di Walter Nardon
Da due giorni si era messa a cucire borse di pezza. Dato che per un mese intero non era uscita di casa, sua madre lo aveva valutato come un indiscutibile segno di miglioramento e l’aveva pregata di trasferirsi in cucina in modo da permetterle di ripulire la stanza e cambiare la biancheria. Certo, continuava a parlare poco, forse una quarantina di parole al giorno, ma il medico, che come ogni giovedì mattina era passato a visitarla, l’aveva trovata in lenta ripresa, tanto che attorno a lei era cresciuto po’ di ottimismo.
«L’origine dei mali di mia sorella», riassunse Carlo a Tom mentre camminavano verso l’ufficio, «è quel coglione di Pirrucci, il tizio di Cesena che viene qui a trovare sua zia, a cui in pratica deve tutto». Gli aveva infatti lasciato le redini di un’azienda di ceramiche ritirandosi a vivere in una baita che aveva fatto ristrutturare con finiture di lusso. Ogni momento libero lui le mostrava, molto comprensibilmente, un’invidiabile riconoscenza.
«É lui la causa dei casini di Samantha, anche se il fatto che lei abbia potuto immaginare che Pirrucci, con i soldi che ha, finisca per scegliere lei, che non ha patrimonio, né doti e neanche un minimo di bellezza fuori del comune – per quanto invece lei sia convinta del contrario – ti dà il quadro della sua salute mentale».
Il dubbio, quindi, non era tanto quello di capire se tutto ciò fosse frutto di una fantasia cresciuta su un’illusione amorosa, il che era parso fin troppo evidente a chiunque si fosse interrogato su di lei, quanto al contrario di capire se la sua convinzione non si fosse fondata su qualche circostanza o affinità con l’imprenditore che si poneva al di là di ogni considerazione elementare. In effetti, pensò Tom, c’era di che riflettere.
Per toglierla alle sue abitudini, Tom aveva provato più volte a suggerire a Carlo di spingerla a iscriversi a un corso di qualche tipo, ma la risposta era stata perentoria:
«Ma se non è neanche riuscita a finire il corso di yoga».
A conclusione del primo giro di interviste fra i referenti della realtà economica della valle, Tom stava scrivendo un rapporto per il capo progetto perciò passava la maggior parte del giorno in ufficio, attività più gradita rispetto alle riunioni serali, o alle giornate di front office che aveva dovuto tenere in tre diversi paesi nelle due settimane precedenti. Quella mattina accarezzava dunque la sensazione quasi inedita di andare al lavoro di ottimo umore.
A duecento metri dall’ufficio incrociarono Serena, la ragazza di Carlo, che parlava con una collega. Le salutarono, poi Serena si avvicinò al fidanzato:
«Sto andando dal commercialista, quindi non ho tempo da perdere, ma visto che non rispondi ai miei messaggi, vale la pena che te lo ricordi. Abbiamo fino a mezzogiorno per confermare la prenotazione: è chiaro? Perciò, o ti decidi a fissare il posto che dopo tanto siamo riusciti a trovare, oppure il mare per quest’anno possiamo scordarcelo».
«Va bene».
«No, non va bene. Decidi tu», disse, e se ne andò con l’amica, che si girò salutando Tom con la mano.
2.
L’equilibrio della famiglia di Carlo, che ogni giorno doveva sopravvivere ai contrasti fra gli effetti della necessità e quelli del desiderio, sorprendeva per la forma delle sue manifestazioni esteriori, tanto che molti compaesani e perfino alcuni amici, senza conoscere in dettaglio l’andamento delle dinamiche fra i tre componenti, lo vedevano come il frutto più evidente di un carattere fortunatamente tenace. La madre era molto volitiva, di Carlo si è già detto e perfino Samantha aveva sempre mostrato una certa forza d’animo. Il padre di Carlo era morto cinque anni prima in un incidente nel magazzino di cui era responsabile. Le ruote del carrello elevatore che stava guidando si erano infilate in una crepa del pavimento, provocando il ribaltamento del mezzo e la caduta delle tubature, finite addosso al conducente insieme al mezzo stesso: era morto sul colpo. Poiché dalla ricostruzione dell’accaduto erano emerse alcune inadempienze nell’osservanza dei dettami delle normative sulla sicurezza – di cui il padre di Carlo era ugualmente responsabile – con la complicità dell’assicuratore il sinistro era stato reinterpretato, tanto da offrire ai familiari una cifra ritenuta dignitosa, ma tale da tacitarne da allora e per sempre eventuali ulteriori richieste.
