di Maurizio Nocera
Ernesto de Martino (Napoli 1908 – Roma 1965), “Vita di Gennaro Esposito napoletano”. Si tratta di un libretto dalla “veste” povera, anzi poverissima, ed è più opuscolo che altro, però è ben stampato (settembre 2004) dalla Tipografia “La Moderna” di Calimera. Ma quella “veste povera” si riferisce solo ai materiali tipografici, dovuti ad una scelta editoriale di Luigi Chiriatti, della Kurumuny edizioni, scelta allora anche dal sottoscritto ampiamente condivisa. Il libretto in questione è in formato -16°, di 52 pagine su carta comune di colore giallino. Il costo, da un punto di vista meramente mercantile, non va oltre i 5-6 euro. Come dire, di questi tempi, quasi niente. Eppure in questo libretto ci sono alcuni dei più importanti testi di cui l’etnologia italiana possa vantarsi. Si tratta degli “Appunti per una [auto]biografia di Ernesto de Martino”. Quindi, libro di un’estrema importanza. E vediamone il perché.
Nell’”Avvertenza”, Luigi Chiriatti spiega i motivi per i quali questo libro vide la luce, perché «le note che seguono non vogliono, nella maniera più assoluta, delineare la biografia […] di Ernesto de Martino», ma nascono da più di un incontro con Vittoria De Palma, compagna di Ernesto de Martino sin dalla fine degli anni ‘40 del secolo scorso. E poi – e questo è molto significativo ed anche bello – perché «ciò che abbiamo voluto fare – è sempre Chiriatti che scrive – è rendere omaggio ad una donna e ad un uomo che hanno segnato profondamente i luoghi della memoria, in particolare quella salentina, che ci hanno regalato infinite vie di conoscenza e passione circondando questi luoghi e queste memorie di dolcezza, umanità, amore» (p. 7).
Chiriatti scrive un “Diario”, all’interno del quale, raccontando egli la sua esperienza d’incontro (diversi: a Sesto Fiorentino, 1 maggio 2000; a Roma, 1 giugno 2001; e ancora a Roma, 23 novembre 2001) con Vittoria De Palma e con Clara Gallini, come incidentali ed in corsivo inserisce i testi demartiniani (che la De Palma gli ha raccontato o fatto leggere su sue carte molto private).
“Nascita di Gennaro Esposito alias Ernesto de Martino”
Il “Diario” di Chiriatti inizia riportando alle pagine 10-11 questo testo demartiniano:
«Della mia nascita naturalmente non porto memoria: e quel che più tardi ne seppi passa attraverso la memoria di mia madre, che spesso ebbe a narrarmi le vicende di quella notte, per lei memoranda, in cui venni alla luce. Era da poco giunta in Napoli la atroce nuova del terremoto di Messina, e gli animi stavano sgomenti [davanti] a quella sciagura che sembrava cosmica a chi di ora in ora ne apprendeva particolari terrificanti, cui l’immaginazione aggiungeva nuovo terrore. Il giorno precedente alla notte in cui nacqui, attraversò via Fonseca un convoglio per la raccolta di indumenti ai terremotati di Calabria e di Sicilia: e mia madre raccontava come, al richiamo che dalla via facevano con alte grida e invocazioni gli uomini del convoglio, le finestre degli alti palazzi si aprivano, i balconi si riempivano di gente, e le donne gettavano l’offerta: lenzuola, abiti, camicie, mutande, calze, scarpe, fasce per infanti, gonne, camicette da donna e abiti maschili, sì che la via, tra quel precipitare di cose e il gridare di chi dava e di chi riceveva, e il piangere delle donne, e il clamore dei bassi spalancati, da cui uscivano altri offerenti, si era convertita in una immensa fantasmagoria oblativa, in cui era difficile discernere il dolore dalla festa, la pietà dalla gratitudine, il ricevere dal dare. Anche mia madre fu al balcone, e fece, eccitata e commossa, la sua offerta: e raccontava che avendo vista seduta, in un carro del convoglio, una profuga siciliana in gramaglie con un bambino al seno, si era sentita d’un tratto piegar le gambe e aveva chiesto appoggio alle vicine. Fu portata a braccia in casa, e fatta sedere sulla prima sedia, tra nuovi clamori e ansie del parentado e delle comari, questa volta per la preoccupazione che l’emozione poteva avere sul suo stato di donna “nel nono mese”. Infatti quando si riebbe, si guardò intorno con gli occhi velati di lacrime e mormorò “Ci siamo”. Il travaglio era cominciato».
Ernesto de Martino intendeva iniziare con questa pagina la narrazione della sua [auto]biografia in quanto Gennaro Esposito, raccontando la notte in cui nacque, cioè una delle notti successive al terremoto di Messina del 28 dicembre 1908. La scena che egli racconta è uno spaccato della vita di Napoli nei dintorni di via Fonseca. Importante il racconto dell’inizio delle doglie della madre: letterariamente molto bello.
