Ecco perché i cani fanno la pipì sulle ruote delle macchine

[Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo la Premessa di Ferdinando Boero al suo Ecco perché i cani fanno la pipì sulle ruote delle macchine, con sottotitolo L’uomo e il suo rapporto con gli altri animali e le leggi della natura, Manni, San Cesario di Lecce 2018.]

di Ferdinando Boero

Di mestiere faccio lo zoologo, e insegno Zoologia all’università. Ho mantenuto in età adulta la passione di tutti i giovani umani, quella che Edward Wilson chiama Biofilia: l’amore per i viventi, e soprattutto gli animali. A scuola, a parte rare eccezioni dovute a insegnanti illuminati, cercano di estirparla dai giovani cervelli, per sostituirla con poesie e teoremi a memoria. Con me non ci sono riusciti. Il merito va a mio padre che, quando ancora non sapevo leggere, acquistò cinque grossi volumi intitolati Animali, scritti da Giuseppe Scortecci che, in seguito, scoprii essere professore di Zoologia proprio all’Università di Genova, la mia città. I cinque libroni erano pieni di fotografie e io cominciai a sfogliarli ancora prima di saper leggere. Poi, imparato a leggere, mi misi a divorare quelle storie. Nello stesso tempo, alla televisione, Angelo Lombardi conduceva L’amico degli animali, con il fido aiutante di colore, Andalù. Erano i secondi anni Cinquanta, i televisori entrarono nelle case degli italiani e il primo divulgatore di cose di natura fu proprio lui: Angelo Lombardi. Conoscevo già tutti gli animali che mostrava e sapevo rispondere a tutti i quiz che faceva: era così facile per me riconoscere un fennec, o un oritteropo, un pangolino, un bradipo. Molto prima di Jurassic Park mi innamorai dei dinosauri, li avevo visti in televisione, nel primo passaggio di King Kong sul piccolo schermo. Sapevo tutto di animali. A Genova c’è un magnifico museo di storia naturale, dedicato a Giacomo Doria, un esploratore genovese che organizzò spedizioni scientifiche in Papuasia. Come tutti gli esploratori di allora sparava a tutto quello che incontrava e 7 lo riportava nel suo museo, dove c’è una collezione importantissima di uccelli del paradiso. Vetrine e vetrine di animali impagliati, con uno strano odore. Ritrovavo lì gli animali dei libri di Scortecci: chi lo avrebbe mai detto che qualche decennio dopo sarei andato anche io in Papuasia, a caccia di animali? Niente uccelli del paradiso, però: cercavo piccole medusine e ne ho trovate tantissime, molte ancora sconosciute. Le ho allevate in piccoli acquari su una piccolissima isola della Papuasia. Le ho fatte nascere, le ho fatte mangiare e le ho fatte crescere. Mi hanno dato tantissime soddisfazioni. Passavo ore a nutrirle e a guardarle, attraverso un microscopio. Insomma, mi piacciono animali un pochino diversi da quelli comunemente amati dalla gran parte degli uomini e delle donne. La mia passione per gli animali trovò ostacoli a casa mia: niente animali. Vivevamo in un appartamento e mia madre era una patita delle pulizie, si indossavano le pattine e lei passava la lucidatrice. Il fratello di mio padre, però, lo zio Carletto, aveva una moglie paziente, la zia Maria, e la sua casa era sempre piena di animali. Era un cacciatore, e aveva cani da caccia. Conosceva gli animali, li prendeva a fucilate e poi li portava a casa morti. Li scovava con i suoi bracchi. A mio padre piacevano i libri, la musica e l’arte, allo zio Carletto i fucili e i cani. Questo mi fece arrivare agli animali attraverso due vie, quella teorica dei libri e quella pratica dei fucili e dei cani. Arrivato all’università, Scortecci, l’autore dei libri che hanno dato una svolta alla mia vita, era appena andato in pensione. Lo vidi solo una volta, in un corridoio dell’Istituto di Zoologia che avevo iniziato a frequentare da studente. Al suo posto arrivò Michele Sarà, e seguii il suo corso di Zoologia. 8 Non era quel che mi aspettavo, non faceva che parlare di vermi. Così gli chiesi: Ma quando è che ci farà i leoni? o qualcosa del genere. Sarà sorrise e disse che i vertebrati (ai quali avevo dedicato tutte le mie attenzioni) erano solo una piccola, piccolissima parte del regno animale e non meritavano tutta l’attenzione che normalmente si dedica loro. La zoologia studia tutti gli animali, non solo quelli “carini”, e ci sono ancora moltissime cose da scoprire. Chi ama gli animali di solito ama i vertebrati, ma chi studia gli animali per professione, uno zoologo, non necessariamente studia vertebrati. Anche perché dei vertebrati si sa moltissimo mentre degli altri animali si sa poco, c’è ancora molto da scoprire, come diceva Sarà. Sarà, per esempio, era un luminare dei poriferi, un modo colto per dire: le spugne. Quel suo discorsetto mi aprì nuovi orizzonti. Feci la mia tesi di laurea in una tonnara (quella di Camogli) e passai tre