di Rosario Coluccia
Dalla redazione di «Nuovo Quotidiano» mi arriva una lettera che in parte cito e in parte riassumo. Diversi lettori, e ripetutamente una lettrice, fanno domande sulla lingua scritta e sull’uso della punteggiatura. Perché esistono diversi segni di interpunzione e a cosa servono? Sono tutti necessari o possiamo fare a meno di alcuni? O aggiungerne di nuovi? Quali differenze esistono tra l’uno e l’altro e in particolare tra virgola, punto e virgola e due punti? Esistono regole precise che ci aiutino a usarli in maniera corretta o dobbiamo affidarci alle valutazioni personali?
Ho già parlato una volta della punteggiatura, più di un anno fa, ci torno su volentieri. Aiutato dai lavori di una grandissima studiosa, Bice Mortara Garavelli, professoressa emerita all’università di Torino. L’argomento non è semplice e l’incertezza dei lettori è giustificata. Scuola e università si occupano raramente di certi temi, dando per scontato che chi scrive se la sappia cavare da sé. Invece non è così, usare in maniera adeguata la punteggiatura non è semplice. Tra le varie norme che regolano la lingua scritta, quelle relative alla punteggiatura sono le meno codificate e le meno esplicite. Perfino gli specialisti mostrano incertezza e disaccordo quando si tratta di definire esattamente valore e funzione dei singoli tratti. Nell’oralità all’efficacia della comunicazione contribuiscono l’uso adeguato delle pause, le intonazioni, l’intensità della voce, ecc. Pause e cambi d’intonazione, oltre ad avere un effetto emotivo, aiutano a esplicitare l’andamento sintattico del discorso. Quando la complessità della comunicazione orale si trasferisce nello scritto, al raggiungimento dell’efficacia contribuiscono in maniera decisiva i segni d’interpunzione. Essi individuano le relazioni logiche e sintattiche tra le diverse parti della frase, indicano le pause, segnalano le intonazioni interrogative o esclamative. Il va e vieni tra voce e trascrizione si realizza nelle modalità d’uso della punteggiatura. Si dice comunemente che esistono almeno due diversi tipi di punteggiatura: punteggiatura logico-razionale e punteggiatura stilistico-espressiva. La prima corrisponde, più o meno, ai rapporti sintattici tra le parti del discorso (periodi, proposizioni), la seconda alle variazioni del flusso di voce che rendono incisiva la declamazione.
Diciamolo in termini più accessibili. La punteggiatura aiuta chi scrive ad esser chiaro e facilita chi legge nella comprensione di un testo. In un brano famoso della Retorica Aristotele se la prende con Eraclito, che non si cura di rendere comprensibili i suoi scritti con i segni di punteggiatura. Le frasi di Eraclito sono difficili da comprendere perché non si capisce a quale termine una parola vada collegata, se a uno precedente o a uno successivo. Ad esempio, egli scrive: «Questa ragione che esiste sempre gli uomini sono incapaci di comprenderla». Qui non è chiaro se l’avverbio “sempre” vada riferito alla parola che precede o a quella che segue. A seconda di dove si colloca la virgola, cambia il significato dell’intera frase: «Questa ragione che esiste sempre, gli uomini sono incapaci di comprenderla» oppure: «Questa ragione che esiste, sempre gli uomini sono incapaci di comprenderla». Lo spostamento di una virgola cambia tutto.
Il cronista medievale Alberico delle Tre Fontane racconta che al soldato che interrogò la Sibilla prima di una battaglia fu risposto: «Ibis redibis non morieris in bello». Il soldato ne fu al momento tranquillizzato, avendo interpretato «Andrai, ritornerai, non morirai in guerra». Invece morì, non ritornò, perché la profezia poteva essere interpretata anche «Andrai, non ritornerai, morirai in guerra», con una torsione sintattica (permessa dal latino di Alberico) che in questo caso collegava il «non» al precedente «redibis» (cioè ‘non ritornerai’), invece che al seguente «morieris» (e, di conseguenza, ‘morirai’). Come abbiamo visto prima a proposito di Eraclito, lo spostamento di una virgola cambia tutto. È un esempio limite dell’importanza della punteggiatura.