“Ricordi napoletani”
Alle pagine 14-15, Chiriatti riporta un racconto della signora De Palma che riguarda un testo scritto dal suo compagno a proposito di alcuni ricordi napoletani. Questo:
«Vi era a Napoli a quei tempi una figura caratteristica di venditore ambulante, un.vecchio alto e ossuto che girava, di quartiere in quartiere con una sudicia valigia in cui erano stipati vari generi di merceria. Aveva la sua “voce” che lo individuava fra tutti, e che io avevo udito più volte in quartieri lontanissimi fra di loro, all’Arenella, alla Sanità, a Posillipo: una “voce”, cioè un grido di richiamo per vendere la sua merce, che rinnovava in me una sempre eguale vicenda di emozioni e di pensieri, cui seguiva un cercare con gli occhi tra la gente per scorgere il vecchio e infine un vederlo avanzante alto e ossuto con la sua sudicia valigia di mercanzia per donnette. Il vecchio gridava: “Mercerie e calze, mercerie e calze, merciaio”, allungando a dismisura la “e” di merciaio e rubandone nella pronuncia gli ultimi suoni, di guisa che la parola terminava con un “ahi!” di dolore che moriva in un disperato singhiozzo. Io non seppi mai null’altro di lui, tranne quel richiamo sonoro che improvvisamente mi raggiungeva nella mia casa di Posillipo o per le strade di Napoli inducendomi irresistibilmente a cercare il vecchio e a vederlo; ma mi sembrò sempre di saperne abbastanza di lui e di possedere intera la biografia della sua vita. / Passarono gli anni della mia adolescenza nel segno di quel melanconico richiamo che insorgeva di tanto in tanto e mi spezzava il cuore: finché un giorno, mentre ero nella mia casa di Posillipo, lo udii per la prima volta mutato nelle parole, e fu l’ultima. Gridava questa volta il vecchio: “La fallanza di mercerie e calze, merciaio”. Era estate di pieno meriggio, alla “controra” come si dice a Napoli: e le persiane della mia stanza erano chiuse. Spiai per vederlo, e lo vidi sopraggiungere per la strada quasi campestre che allora congiungeva la via di Posillipo, al quartiere Belsito: lo vidi avanzare sotto il sole, con passo incerto, come colpito da una mortale stanchezza in tutte le membra, più magro e alto del solito, di tanto in tanto gridando con voce lamentosa che merceria e calze era “fallito”. Ed infatti non aveva più con sé la solita sudicia valigia, ma una chitarra. Giunto davanti alle palazzine di Belsito si sedette su un muricciuolo, e accompagnandosi con la chitarra, si lamentò a un suono orripilante, dinanzi alle palazzine, senza che le persiane chiuse per la “controra” si dischiudessero, neanche le mie. Poi tacque, e si allontanò per sempre, né io lo udii e vidi più mai».
Anche questo testo è letterariamente molto bello, struggente, poeticamente omerico, è poesia in forma di prosa, è un ricordo che affonda le radici nell’infanzia dell’etnologo, che scava nel suo inconscio alla ricerca di un fallimento di una vita, quella del merciaio ma anche quella della vita in senso lato, è un ricordo dal quale traspare il senso della tristezza della povertà umana, ma è anche il modo attraverso il quale de Martino ci fa conoscere quanto egli ricordi delle parole ascoltate quando si è bambini come, ad esempio, la “controra” (il momento subito dopo il pranzo principale della giornata, che finisce sempre con la cosiddetta pennichella) o la fallanza (mancanza) di mercerie e calze.
“Dichiarazione di fede politica”
Alle pagine 15-16, Chiriatti scrive: “La loro unione (tra Vittoria ed Ernesto) […] li guiderà per sempre nel corso della loro vita. Vittoria abbraccerà senza riserve e senza rimpianti le idee socialiste di Ernesto». Idee socialiste che è possibile leggere in questo altro testo demartiniano:
«Essere comunista vuol dire essere umano, rinnovare in termini moderni l’esperienza paolina: “sono diventato tutto con tutti per tutti fare salvi”. Essere comunista vuol dire volgersi al mondo dei poveri e dei semplici, e quella parte dell’umanità che gli uomini cercano di mantenere fuori della storia e che vive orfana nella nostalgia di una cultura che sta come un al di là vago e misterioso. Essere comunista significa sentire la vergogna, anzi la colpa, di tutto lo spirito che potrebbe essere e che non è, di tutta la bellezza deviata, di tutta la verità rimasta a bella strada, di tutta la vita morale soffocata, di tutta l’umanità e la cultura insidiate a cagione del modo di esistere e della società. // “Meglio che fosse morto l’asinello e non il babbo”, “quando nascesti tu tua madre non c’era”. Il nuovo umanesimo si ferma davanti a queste espressioni del dolore proletario. Che cosa propriamente colpisce in esse? Appunto l’umanità che vorrebbe essere e che non può essere perché un decra[e]to umano, una forma storica di società, le impedisce di essere. Onde la pietà filiale, quella pietà per cui il babbo è chiamato “tata” è costretta a recedere davanti al venale attaccamento per l’asinello che almeno trasporta la legna, mentre il vecchio babbo è un peso improduttivo. Onde l’affetto della mamma verso l’infante che muove i primi passi prende coscienza di non essere libero, ma come vulnerato dalla fatica bestiale e che non lascia tempo al dispiegarsi della piena umanità della madre: quando tu nascesti, figlio mio, tua madre era al lavatoio a lavare i panni, tua madre non c’era”.
In questo testo vi sono due concetti fondamentali dell’esperienza demartiniana. L’essere comunista – ed Ernesto de Martino lo è stato nel senso gramsciano del termine – come percorso cosciente del vivere in una società capitalistica, che nulla di buono può più dare all’umanità. Con questa nuova presa di coscienza, de Martino esplicita la sua concezione marxiana egualitaria del mondo, che non si discosta molto da quella dell’apostolo delle genti Paolo di Tarso, stigmatizzando quello che per lui è il dolore proletario. Cioè il massimo dolore, che è lo sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo, tanto disumano da costringere il figlio a sacrificare il padre per salvare l’asinello che ancora gli produce; o ancora, paradossalmente e in modo ossimorico, il figlio “costretto” a nascere da solo, senza neanche la presenza della madre, schiava al lavatoio. Il riferimento all’esperienza paolina, de Martino lo eredita dal rapporto avuto col suocero Vittorio Macchioro, padre della prima moglie, uno dei massimi esperti, a suo tempo (Ottocento-Novecento), del paolinismo; il riferimento alla problematica comunista invece gli viene dalla militanza nei partiti proletari italiani, prima nel partito socialista poi in quello comunista, e al lungo rapporto, anche epistolare, con uno dei massimi dirigenti di quest’ultimo partito, Pietro Secchia, al tempo in cui entrambi erano condomini nello stesso palazzo a Roma. Nonostante la loro vicinanza fisica, i due uomini politici ritennero opportuno scriversi delle lunghe lettere per meglio chiarirsi sui tanti problemi della tematica della teoria e della prassi. Le lettere tra Secchia e de Martino sono state pubblicate col titolo “Compagni e amici” (Firenze, La Nuova Italia 1993) da Riccardo Di Donato. Attraverso la lettura di queste lettere è possibile capire il concetto demartiniano su ciò che per lui è la democrazia, la libertà, il rapporto tra intellettuali, cultura e organizzazione politica. È questa una pagina fondamentale per comprendere la concezione storico-politica dell’etnologo il quale, ad un certo punto della vita, dopo essere stato crociano ed in un certo senso anche idealista, divenne marxista pur conservando una grande considerazione nei confronti della religione, in particolare la cristiano-cattolica. La sua “fede” politica fu da lui pensata quale strumento sistemico necessario ad una possibile trasformazione del suo mondo contemporaneo, in quel momento (quello vissuto da de Martino) permanentemente sospeso sul ciglio di una crisi apocalittica.
