di Antonio Errico
Ha detto una volta Luca Cavalli Sforza che, fra tutte le sue esperienze scolastiche, la traduzione dal latino è stata l’ attività più vicina alla ricerca scientifica, cioè alla comprensione di quello che è sconosciuto. Proprio questo è l’importante, ha detto: esercitarsi nel procedimento logico-induttivo che è necessario in qualunque ricerca, quel che gli inglesi chiamano l’inferenza scientifica. Il processo di base è lo stesso in tutto il sapere.
Se una cosa del genere la dice un latinista, un umanista in senso generico e generale, allora si può anche pensare che stia tirando acqua al mulino in cui macina il suo grano. Ma Luca Cavalli Sforza è uno scienziato, un genetista, che acqua comunque non deve portarne a nessun mulino se non a quello della serietà e della qualità del pensiero orientato alla ricerca. Di conseguenza la sua affermazione induce ad una riflessione e forse anche alla considerazione che questo Paese ha commesso un gravissimo errore, prima quando ha destinato il latino ad insegnamento di integrazione dell’italiano nella seconda classe della scuola media e facoltativo nella terza classe, poi quando lo ha eliminato, incidendo quindi su un elemento che risulta fondamentale nell’acquisizione degli strumenti basilari nel procedimento logico-induttivo. In altri termini: lavorare con il latino non serve ad imparare il latino; serve a ragionare e quindi a tutto il resto.
Forse adesso è venuto il tempo di potersi dire con sincerità, con onestà, che è stato un errore: quasi incomprensibile, grossolano, prolungato, costante e progressivo. Maturato e compiuto in due fasi, nel giro di quindici anni. A cominciare dal 1962. Erano anni di contrasti, di contraddizioni. Il boom economico che, molto spesso, rappresentava soltanto un’illusione; una condizione di emigrazione che si manifestava come drammatica realtà; il divario economico, sociale, culturale fra Nord e Sud che si faceva più marcato ed evidente. In quell’anno uscì La vita agra
di Luciano Bianciardi. Il romanzo era un catalogo di quello che sarebbe accaduto il giorno dopo. Era un’analisi lucida e un’accusa circostanziata nei confronti dell’insorgente fenomeno del consumismo, il ritratto fedele e sconsolato di “uomini e donne con gli occhi arsi dalla febris emitoria, che non vedono nulla, ti urtano coi gomiti, ti travolgono insieme a loro verso il bottegone”.
Era una sorta di appello accorato, un’esortazione alla salvezza: “Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunciare a quelli che ha”.
Era una fotografia sociologica della città che si trasforma in metropoli e diventa un luogo in cui “non trovi le persone, ma soltanto la loro immagine, il loro spettro, … gli ultracorpi, gli ectoplasmi”, esseri provenienti da dimensioni alienate.
Questo era il clima, dunque. In questo clima, forse l’errore apparve come un risultato del miracolo italiano, una conquista paragonabile all’utilitaria, al frigorifero, al televisore, ai supermercati, al cha cha cha, ai quiz di Mike, alla settimana bianca, al panettone Motta.
L’errore cominciò nel Sessantadue e si concluse, definitivamente, nel Settantasette. Nella fase conclusiva l’errore fu presentato come un ossequio doveroso ai tempi che cambiavano abito e portamento. Forse si pensò che eliminando il latino si introducesse rapidamente la scuola in una dimensione di modernità. Così i ragazzini della scuola media furono liberati dall’angoscia della lingua antica.
Però. Forse i ragazzini degli anni successivi senza il latino si sono persi qualcosa. Forse la cosa più importante che si sono persi consiste proprio nella qualità degli strumenti fondamentali nel procedimento logico-induttivo di cui diceva Cavalli Sforza, il quale aggiungeva: ho capito che se ho imparato veramente a ragionare e risolvere problemi difficili nel corso del ginnasio e liceo è stato grazie all’ esperienza di traduzione dal latino. La traduzione in genere è ancora un’ arte molto difficile. Con tutta la ricerca sull’intelligenza artificiale che si fa nel mondo dell’informatica, il problema della traduzione in calcolatore è ancora lungi dall’essere risolto soddisfacentemente.
Da quando il latino fu estromesso dalla scuola media, sono passati quarant’anni. Forse adesso è il tempo di una più approfondita riflessione, di una coerenza culturale che escluda l’adesione a mode e modelli che mutano ad ogni stagione, alle pedagogie dell’ultima ora, alle ideologie per l’occasione. Se qualsiasi apprendimento ha senso e funzione in quanto si costituisce come condizione per un processo di pensiero finalizzato alla soluzione dei problemi di ogni genere e di ogni complessità; se è vero che il latino è una disciplina che, come tutte le altre, insegna a ragionare; se il pensiero scientifico e la ricerca in ogni campo si fondano sostanzialmente, essenzialmente, inevitabilmente, sul rigore del ragionamento, allora dopo aver eliminato il latino dalla scuola media, introduciamolo fin dalla scuola ex elementare che adesso si chiama primaria ( perchè a quell’età tutto s’impara prima e meglio, basta adottare il metodo giusto) e poi nei tecnici e nei professionali. Nessuna disciplina ne esclude un’altra; anzi, ogni disciplina richiama tutte le altre, pretende la loro presenza. Ogni conoscenza e ogni ricerca della scienza sono un continuo atto d’inclusione e di integrazione disciplinare.
Si potrebbe dire che l’apprendimento del latino costa fatica. Certo, è vero. Ma non di più e non di meno della fatica che costa l’apprendimento della matematica e della fisica, della chimica e della biologia, della musica, dell’inglese, del tedesco, dell’italiano. Che costa fatica lo sappiamo. D’altra parte, se ci fosse una sola conoscenza, una sola disciplina che non costasse fatica, bisognerebbe davvero diffidare.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, mercoledì 8 marzo 2017]