Le borse di Samantha erano di forma quadrata, per lo più di stoffa nera o blu, semplici borse della spesa cucite con una perizia neanche troppo diligente, non fosse stato che per qualche parola che aveva ricamato a mano su ciascuna e che lasciava intendere più di quanto l’incertezza della confezione riuscisse a testimoniare. Tom, che aveva intuito lo stato d’animo di Samantha, ne prese in mano un paio che Carlo aveva portato in ufficio e sorrise, stendendole sulla scrivania. La prima portava scritto: Umleitung, ossia “deviazione” il termine che si incontra nel mondo tedesco in prossimità di un cantiere stradale, l’altra Achtung, “attenzione”. Un po’ poco per vederci ricamata un’intera vicenda, ma abbastanza per capire che stava cercando di riprendersi.
A differenza di Carlo, a cui rodeva di avere a che fare per motivi di lavoro con Pirrucci, Tom stava cercando di venirne a capo. Il giovane aveva cercato di mostrarsi intraprendente, con i tratti – e i limiti – tipici della retorica manageriale imparata in fretta in qualche corso di psicologia del lavoro a cui la famiglia doveva evidentemente averlo iscritto subito dopo la laurea. Dal modo in cui parlava si avvertiva l’abitudine a essere ascoltato, e anche obbedito, ma il tono ondivago e una certa oltranza delle argomentazioni testimoniavano che era stato costretto troppo in fretta a mettersi nei panni di suo padre, ragion per cui, nonostante indossasse esclusivamente capi firmati, ora sembrava sempre portare dei vestiti smessi.
Chiuse la porta e si incamminò insieme a Carlo verso la macchina. Era la prima volta che lo invitava a casa per pranzo.
«Si può sapere quando ti deciderai ad andare in ferie?» chiese Carlo, scegliendo un pezzo alla radio.
«Fra una decina di giorni dovrei fare un giro, ma non ho ancora deciso».
«Beato te», disse Carlo.
Arrivarono in cinque minuti.
Nel cortile antistante la casa, la madre di Carlo, Olga, stava svuotando nel bidone di compostaggio un pesante secchio dell’umido. Fece un cenno al figlio che stava parcheggiando e continuò il lavoro.
Serena si affacciò alla porta.
«Ben arrivati», disse, «Era ora».
Al rientro di Olga, si misero a tavola: Samantha era in camera sua e forse sarebbe scesa più tardi.
Oltre a una frittata con le zucchine, c’era una grande varietà di verdura: pomodori secchi, tegoline, peperoni gratinati, insalata e poi formaggio e carciofi. Carlo stappò le birre.
Tom si fece avanti: «Vi ringrazio per l’invito».
Il soggiorno era molto accogliente, ma la madre non era in vena di convenevoli:
«Cosa ne pensa?» chiese, accennando alla figlia rinchiusa al piano di sopra.
«Mamma, perché devi subito rompergli il cazzo?», fece Carlo.
Tom alzò la testa: «Non lo so. Mi sembra che il miglioramento vada seguito giorno per giorno». Serena annuì vistosamente, passando a Carlo il piatto dei pomodori.
La madre scosse la testa: «Dico, le sembra possibile una cosa del genere?»
Carlo stava per intervenire, ma Tom lo fermò.