“L’esperienza socialista”
Alle pagine 18-19, Chiriatti trascrive il racconto che gli fa Vittoria De Palma riferito ad un’esperienza politica di de Martino. Questo:
“Ernesto era segretario della Federazione socialista a Bari. Un giorno fu chiamato d’urgenza in un piccolo paese del barese per sedare una lite fra socialisti e comunisti. i compagni litigavano e se le davano di santa ragione perché in seguito alla scissione dei due partiti, non riuscivano a mettersi d’accordo su chi dovesse rimanere nella sezione del paese. / Ernesto conosceva bene tutti questi uomini e compagni e, dopo il suo arrivo in bicicletta, dopo essersi preso una sedia in testa, riuscì a ristabilire l’ordine e la calma. Dopo un aspro dibattito stabilirono che la sede rimaneva ai comunisti, e così i socialisti cominciarono ad uscire mesti e sconsolati. / Fra questi Ernesto notò uno che sapeva comunista da sempre. Allora lo chiamò e gli chiese perché non si fermava con i suoi compagni. Lui gli raccontò che da po’ di tempo in paese nessun negoziante gli faceva credito perché era comunista e sua moglie lo invitava a diventare almeno socialista. Ma lui niente. E nemmeno i commercianti cedevano. / Allora il terzo giorno di fame la moglie sospese le prestazioni sessuali e lui a questo punto fu costretto a diventare socialista. Ecco il motivo per cui adesso doveva andare via da quella che per lui era stata come una seconda casa”.
Si tratta di un episodio in cui emergono le capacità organizzative e dirigenziali dell’etnologo napoletano, episodio arricchito da un riferimento letterario classico. La storia del comunista che diviene socialista a causa del rifiuto della moglie ai propri doveri sessuali perché costretta dalla fame, si ritrova anche nella nota commedia “Lisistrata” di Aristofane, laddove le donne greche impongono con uno sciopero (non più sesso) le loro condizioni ai mariti guerrieri delle due parti in campo (Atene e Sparta) fino a che non avranno smesso di combattere. Qui Ernesto de Martino convince due parti politicamente opposte in un periodo – c’è stata la rottura del Fronte popolare – abbastanza difficile della vita politica italiana.
“La questione meridionale”
Alle pagine 21-22, Chiriatti riprende un testo di de Martino che Vittoria De Palma gli legge: “La quistione meridionale non è soltanto quel complesso di problemi economici, sociali e politici che si riferiscono all’area della nostra penisola che fu una volta del Regno di Napoli e che dopo la unificazione formò oggetto della letteratura meridionalistica, ma acquista oggi, nella presente congiuntura culturale, un significato molto più ampio, coinvolgendo le dimensioni magico-religiose delle genti del sud. Tali dimensioni sono senza dubbio, in primo luogo, una testimonianza di arretratezza ed in ogni caso manifestano modi di esistere incompatibili col mondo moderno e non più ripristinabili in esso senza precipitare nel pantano del cretinismo romantico per poi affogarvi lentamente in uno spasimo nostalgico più grottesco che tragico. Ma, al tempo stesso, tali dimensioni vanno rivissute e comprese proprio come difesa da certo cretinismo intellettualistico che crede di poter risolvere integralmente l’umano nel prestigio della tecnica, preparando in tal modo irresponsabilmente un mondo in cui altre soffocate esigenze umane prenderanno la loro vendetta. / Questo più largo rapporto con l’umano, oltre le limitazioni intellettualistiche in cui le esasperazioni della civiltà industriale rischia di imprigionarci, è stato promosso nelle diverse nazioni europee dal rapporto con il mondo primitivo, e manifestano modi di esistere incompatibili col mondo moderno e che non potremmo proporci di ripristinare in esso senza affogare nel pantano dell’irrazionalismo in uno spasimo nostalgico che ha più del grottesco che del tragico. Ma, al tempo stesso, se vogliamo proteggerci da certo cretinismo íntellettualistico che tende e ridurre l’umano ai prestigi della civiltà industriale e della sua tecnica, e se vogliamo realmente trasformare la società raggiungendo gli uomini ovunque essi siano, e al livello in cui sono, per poi camminare insieme ad essi verso un mondo migliore, occorre rivivere e comprendere quei gruppi umani che vivono in dimensioni magico-religiose che ci sembrano soltanto assurde o scandalose. Più esattamente occorre comprendere tali dimensioni nelle loro motivazioni, nel loro significato, nella loro funzione. Questo più largo rapporto con l’umano, destinato a farci vedere con maggiore evidenza i limiti e le contraddizioni e i pericoli connessi alla esasperazione della civiltà industriale, fu promosso in molte nazioni occidentali dal rapporto col mondo primitivo: rapporto facilitato dal periodo coloniale e dalla successiva crisi del colonialismo. Per l’Italia, che così tardi, e limitatamente ha partecipato all’epoca coloniale, il rapporto con l’arcaico, la presa di coscienza di ciò che esso significa, può essere mediato soltanto dal nostro Sud, cioè da genti che tanto meglio potranno partecipare alla civiltà moderna quanto più la civiltà moderna si volgerà ad esse con amore e conoscenza e quanto più la civiltà moderna sarà disposta a prendere coscienza di certi suoi limiti e di certe sue pericolose esasperazioni. In questo senso le dimensioni magico-religiose della Quistione meridionale possono per noi italiani allargare l’orizzonte del nuovo umanesimo in commino, e attivare quel più vasto circuito di comprensione attiva che in luogo delle “due Italie, ne fonderà “una sola””.