anni con i pescatori, a tirar su la rete della tonnara e a vedere quel che pescavano. I professori ne sanno, di animali, ma i pescatori non scherzano e imparai moltissimo anche da loro. Appena laureato cominciai a lavorare proprio con il gruppo di Michele Sarà e mi fu affidato lo studio degli idrozoi. Piccoli animaletti che sembrano coralli, e che fanno piccole medusine (quelle che poi studiai anche in Papuasia). Le grosse meduse che ci sono familiari sono scifozoi: sempre cnidari, ma un’altra classe. Ma non voglio dar sfoggio di competenza tassonomica, non in questo libro. Dato che gli amanti degli animali amano i vertebrati, quasi tutti i documentari sulla natura parlano di vertebrati. Questo ci spinge a prendere una parte per il tutto e, per 9 noi, gli animali sono solo vertebrati. Gli animali che teniamo in casa sono invariabilmente vertebrati, e cerchiamo di sbarazzarci del resto: scarafaggi, formiche, ragni, millepiedi, centopiedi, pesciolini d’argento, tarli, camole, mosche e mosconi, moscerini, falene, pulci, pidocchi, vermi, bruchi, lumache. Per non parlare di zanzare, api e vespe. Gli invertebrati non ci sono simpatici, fatte rare eccezioni, ma non amiamo neppure tutti i vertebrati: solo alcuni. Gli altri ci fanno ribrezzo. Se i vertebrati sono ratti o topi, di nuovo non siamo molto contenti di aver a che fare con loro: ci piace vivere in un mondo in cui non ci siano molti intrusi, e gli animali che pensiamo di amare spesso sono solo proiezioni del nostro egocentrismo antropomorfico. Due bei paroloni per dire che ci mettiamo al centro di tutto e che ci piace solo quello che ci assomiglia, quello in cui ci possiamo specchiare. Se siete “amanti degli animali” della tipologia standard, questo libro vi farà innervosire, almeno nel capitolo che parla del vostro animale preferito. Immagino che invece vi ritroverete nei capitoli che parlano di altri animali che a voi interessano meno. Per quel che vale, a me piacciono tutti, ma li preferisco selvatici, nel loro ambiente, e non addomesticati. Credo che sia triste vivere con umani, non essendo umani, soprattutto se gli umani non sono in grado di capire e interpretare i bisogni dei loro “amici”. Ma il mondo oggi è fatto così e non lo possiamo mica cambiare! Però lo possiamo guardare con occhi differenti dal solito, per capire qualcosa di più di noi stessi. Attraverso gli animali che pensiamo di amare. 10 Tanto per spiegare meglio quel che intendo, vi racconto una storiella. Uno di quei test da rivista femminile chiede di dire il proprio animale preferito. Me lo chiese un’amica mentre stavo facendo la mia tesi nella tonnara di Camogli. Il mio animale preferito? Facile: Jassa falcata! Cosa? Cosa è? Ma è un anfipode, no? E perché sarebbe il tuo animale preferito? Vedi, vive sulla rete della tonnara di Camogli e ne ho presa qualcuna, è un piccolo crostaceo, una pulce d’acqua. Li tengo in laboratorio, le femmine hanno un marsupio e dentro crescono i piccini. Vivono in un tubo. Ho visto come nascono i loro piccoli, come si costruiscono la casa: sono animali bellissimi… La mia amica era sconcertata. Ok, facciamo finta che questa risposta non valga. Quale è il tuo animale preferito? Intendi dire dopo Jassa falcata? Sì, a parte quell’insignificante pulce di mare. Ah, beh, non ho dubbi: Sphyrna mokarran! Mi prendi in giro? Ma no. È il più grande squalo martello e in Mediterraneo non era conosciuto. Ho trovato una foto negli archivi della tonnara, e si vede chiaramente che è proprio quella specie: è la prima volta che si registra la sua presenza in Mediterraneo. Aveva un arpione nella schiena, i pescatori della tonnara me l’hanno regalato. È usato dai pescatori di pesce spada nello Stretto di Messina: pensa, quello squalo è passato da Messina, forse veniva dal Mar Rosso, al seguito di qualche nave che ha attraversato il Canale di Suez, e poi è finito nella rete della tonnara, a Camogli. Che storia! La mia amica si aspettava risposte tipo: cane, gatto, leone, delfino, aquila. E io, invece, le parlavo di animali che non hanno neppure il nome comune. Solo la terminologia linneana, con genere e specie, poteva definirli. 11 Gli zoologi, quindi, sono tipi strani. Il più delle volte studiano animali che nessuno conosce. Neppure loro. Sono tantissime le specie ancora sconosciute, e il nostro mestiere è trovarle, e dar loro un nome, in modo da sapere di più degli animali con cui condividiamo il pianeta. Non possiamo amare quel che non conosciamo. Se uno ama davvero gli animali non si può fermare a quelli conosciuti: troppo banale. Deve avere una voglia matta di conoscerli, di sapere di loro. Sapere che esistono, prima di tutto: trovare animali sconosciuti dà un’emozione forte, ad alcuni. Io sono uno di quelli.

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