«Perché? Scegliamo di fidarci o di non fidarci di una persona molto prima di averla conosciuta. La guardiamo a distanza: ci piace, non ci piace. Tutto qui. E così, a dispetto di ciò che ci hanno insegnato e anche di quello che abbiamo imparato per esperienza, ce ne andiamo in giro con questa impressione che cresce dentro di noi finché per caso qualcuno – o soprattutto qualcosa – non arriva a confermare o a smentire quello che sentiamo». Parlava guardando il vecchio centrotavola di vetro: «La maggior parte delle volte va a finire così. Nelle altre, invece, speriamo e ci aspettiamo di poterci trovare bene con qualcuno al punto da poter vivere insieme per tutta la vita. E ci aspettiamo di tutto, anche quando abbiamo avuto esperienze negative. Non smettiamo mai di sperare. A volte, però, le cose non funzionano».
Olga rimase in silenzio. Poi si alzò e andò a prendere altra verdura.
Serena chiese se negli ultimi colloqui avessero incontrato altri aspiranti imprenditori fuori di testa, ma Carlo guardò Tom e disse: «Ma scusa, non bastiamo noi due per questo?».
Raccontò allora dell’impiegato che nel garage della sua piccola abitazione si era messo a progettare e costruire macchine per produrre scatole di cartone. Ai margini di un centro rinomato per l’attività sciistica, in una casa di montagna, si era dato a questo hobby che ora voleva trasformare in un business. E non c’era verso di poter valutare la cosa come dubbia: anche di fronte ai risultati più incerti delle analisi di mercato la sua convinzione era rimasta incrollabile.
Olga andò di nuovo in cucina e si fermò poi sulla porta del soggiorno con la teglia del tiramisù in mano. Si volse indietro, come per cercare qualcosa. Si sentirono dei rumori. Samantha, in camicia da notte, stava scendendo le scale. Quando arrivò a intravedere il tavolo da pranzo fece un cenno con la testa. Tutti la salutarono.
Era robusta, ma Tom non riusciva a capire davvero come fosse messa.
«Dice che sta meglio. Va a stendersi un po’ sul divano», chiarì Olga.
«Ma sì, sì, certo», disse Carlo.
Servirono il dolce. Serena, più che Olga, si era dimostrata un’ottima padrona di casa. Dopo il caffè, decisero di uscire un po’ e passarono in salotto.
3.
Samantha se ne stava semisdraiata sul divano come un’odalisca, con una mano a reggersi la testa e l’altra a sfogliare distrattamente una rivista di giardinaggio. Il suo cellulare era appoggiato sul tavolo. Una sottile camicia da notte bianca a fiori neri la avvolgeva in modo insufficiente, lasciando le gambe quasi del tutto scoperte. Quando Tom le fu davanti, lei non si scompose, e proseguendo nella sua lettura alzò solo lo sguardo verso di lui. In quel momento stavano uscendo anche Carlo e Serena. Si fermarono un istante:
«È Tom, il mio collega. Potresti anche salutarlo».
Con intonazione ironica, come per soddisfare la specifica richiesta del fratello, Samantha disse: «Buongiorno Tom».
«Buongiorno», rispose questi.
Sdraiata su di un fianco, aveva assunto una posa a metà strada fra il riposo e il tentativo di seduzione. Nell’aria, il profumo della sua crema idratante.
«Spero che si senta meglio».
«Sì, meglio», fece Samantha fermandosi sulla foto di una villa francese. Poi, d’un tratto, sapendo di essere sempre al centro dell’attenzione, aggiunse: «Se si sta chiedendo che cosa abbia trovato in quell’uomo, glielo dico subito: siamo due esseri umani, e in quanto tali abbiamo in comune le stesse necessità e gli stessi desideri».
Era un modo per dirlo, magari clamorosamente insufficiente, ma era pur sempre un modo per venirne a capo.
«Una somiglianza stretta», disse Tom.
«Esattamente. Non è forse quello che ci vuole?»
Nell’apparente incongruenza fra il modo di fare di Pirrucci e quello di Samantha poteva nascondersi perfino il segreto di un’affinità, che le sue parole cercavano di difendere. Mentre osservava il poster dei tre concerti del gruppo locale degli Ska-3 appeso alla parete, Tom rifletteva su una convergenza difficile.