Si tratta di un testo di analisi sovrastrutturale della “quistione” meridionale con l’anticipazione di alcune verità che si concretizzeranno soltanto cinquant’anni dopo. De Martino compì quasi tutte le sue ricerche in ambito meridionale, per lo più in Lucania, in Puglia e in Sardegna. Non bisogna dimenticare che egli svolse anche un ruolo politico impegnativo (per il Partito Socialista di Unità Proletaria prima e per Il Partito Comunista Italiano poi) nel sud, in particolar a Bari e a Lecce. Nonostante ciò, però, è acclarato che egli non appartenesse alla schiera dei meridionalisti come Tommaso e Vittore Fiore, Carlo Muscetta, Guido Dorso o Pasquale Saraceno, e prima ancora di questi come il lucano Giustino Fortunato. La sua ricerca, fondamentalmente di tipo etno-antropologico, non poteva non avere come campo di indagine il sud d’Italia, in quel momento arretrato e povero, caratterizzato strutturalmente e sovrastrutturalmente da una tipologia sociale arcaica. Era questo il prezzo che il sud dovette pagare a causa di un’interpretazione univoca della battaglia risorgimentale di cui la borghesia del nord se ne era fatta portatrice. Oggi, dalla lettura dei bilanci dello Stato a partire dal 1861 in poi, veniamo a sapere che il 90% delle risorse nazionali sono state investite sempre al nord, mentre il sud veniva riservato come zona in cui commercializzare le merci prodotte al nord. Da qui la grande arretratezza registrata dal Meridione d’Italia, arretratezza di cui de Martino se ne era accorto anzi tempo.
“Il fenomeno del tarantismo”
Alle pagine 23-24, Chiriatti riporta un altro testo tratto dal racconto di Vittoria De Palma. Questo:
“Enzo Paci ha ascoltato il disco nel mio studio, dopo aver appreso da me la struttura della terapia del morso della taranta mediante il simbolismo della musica, della danza e dei colori. Durante la seconda tarantella di Nardò ha chiuso gli occhi, come per rivivere meglio il brano musicale. Durante l’ascolto della crisi in Cappella, ha previsto il tentativo di ricostruire il ritmo e la melodia interdetti ancor prima che questa ricostruzione esplodesse effettivamente nel corso della registrazione. Dopo l’ascolto ha detto che si trattava di un documento di notevole importanza culturale e filosofica, oltre che di brani musicali molto belli (fra l’altro stabiliva alcune analogie fra la seconda tarantella di Nardò e la Sagra della Primavera di Stravinski). Mi ha detto che il disco pone problemi di vario ordine, perché il Cristianesimo non è riuscito ad avere ragione del tarantismo pugliese se non così tardi ed in modo così problematico? Che cosa significa per la cultura europea la presenza nella sua stessa area, questo Vodu indigeno, di cui l’altro, haitiano, è non solo strutturante e funzionalmente ma anche storicamente in rapporto. La quistione meridionale non si legava per questa via alla quistione africana, nel senso che – come questa – stimolava l’occidente ad una presa di coscienza dei suoi limiti umanistici? E infine, il rapporto crisi esistenziale – riscatto culturale non si poneva, attraverso questo documento, secondo dimensioni e modalità che interessavano molto il filosofo oltre che lo storico della cultura?
“Il disco con la musica di Luigi Stifani di Nardò”
3.9.61// Clara Gallini di Milano, mia assistente all’Università di Cagliari, ha ascoltato il disco di ritorno da un viaggio in Calabria, dove si è occupata di alcune ricerche sulla mafia e sui sanpaolari, in compagnia di alcuni amici di Milano, che sono andati nel sud con l’animo di cercare laggiù quello che la civiltà industriale ha perduto (senso della vita comunitaria, simboli efficaci, vita tradizionale etc.), e col vago desiderio di ottenere qualche nuova prospettiva da quest’incontro con l’umanità del sud. Clara Gallini ha ascoltato con emozione il disco. Ha particolarmente vissuto la seconda tarantella di Nardò, la cui potenza evocativa l’ha costretta ad un punto ad alzarsi e a volgermi le spalle accostandosi alla finestra, in modo da nascondermi la sua emozione. Poi mi ha detto, scusandosi, che aveva rivissuto il dolore per un suo nipotino morto, e che la carica d’angoscia di questa tarantella era grande e se ne sentiva tutta sconvolta. Stentava tuttavia a riconoscere a questa tarantella una virtù catartica”.
È questa una pagina straordinariamente illuminante della capacità scientifica di de Martino nel sapere leggere nel profondo dei fenomeni (in questo caso del tarantismo) e dei suoi interlocutori (Enzo Paci e Clara Gallini); nello stesso tempo, però, è evidente in lui anche la forza dei sentimenti umani rivolti alla comprensione delle emozioni. Il caso della Gallini che, ad esempio, nell’ascoltare la seconda tarantella del disco di Luigi Stifani – effettivamente qualcosa di straordinario, ancora oggi, ad oltre cinquant’anni di distanza dalla prima esecuzione registrata – si alza e gli volta le spalle per piangere liberamente senza essere osservata dal suo professore. Clara Gallini evoca questo ed altri ricordi nel suo splendido saggio – “Percorsi, immagini, scritture” – con il quale si apre il libro da lei stessa curato (assieme a Francesco Faeta), “I viaggi nel sud di Ernesto de Martino (1999)”. In quanto poi alle risposte del filosofo Enzo Paci, noi oggi sappiamo quanto il fenomeno della sofferenza salentina sia intriso di apporti filosofici, soprattutto dopo le letture dei testi di Ippocrate, Leonardo da Vinci e Tommaso Campanella.
