociologo e filosofo, accompagnata da un’intensa attività pubblicistica: fonda e dirige dal 1956 al 1962 Arguments, una rivista culturale ispirata dall’italiana Argomenti, partecipa alla scrittura di una sceneggiatura, ma poi se ne distacca prima della fine, diventa un onnivoro conoscitore di cinema e ne scrive (l’idea iniziale era una ricerca per il CNRS), e così di seguito, seguendo essenzialmente la propria curiosità e un forte sentimento di liberta intellettuale, esercitato con prudenza, sebbene questa non gli abbia impedito di essere espulso dal Partito comunista nel 1951, pur rimanendo nell’ambito della sinistra francese. Erano gli anni di quella che Milosz avrebbe chiamato “lingua di legno”: la non ammissibilità ideologica di posizioni critiche. E Morin ne aveva progressivamente prese con i suoi scritti, in contrasto al nucleo leninista-stalinista dell’esperienza comunista. L’iniziale critica istintiva si nutriva poi degli strumenti del sociologo e rafforza il punto di vista della sua analisi sociale.

«L’abbé Pierre lancia nell’inverno del 1954 il suo appello all’“insurrezione della bontà” per salvare dal freddo i miserabili. La risonanza è immensa. L’evento in sé è di grande portata simbolica: è il ritorno della carità cristiana nel declino delle solidarietà tradizionali e nell’assenza di ogni prospettiva rivoluzionaria in grado di far sparire la miseria.

Il declino della cultura operaia coincide con il declino del Partito comunista. Le periferie rosse diventano periferie d’immigrati; le periferie dei lavoratori dopo il 1973 diventano periferie dei senza lavoro; le periferie dell’integrazione diventano periferie della disintegrazione; tutto ciò certamente è lento, progressivo, invisibile nel tempo breve, ma prende forma e senso nei trent’anni che vanno dal 1962 al 1992»  (pag. 155).

Lo spirito critico si esercita, talvolta perfino aspro, anche sulle tendenze culturali che ha incontrato nel suo percorso. In merito è illuminante il pensiero sullo strutturalismo: «Nell’antropologia lévi-straussiana, nel marxismo althusseriano, nella psicoanalisi lacaniana, nella semiotica barthesiana, nel primo Foucault, l’uomo è abolito in quanto illusione, la nozione di Soggetto sembra arretrata e dà persino la nausea a François Wahl, editore di queste nuove correnti a Seuil, e, quanto alla Storia, essa è volatilizzata. Per Lévi-Strauss, lo scopo delle scienze dell’uomo è non di rivelare l’uomo, ma di dissolverlo. Beninteso, l’opera dei pensatori strutturalisti brulica di raffinatezze e di sottigliezze ma prospera su fondamenti grossolani o inconsistenti. Così, durante quella che ai suoi ammiratori e accoliti sembra una nuova era dei Lumi, planò sull’Intelligenza francese un grandissimo cretinismo e da lì si diffuse in gran parte del mondo» (pag. 161, 162).

L’asprezza si perde nelle descrizioni di Parigi, per le trasformazioni dei quartieri che lo spingono a cambiare casa. Parigi è solo vista con affetto, perfino quando appaiono brutture nel tessuto urbano, perché la città è, per lui, la sua culla, il mondo da cui può persino evadere ma dove, inevitabilmente, è tornato e ritorna.  «Ho conosciuto Parigi nella gioia, ho conosciuto Parigi nella fede, ho conosciuto Parigi nel turbamento, ho conosciuto Parigi allo stremo! » (pag. 233).

Lo stile di Morin è paratattico: frasi brevi, sincopate, una successione d’immagini favorita dall’uso del presente storico. La scelta stilistica è efficace nella descrizione della città, dei suoi mutamenti intestini, ed è anche d’aiuto a tratteggiare i tratti essenziali delle articolate vicende intellettuali e storiche che Morin ha attraversato. Dà invece un tono quasi superficiale all’insistita narrazione del suo disordine affettivo nella ricerca, che a tratti pare compulsiva, di relazioni – tutte etero, invero – spesso ostentatamente istintive, comunque un tratto dei tempi e degli ambienti frequentati. Nel parlare della sua persona, raccoglie, invece, più simpatia quando valuta il suo lavoro, peraltro del tutto rilevante. «Io non sono uno scienziato per gli scienziati, né un sociologo per i sociologi, né un filosofo per i filosofi, né uno scrittore per gli scrittori. È solo ai miei occhi che io sono tutto questo nello stesso tempo» (pag. 181).

Modulo il racconto delle vicende affettive, le memorie di Morin hanno un indubbio valore di testimonianza di eventi rilevanti per la Storia del Novecento, la testimonianza di un giovane novantenne che affronta il giorno con lo sguardo in avanti. «Il mio quartiere attuale è un concentrato della mia Parigi. In queste giornate di settembre che annunciano l’autunno, esco al sole e la vita mi invade, mi tonifica. Sulla piazzetta, nelle tre vie che vanno a incontrarsi l’una con l’altra, molti giovani liceali, studenti, ma anche anziani del quartiere, brava gente testimone della vecchia Parigi. Felice, sotto il dolce sole, mi immergo in questa mescolanza sociale e generazionale. Sento che la vita mi ama ancora, che vuole ancora darmi gioia, che mi vuole ancora» (pag. 217). Così anche noi, dopo la lettura, possiamo chiudere il libro e fare quattro passi, se c’è il sole.

 

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