Si girò verso di lei: «Pensa di fare qualcosa?»
Samantha alzò di nuovo gli occhi dalla rivista e disse, in tono gentile: «Io sto già facendo qualcosa».
Presentare con disinvoltura allo sguardo del collega di suo fratello ciò che la biancheria intima non aveva alcuna intenzione di coprire poteva sembrare una mossa un po’ audace, se l’intento era quello arrivare a catturare l’attenzione dell’uomo dai vestiti smessi; ma forse era più semplicemente una manifestazione della sovrabbondanza di Samantha, che non aveva problemi di strategia. Se contava di invitarlo, avrebbe dovuto farlo quando non ci fosse nessuno, perché né Carlo, né sua madre e forse neppure Serena – nonostante un’evidente solidarietà – lo avrebbero fatto entrare. Eppure, pensò Tom, il progetto era tanto insensato che avrebbe perfino potuto funzionare.
Frugando dietro il divano, Samantha tirò fuori una delle sue borse, di colore blu scuro, con la scritta «Exit» ricamata in corsivo, un po’ in obliquo. La porse a Tom, che ringraziò facendo un leggero inchino.
Piegò la borsa e se la mise in tasca. Guardò di nuovo Samantha, le sue unghie laccate di smalto prugna, la sua espressione serena, consapevole. Dentro di sé sentiva sorgere qualcosa che lo invitava a intervenire nell’irrealtà della vicenda, portando in luce quanto più poteva di quel piccolo disegno. Se solo si fosse presentata alla fine dei colloqui giornalieri, prima dell’arrivo dell’imprenditore, lui e Carlo avrebbero potuto scambiare due parole con Pirrucci e poi avrebbero potuto lasciarli soli in ufficio. In fondo, se gli avesse chiesto di favorire l’incontro in un luogo neutro, lontano dalla scena pubblica sulla quale Pirrucci avrebbe sempre potuto trionfare, Carlo non si sarebbe tirato indietro. La presenza di lei poteva essere giustificata dalla necessità di portare qualcosa al fratello. Che poi il posto fosse neutro, questo era tutto da dimostrare, visto che Samantha aveva la capacità di piegare alle sue intenzioni la natura di qualsiasi ambiente.
4.
Da quattro anni faceva le pulizie negli uffici comunali. Era stata assunta da un’impresa che si occupava delle strutture pubbliche di tre comuni, gestita da Maria Giovanna, una cugina di sua madre che era tornata poco prima da Viterbo. A differenza di quanto era accaduto nei mesi in cui aveva fatto la commessa in un negozio di cosmetici, di questa occupazione non aveva mai avuto modo di lamentarsi. Lavorava di sera o, nell’altro turno, la mattina presto, prima dell’apertura degli uffici. Gli operai che alle cinque e mezza uscivano di casa per andare alla fermata della corriera, ogni quindici giorni la trovavano puntuale ad attendere l’arrivo del furgone azzurro e verde della ditta, che si fermava dall’altra parte della strada. A volte aveva in testa un paio di grandi cuffie nere con cui ascoltava musica dal cellulare e portava con sé un borsone militare. Sul lavoro non aveva chiesto un giorno intero di permesso. Tornava a casa, dava una mano a sua madre, usciva il sabato sera con le amiche Cinzia e Sara. Per un paio di mesi, un anno prima, si era fatta accompagnare alla fermata del furgone da Jackson, un piccolo terrier nero che aveva raccolto randagio e poi ospitato in casa. Una mattina Enrico Edison, uno degli operai che aspettavano la corriera, per farle uno scherzo l’aveva preceduta e, nascosto dietro la siepe di casa sua, aveva catturato il cane che la seguiva, gli aveva dato un colpo, chiuso la bocca con del nastro e poi lo aveva messo nello sgabuzzino esterno di casa sua, nel vano di zinco dove un tempo teneva le bombole del gas. Il tutto, naturalmente, con la complicità degli altri operai: volevano capire come l’avrebbe presa. Lei la prese male, fece aspettare il furgone e percorrendo la strada a ritroso chiamò Jackson per quasi dieci minuti; ma il cane non rispondeva: terrorizzato, non smetteva di guaire e di tremare nello sgabuzzino dove era stato rinchiuso. Quando, a fine turno, Enrico Edison tornò a prenderlo, lo trovò morto. Capì che aveva sbattuto più volte la testa contro il gancio che un tempo teneva ferme le bombole e visto che ormai la cosa era fatta, lo fece sparire. Carlo ricostruì la vicenda al bar qualche tempo dopo.