“La religione cattolica”
Alle pagine 25-27, Luigi Chiriatti riporta il testo seguente di de Martino:
“Io non so chi mi ha messo al mondo, né quello che è il mondo né quello che sono io stesso. Io sono in una terribile ignoranza di tutto, ignoro cosa sia il mio corpo, i miei sensi, e anche quella piccola parte di me stesso che pensa le cose che sto dicendo e che riflette su tutto e su se stessa, non si conosce meglio del resto. Io veggo questi spaventosi spazi dell’universo che mi racchiudono e mi trovo situato in un punto di questa vasta estensione senza sapere perché sono situato in questo punto luogo piuttosto che in un altro, né perché il breve tratto di tempo che mi è stato dato da vivere mi è stato assegnato in questo momento piuttosto che l’eternità che mi ha preceduto di tutta quella che mi segue. Io non veggo che delle serie infinite che da tutte le parti mi inghiottono come un atomo e come un’ombra che dura solo un istante senza ritorno, questo soltanto io so, ed è che debbo morire, ma ciò che ignoro di più è proprio questa morte che io non saprei evitare. Come ignoro donde provengo così ignoro dove vado, so soltanto che uscendo da questo mondo cadrò o nel nulla o nella mani di un dio irato, senza sapere quale di queste due condizioni mi toccheranno in sorte per l’eternità”. / Qui, mia cara, è la radice della religione. Fin quando vi saranno delle situazioni psicologiche di questo tipo, la religione è inevitabile, fin quando l’uomo si sentirà solo, limitato e miserabile in un mondo misterioso che lo sovrasta è inevitabile l’esperienza e l’idea del peccato e della redenzione. Attraverso la redenzione l’uomo cerca un compenso alla situazione insopportabile di sentirsi circondato da forze ostili e irrazionali, non padroneggiate dalla sua volontà. Attraverso la religione l’uomo cerca un compenso alla sua debolezza. Non ho difficoltà a riconoscere che la religione cattolica risponde storicamente nel modo migliore alla situazione psicologica di chi si sente miserevole e fragile in un mondo che lo schiaccia col suo mistero e la sua estraneità. La religione cattolica dà una risposta al dolore degli oppressi e offre un lenimento all’anime affranta e al mondo che non va. Essa spiega che l’uomo è una creatura di caduta che invano potrebbe con le sole sue forze vincere la propria condizione di limitazione e di miseria. Essa insegna che attraverso il sacrificio del dio uomo è stata inserita nella storia una promessa di redenzione e di salvezza, promessa che si attua attraverso la chiesa depositaria legittima degli strumenti di salvezza. Io non posso quindi darti torto, piccola mia, se credi fermamente nella religione cattolica. Se è vero come è vero che tu ti senti tante volte sbattuta e travolta da forze oscure e ostili, se ti senti tante volte divisa fra quello che vorresti essere e quello che la società ti costringe ad essere, se il mondo ti appare come una valle di lacrime e tante volte tu aggiungi le tue nel gran fiume delle lacrime del mondo, come negarti il diritto di rifugiarti in una chiesa e pregare e tessere un dolce-colloquio con l’eterno, e ricevere dall’eterno la risposta consolante che un giorno vivrai in un regno dove i tuoi occhi non piangeranno più? Io ti comprendo, mia cara, e non verrà mai da me il consiglio di rinnegare il tuo dio, di abbandonare la tua religione. Il problema è un altro, se é vero che dietro una situazione psicologica di isolamento, di fragilità, di miseria e di abbandono la religione è inevitabile, necessaria e benefica, non é assolutamente inevitabile la situazione psicologica in cui affonda le radici la religione. Immagina per un momento, ma riuscirai a immaginarla sul serio, una società in cui gli uomini abbiano realizzato una reale fratellanza, in cui non vi siano più oppressi e oppressori, ricchi e poveri, creature abbiette e creature privilegiate; immagina una società in cui gli uomini si sentano interamente protetti dalla società stessa, dalle sue leggi, e quindi assistiti dalla nascita alla morte in tutte le congiunture della vita, nella malattia e nel dolore, immagina una società in cui la natura sia dominata da una scelta progredita e quel che più conta, messa interamente al servizio degli uomini, e non della distruzione e della guerra, immagina una società fatta così allora non avrai difficoltà a riconoscere che in quella società quando ci sarà la situazione psicologica di isolamento e di abbandono, da cui nasce la religione, non avrà più consistenza, o almeno avrà proporzioni minime tali comunque da non giustificare la vita religiosa nella forma in cui si svolge oggi nella nostra società. Personalmente io credo nella possibilità di realizzare questa società ed è per questo che milito nelle file di un partito che ha anche una fede. Ma non credere che io faccia propaganda di ateismo, e che con leggerezza voglia distruggere ciò che nella società presente con le sue ingiustizie e con il suo dolore è inevitabile, cioè la consolazione, della preghiera fatta al padre, e anche io, in dati momenti, come figlio di questa società, come figlio quindi del dolore e della oppressione dico a dio la mia preghiera”.
A questa lunga citazione, Chiriatti aggiunge un sussurro di Vittoria De Palma. Questo: “… È bello! … Questa me l’ha scritta nel ‘47”.
Si tratta quindi di una lettera, che Ernesto de Martino ha spedito alla De Palma probabilmente quando in quegli anni egli dimorava in Bari, docente universitario. All’epoca egli ha 39 anni. L’intero testo è un eccezionale capolavoro speculativo sulla religione cattolica (de Martino aveva già scritto il suo primo saggio conosciuto, “Il concetto di religione”, pubblicato nel 1933 dalla rivista «La Nuova Italia») e sul come rispettare la fede di una persona cara (in questo caso Vittoria) evitando di farsi coinvolgere direttamente. Al contempo, de Martino delinea gli ambiti ristretti della società contemporanea (capitalismo) nella quale egli vive, tracciando un abbozzo di quella che potrebbe invece essere una nuova società a dimensione umana, una società cioè in cui non vi siano più «ricchi e poveri», ma liberi ed uguali, cioè una società socialista, il raggiungimento della quale è possibile grazie alla militanza in un partito (in quel momento de Martino milita nel Psi) che è anche una fede. È questo un testo di ferma critica alla società capitalistica, un capolavoro di sincretismo etico, con la transazione da una fede in una religione – la cattolica – ad un credo più concreto ed umano. Per rassicurare la sua compagna, Ernesto de Martino si spinge a pregare un suo “particolare” Dio – entità comunque al di sopra e al di là dell’effimera dimensione della specie – non come semplice ed acritico credente ma come “figlio di una società [la capitalista, che porta] dolore e oppressione”.