5.
Non c’è davvero alcun dubbio che il seme delle relazioni umane cresca in una terra paradossale, dove a dar frutto spesso è quel che sembra in apparenza inconcepibile, più che ciò che invece molto ragionevolmente dovrebbe garantire la sicurezza del raccolto. In effetti, anche limitandosi al bilancio della sola esperienza, il risultato tende a confermare che i legami che mostrano un’evoluzione serena spesso vanno altrettanto serenamente in frantumi. Tom si era alzato lasciando un’e-mail a metà ed era uscito sul poggiolo: osservava lo stretto vicolo fra due case dal quale si intravedeva piazza Matteotti.
Come aveva detto a Rita a cena, la sera prima, ogni incontro conserva una sua forza segreta. A dispetto di tutte le apparenze, anche il caso di Samantha poteva rivendicare una possibilità. Rita lo aveva guardato di sotto in su, come se a lei non potesse darla a bere, ma si era detta pronta ad appoggiarlo. Così, per solidarietà verso Samantha, non aveva potuto far altro che cercare di esporre questo potenziale in tutta la sua estensione. Sarebbe andata come doveva andare.
Rita aveva replicato che poteva essere il primo passo di una professione promettente ma, al di là dello scherzo, lo aveva appoggiato.
Ora Tom aspettava un messaggio di Carlo, che era rimasto a sorvegliare l’ufficio.
Verso le sei e un quarto Samantha si era presentata con un completino viola, coperto da un soprabito discreto. Tacco alto, acconciatura che mostrava una cura più che paziente. Era pronta. Difficile capire cosa avesse in testa, o quantomeno cosa avrebbe detto. Visto che aveva imboccato quella strada, poteva essere davvero qualcosa d’imprevedibile. Si era messa in sala d’aspetto a scrivere in chat alle amiche, smanettando sul telefono. Non aveva detto niente, né a suo fratello, né a Tom, forse per conservare l’insondabile stato d’animo con cui si stava preparando.
Finito di parlare con Pirrucci, lui e Carlo se ne erano andati.
— Ancora niente –, scrisse Carlo, — Ma forse è meglio così. Sono dentro da circa mezz’ora –
— Ok. Resto in attesa –.
— Ok –.
Rientrò in casa per proseguire l’e-mail, riordinare un po’ di carte. Non è facile chiarire perché l’inverosimiglianza possegga un dominio tale da coprire ogni considerazione ragionevole.
«Non dico che sia sperare l’impossibile», aveva detto Rita, «ma sarai d’accordo che qui probabilità, a occhio, ce ne sono poche».
«Sì,», rispose Tom «ma qui la probabilità non c’entra: qui le cose o vanno, o non vanno. Quindi, ci fosse anche una sola possibilità, perché non farlo? Dato che non ci costa niente, vale la pena di darle una mano. Se mi dici che c’è il rischio che lei si esponga al ridicolo, lei per prima ne è consapevole, ma non se ne cura. Ritiene che ciò che sente sia degno di essere espresso a dispetto di qualsiasi considerazione. Questo le fa onore. Testimoni, comunque, non ce ne saranno».
La balaustra del poggiolo gettava un’ombra lunga sulle piante appoggiate in fila lungo la parete. Piante grasse per decorare l’appartamento, regalo di Olga.
Riflettendo, ora sorrideva un po’ della propria cautela, del fatto di essere uscito le prime due volte con Rita in un paese vicino, per evitare le domande di Carlo, che la conosceva.