Ma sul problema della religione, Chiriatti, a pagina 25, riporta ancora un altro testo demartiniano. Questo:
“Se la vita religiosa è un sistema tecnico che protegge dal rischio del non poterci essere in nessuna possibile storia civile, e che ridischiude il vario operare umano che una crisi senza orizzonte compromettere la libertà religiosa risulta saldamente fondata nella società in cui si articola la civiltà moderna. Chi spezzerebbe le grucce a uno zoppo con l’argomento che il normale camminare non ha bisogno di grucce? ciò che occorre è ridurre per quanto possibile gli incidenti e le malattie per cui il numero degli zoppi è così elevato da rendere inevitabile la richiesta e la utilizzazione di grucce; ovvero il problema può essere di sostituire il mezzo delle grucce con una tecnica ortopedica più efficace».
Come si vede, ci troviamo di fronte ad un testo teosofico, con il quale l’etnologo affronta il rapporto tra Chiesa e società, e tra Stato, religione e società. La problematica relativa alle libertà e alle persecuzioni religiose è un tema sempre caro a de Martino, il quale dimostra di avere chiari i confini delle responsabilità di un’istituzione totale.
“Le malattie di Ernesto de Martino”
Alle pagine 25-27, Luigi Chiriatti riporta ancora un altro testo tratto dal racconto della signora De Palma a proposito delle malattie di Ernesto de Martino. Scrive:
“I medici dicono che io sia affetto da una forma atipica di epilessia. È proprio un destino che anche nelle malattie io debba uscire dalla “norma”. Il mio “ittero costituzionale” è una malattia rara, e che, fra l’altro, dopo essersi affacciata con una preoccupante “poussée” (così diceva Condorelli), si è messa da dieci anni in istato di latenza, che dura tutt’ora. La mia tubercolosi si è annunziata con una prognosi infausta, ma ora sembra che vado meglio. E la mia epilessia dopo un prologo nelle fobie della mia giovinezza (dai diciotto ai trentacinque anni) è affiorata con qualche attacco nel periodo del pneumotorace, per poi lentamente dileguare, lasciandomi in pace ormai da qualche anno. Io credo tuttavia che fra la mia psicastenia, il mio ittero, la mia tubercolosi, la mia epilessia vi sia un rapporto intimo (mi guarderei dall’affermare tale rapporto fra queste malattie come tali), e che non si possa fare la storia della mia persona senza includervi anche le mie malattie. / Senza che questo mi tolga la più piccola responsabilità, è da osservare che nei grandi periodi di crisi e di rinnovamento della civiltà, quando vecchi rapporti si dissolvono e se ne annunziano dei nuovi, senza tuttavia poter dire che un nuovo ordine sia sorto, sono frequenti uomini atipici, che violano tutte le norme. Io credo di essere uno di questi uomini, e solo mi lascia dolorosamente perplesso il fatto che i miei osservatori mi hanno considerato soltanto dal punto di vista delle loro “norme” limitate. I medici hanno fatto a pezzi il mio corpo, i critici hanno considerato solo qualche aspetto della mia anima: i filosofi la metodologia, gli etnologi l’etnologia, i politici la politica, ma anche qui a pezzi e bocconi. Anche Anna non seppe valutarmi globalmente. Solo Vittoria, dal suo cuore di fanciulla generosa, trasse quanto occorreva per andare oltre gli aspetti negativi, ma parziali”.
Dichiarazione autobiografica sconvolgente. Si sapeva che la sofferenza fisica di Ernesto de Martino era grande, ma a conoscerla erano soprattutto i suoi medici. Di essa, ancora oggi, è possibile accorgersi osservando il suo viso e il suo corpo – stigmatizzati da una probabile “corea” – sulle tante fotografie che i suoi collaboratori gli hanno scattato. A tale proposito, illuminante e densa di significato è la foto che lo stesso Luigi Chiriatti pubblica a p. 37, dove si vede Vittoria De Palma alle spalle di un de Martino il cui volto appare provato e segnato da profonde occhiaie. Ma la stessa impressione ci viene anche dall’altra bellissima foto di Franco Pinna, scattata tra il 20 giugno e il 10 luglio 1959 (inchiesta sul tarantismo nel Salento), pubblicata a p. 290 da Clara Gallini e Francesco Faeta nel libro “I viaggi nel Sud di Ernesto de Martino” (Bollati Boringheri 1999). Si vede il capo di Vittoria De Palma dormiente sulla spalla di de Martino che, a sua volta, dorme con il capo chino su un guanciale appoggiato sul finestrino posteriore della “Seicento” di Annabella Rossi. Il volto dello scienziato sociale è segnato dalla distensione dei muscoli facciali e da una profonda e opaca occhiaia. Sia nei rari filmati sia nelle foto, il volto di Ernesto de Martino appare quasi sempre segnato dalla sofferenza del male di san Donato. Eppure, nonostante ciò, dal suo volto si effonde sempre un fascino che attrae. Con questo testo de Martino dimostra di possedere un bel coraggio nel descrivere lo stato delle sue malattie. All’inizio del testo demartiniano c’è il temine francese “poussée”, che in italiano significa spintone o spinta. Invece, in fondo al testo c’è un riferimento ad Anna. Si tratta di Anna Macchioro, figlia di Vittorio e prima moglie di Ernesto.
“La morte”
Nel diario di Luigi Chiriatti, questa è una parte molto commovente. Egli la scrive alla pagina 29: “Poi improvvisamente Vittoria ci racconta della morte di Ernesto. A maggio [1965] Al San camino di Roma. / “Quando arrivò a casa l’ambulanza chiedeva disperatamente di me. Mi voleva come sempre accanto a lui. Gli ho preso la mano e lui continuamente sussurrava: ‘Vittoria, Vittoria…’. Arrivati al San Camillo c’era mio fratello e dopo è arrivata la figlia Lia. Lui era in coma, eppure mi ha detto: ‘Perché non va qualcuno a comprarmi Paese Sera?”. Allora è andato mio fratello. Ernesto mi ha detto: ‘Ma la rivista Aut Aut è arrivata?. ‘Sì, è arrivata’, gli ho risposto. ‘Me la vai a prendere?’. Gli ho dato questa rivista sempre con la mano nella mano e mi fa: ‘Ma come mai non c’è luce?’. / Allora facendomi estrema forza gli ho detto: ‘Guarda tu se in un ospedale può mancare la luce?’. Detto questo è spirato”.
“L’amore per Vittoria De Palma”
Infine, il libro “confezionato” da Luigi Chiriatti riporta alle pagine 29-31 un ultimo testo dell’etnologo napoletano: Questo:
“Mia amata forse lo sciopero farà arrivare questa mia con qualche ritardo. Mia amata quando si ì è pianto insieme quando si sono mescolate le lacrime nella completa fusione delle anime, quando si è guardati negli occhi come ci siamo guardati noi, nessuna forza al mondo potrà separarci, senza ucciderci, senza distruggerci per sempre. Se il destino ha voluto che la mia famiglia andasse dissolta e che io fossi respinto nella più amara delle solitudini, la solitudine del cuore, questo è ancora nulla, se riusciremo, come riusciremo, a rifare la famiglia e costruire l’alleanza fra i nostri due cuori. Tutto il passato non conta, e potremo certamente ritrovarci tra breve sotto lo stesso tetto, respirando la stessa aria domestica, cercando sempre i nostri occhi e sorridendoci con infinita dolcezza. La mia anima è ormai un oceano in tempesta, e ogni ondata porta il tuo nome, il mio sguardo è ormai allucinato e l’unica immagine che esso vede è la tua. Il mio cuore batte solo le ore dei nostri incontri e i miei pensieri per te e anche il mondo che si tocca, il mondo delle cose, va gradatamente scomparendo al mio sguardo per lasciare posto ad un unico corpo reale, a un corpo che non è materia, che ha perso per me tutte le macchie del peccato, è un corpo che è puro, che è anima e che è solo la via per conoscere l’anima. Ti rendi conto, mia cara, come è gigante il mio pensiero per te? Ti rendi conto che ogni giorno che passa e via via che i nostri rapporti diventano più intimi la tempesta nella mia anima cresce? E non è questa la prova sicura che io ti amo più di ogni altra cosa al mondo? Ho tante volte nella vita sognato di una donna che mi amasse non con il cervello, di una donna umile che mi curasse come cosa sacra, e spiasse su di me come si spia un gioiello nello scrigno. Questo non perché io sia una cosa sacra o un gioiello, ma perché l’amore quando c’è porta questa dedizione ed è tanto dolce essere amati così. Anche tu sei per me la stessa cosa, una cosa sacra, che si adora, un gioiello che si spia. Ricordati, amore, la mia anima è come un oceano in tempesta, e ogni ondata porta il tuo nome. (“È stato sempre un grande amore per me”, commenta Vittoria9. / Qual è il sogno di una rosa in boccio? Sbocciare e lasciarsi carezzare dal sole di maggio (“Pensa lui è morto di maggio) qual è il sogno del mattino? Diventare pieno meriggio, qual è il sogno delle stelle? Risplendere negli occhi di due amanti notturni, e rinascere così una seconda volta negli occh innamorati di due creature ardenti. E così pure la nostra rosa in boccio conoscerà il sole, la nostra alba conoscerà il meriggio, le nostre stelle troveranno i loro occhi. Non può accadere che questo non sia, ma il nostro amore vince il sogno delle cose terrene, perché le rose possono sfiorire, il meriggio può declinare, le stelle spegnersi. Ma il nostro amore è eterno e vince la morte. Le ore che abbiamo passato insieme sono state troppo belle per poter essere ore finite di un tempo finito; non sono più legate ai nostri corpi e solo in apparenza ne seguono il destino. Le ore che abbiamo passate insieme si sono affrancate dalla legge terreno e si sono create una propria legge e sfidano, superbe, l’avarizia del tempo. Noi abbiamo creato nel cuore del mondo una piccola cittadella che vincerà il mondo, le leggi terrene, le leggi della società, i decreti degli uomini, tutto ciò che è stato sospeso tra noi due per quelle ore d’amore dinanzi alla cui realtà l’ombra tumultuosa del divenire si arresta rifrangendosi. Tutto quello che gli uomini hanno voluto finora, per quanto solenne, imponente sia, usi, tradizioni, costumi, storia, ecco che trattiene la sua propria fatalità dinanzi a questa isola incantata al di fuori della storia, isola che abbiamo creato con la nostra ara d’amore. Ricordi? Vogliamo affrontare insieme la tempesta? Basta l’amore di due amanti per sospendere la storia di millenni, e potrà comiciare un nuovo evo”.
Che scrivere? Si tratta di una straordinaria dimostrazione d’amore. Quando de Martino scrive questa lettera, non è un giovane alle prime armi sentimentali. Affatto. La vita la conosce molto bene: è già stato sposato e la separazione con Anna Macchioro, la figlia dello studioso più importante in Italia dell’orfismo e del paolinismo, è stata per lui un momento doloroso. Ma in essa non solo c’è una dimostrazione d’amore, ma l’esplicita condizione dell’innamoramento. Ebbene, da Freud e da Jung sappiamo che la condizione dell’innamoramento un individuo la può sperimentare solo una volta, eccezionalmente due ma con condizioni extra-ordinarie. Nell’arco della propria vita, un umano può sperimentare più volte l’amoramento, differenziare il voler bene, come l’affetto, fino ad arrivare alla rassegnazione, ma l’innamoramento, cioè il fuoco che brucia in un baleno, lo si può sperimentare solo una volta. Ebbene de Martino con questa lettera dimostra di avere avuto la fortuna di innamorarsi due volte, e già questo è appunto straordinario. E poi il modo come egli lo esplicita: letterariamente siamo davanti ad una delle forme poetiche più belle.
Con quest’ultimo testo demartiniano, Luigi Chiriatti chiude il suo “Diaio” degli incontri con Vittoria De Palma, dando poi spazio ad un apparato iconografico, intitolato “Dall’album fotografico di Vittoria”, composto da 16 fotografie inedite, in molte delle quali è raffigurato Ernesto de Martino e la stessa Vittoria De Palma. Sono immagini che fanno vedere la Lucania e la Puglia di cinquant’anni fa con l’antropologo bene inserito nei vari contesti umano-territoriali.
Quante informazioni etno-antropologiche ci sono da imparare attraverso la lettura di questi testi; quanto poco conoscevamo questo grande primo scienziato dell’etnologia italiana. Di lui avevamo studiato i libri pubblicati, primo fra tutti “La terra del rimorso”, interamente dedicato al fenomeno della sofferenza nel Salento, ma poco sapevamo delle sue riflessioni sui vari aspetti del vivere quotidiano, della sua nascita; del suo conscio e inconscio; del suo concetto di storiografia intesa anche come autobiografia; della sua aura generatrice di sogni lucidi; del suo straordinario modo di entrare ed uscire dalla storia; delle sue terrificanti malattie che, piuttosto che farlo divenire fragile, invece, gli hanno dato una forza psichica gigantesca. Ad esempio mi viene da pensare alla sua aura convulsiva che, in un passaggio, descrive molto bene. La letteratura sui casi specifici di crisi convulsive, e quindi di spiegazione dello stato “aurico” è sempre stata molto scarsa. Per questo motivo è importante la descrizione che de Martino fa della sua malattia. Più o meno quando egli scrive di questo suo stato morboso dovrebbe avere poco più di 40 anni ed è quindi persona abbastanza matura, per cui i suoi accenni descrittivi hanno sempre il carattere della scientificità. Anche per questo non pochi sono gli elementi conoscitivi utili alla scienza medica per approfondire le ricerche su questo tipo di patologie.
Ancora. Leggendo questi suoi testi, cominciamo a capire le ragioni per le quali egli non ebbe mai paura di assumersi le responsabilità che poi si è assunse nella vita anzi, non solo agì così come richiedevano le circostanze che determinavano il corso degli eventi ma, addirittura, allorquando le paure esistenziali del divenire erano più forti, egli non esitò a chiamare malattia la sua condizione e con coraggio affrontarla. Leggendolo capiamo che il suo modo di essere e di fare ci permette di capire la sua “pietas”, che contempla il difficile momento del dolore e del trapasso di una persona cara come anche la gioia di un nuovo amore che sboccia.
Importanti sono anche le sue considerazioni sulla religione, che diverranno base portante per il suo libro postumo ”La fine del mondo”. Si tratta di riflessioni teosofiche come, ad esempio, l’idea delle apocalissi e del mondo crollante; oppure il rapporto della Chiesa e della sua dottrina con l’umano divenire, all’interno del quale è possibile individuare un senso di ripulsa per ciò che l’uomo è stato o per ciò che egli non è riuscito a fare nelle epoche passate. De Martino, ad un certo punto, sembra prendersela un po’ anche con la sua stessa generazione, per il tentativo non fatto fino in fondo di comprendere le ragioni della trasmigrazione “eucaristica” dal divino all’uomo. È indubbio che fu un intellettuale politicamente impegnato, anzi molto impegnato. Così come lo fu da scienziato antropologo similmente lo fu anche in politica, che per lui era una cosa molto seria. Non va dimenticato che fu perseguitato dal fascismo. Nel 1933 si trovava a Bari come insegnante al Liceo scientifico. Il regime però gli dette filo da torcere a causa della sua attività antifascista, ed anche perché sposato ad Anna Macchioro, un’ebrea; così, nel 1940, con un provvedimento punitivo, venne trasferito da Bari a Lucca, mentre sua moglie in Emilia Romagna. Entrambi poi, su fronti separati, parteciparono alla resistenza partigiana, dove Ernesto si dedicò alla formazione ideologica dei partigiani. Tuttavia nel 1941, egli tornò a Bari, attivo nelle file dell’antifascismo avendo come punto di riferimento la Casa editrice Laterza e soprattutto il suo vecchio professore Benedetto Croce. Proprio in quegli anni di lotta antiregime, un gruppo di personalità baresi dette vita al primo comitato antifascista della città, al cui interno spiccavano i nomi di Tommaso Fiore e suo figlio Enzo, il giudice del tribunale di Bari Michele Cifarelli, l’avvocato Domenico Loizzi, Mario Melino. E sempre nel 1941 la sera del 18 novembre venne fondato a Bari il partito Liberalsocialista: in quella occasione gli aderenti prestarono giuramento leggendo un lungo testo appositamente scritto da Ernesto de Martino, che divenne poi in tutta Italia il giuramento dei membri di quel partito, dal quale scaturì poi il Partito d’Azione.
Dall’esperienza partigiana e politica scaturisce l’idea che de Martino ha della cultura, dell’istruzione, dell’educazione contro il pregiudizio e la pratica consuetudinaria. La distinzione tra cultura e istruzione in lui è sempre netta, facendoci capire la differenza esistente tra una conoscenza globale quale bagaglio profondo di una mente attrezzata all’acquisizione e invece, al contrario, la semplice memorizzazione di notizie. Illuminante è la definizione che egli dà del pregiudizio, facendolo derivare dalla passività e dalla cieca pigrizia mentale. È sufficiente questo per comprendere l’importanza che per de Martino ha la coscienza critica e il senso creativo della quotidianità e del futuro.
Le sue più importanti opere scientifiche scritte da de Martino sono: “Naturalismo e storicismo nell’etnologia” (1941); “Il Mondo Magico” (1948); “Morte e pianto rituale nel mondo antico” (Premio Viareggio 1958); “Sud e Magia” (Premio Crotone, Feltrinelli 1959); “La Terra del Rimorso” (Il Saggiatore 1961); “Furore, Simbolo, Valore” (1962); “La fine del mondo” (1977); “Dal laboratorio del ‘Mondo Magico’. Carteggi 1940-1943” (Lecce, Argo 2007); “Ricerca sui guaritori e la loro clientela” (Lecce, Argo 2008).
(2012)