Alla punteggiatura di solito si fa poco caso, al massimo alle elementari si cerca di fissare poche regole. Una di esse proclama: guai a mettere la virgola tra soggetto e verbo, non si può scrivere «Roma, è la capitale d’Italia», è errore da matita rossa. Va senz’altro bene così, ma non basta. Il sistema interpuntivo dell’italiano contemporaneo è complesso, è il prodotto di approssimazioni successive che si sono stratificate nel corso dei secoli. In alcuni manoscritti classici non si separavano neppure le parole come facciamo noi, si riproduceva tale e quale il flusso del discorso. Nell’antichità classica e medievale si fecero vari tentativi di regolarizzare l’interpunzione, con impostazioni spesso contraddittorie. Quando leggiamo le opere fondanti della nostra letteratura antica, non dobbiamo dimenticare che la punteggiatura è opera del curatore moderno. Di Dante non è giunto a noi neppure un rigo di suo pugno, tutti i suoi scritti (compresa la Divina Commedia, l’opera più importante della nostra letteratura, uno dei capolavori mondiali) sono state trasmessi da copisti che hanno agito autonomamente, ognuno metteva i segni di interpunzione secondo la propria interpretazione del testo, spesso con parsimonia, delegando tutto o quasi tutto alle capacità del lettore. Anche quando i manoscritti giunti sino a noi sono originali, di mano dell’autore (come, ad esempio, il Canzoniere di Petrarca o il Decameron di Boccaccio), la punteggiatura è desultoria e non corrisponde alle regole moderne. Non ha senso riprodurre i manoscritti così come sono, vanno interpretati e resi accessibili ai lettori del nostro tempo. A questo servono i filologi e gli storici della lingua. Senza di loro, il passato svanirebbe in un’oscurità indistinta.
Anche se non ci badiamo, la punteggiatura è presente nella lingua di tutti i giorni. «Possiamo definirlo uno studioso intelligente solo tra molte virgolette»; «hai fatto un ragionamento perfetto, non si può aggiungere una virgola»; «davvero è difficile cavarsela, questa nostra difficile situazione comporta molti punti interrogativi»; «non intendo più discutere con te, punto e basta»; «la mia auto è una vecchia Punto, ma funziona ancora benissimo». Queste espressioni di uso comune manifestano, anche in maniera approssimativa, la diffusione capillare di termini specifici della punteggiatura nel linguaggio quotidiano.
Le norme che caratterizzano la punteggiatura odierna sono il risultato di un processo evolutivo plurisecolare. Una data fondamentale è il 1496, quando lo scrittore e grammatico Pietro Bembo, il codificatore dell’italiano letterario sulla base della lingua usata dai grandi autori toscani del Trecento, scelse per la pubblicazione di una sua opera un modello che, con qualche adattamento, si è trasmesso alla punteggiatura moderna. In quell’anno il grande umanista ed editore Aldo Manuzio e l’incisore Francesco Griffo pubblicarono il De Aetna di Bembo, in cui per la prima volta si utilizzano virgola, punto e virgola, apostrofo e accenti nella forma e secondo i criteri che ancor oggi usiamo. Con Bembo si smise di rischiare la pelle per colpa di una virgola male interpretata. Ma i giochi non si chiudono con quella stampa, anche dopo il 1496 la punteggiatura attraversa fasi alterne e ammette usi e forme diverse, scrittori colti e scriventi comuni oscillano tra la propensione verso un’interpunzione razionale e una espressiva. Non si verificano semplicemente riassestamenti che vanno nel senso di una maggiore coerenza del singolo segno o del sistema, a volte siamo di fronte a estremizzazioni funzionali, che possono essere originate anche da intenzionali stravolgimenti delle regole di base.
Tutti ricordiamo il famoso episodio della lettera che Totò detta a Peppino in Totò, Peppino e la … malafemmina (diretto da Camillo Mastrocinque nel 1956), film che all’uscita ricevette solenni stroncature e che, progressivamente rivalutato con il passare dei decenni, più volte citato, viene oggi considerato un vero e proprio classico della comicità italiana. A un certo punto Totò declama: «perché il giovanotto è studente che studia che si deve prendere una laura che deve tenere la testa al solito posto cioè sul collo»; e aggiunge: «punto [con tono stentoreo e movimento della mano], due punti [con tono ancora più stentoreo e movimento della mano], ma sì, meglio che abbondiamo, abbondantis in adbondandum». E dunque, nella grammatica di Totò, punto e due punti non si caratterizzano per le funzioni diverse che essi rivestono nella pratica scrittoria ma, con un metro quantitativo, i due punti valgono di più (sono due, quindi sono più “abbondanti”) rispetto al semplice punto. Ma le cose non stanno così, lo sappiamo tutti.
Mi sono lasciato prendere la mano, non ho ancora risposto a molti dei quesiti posti dai nostri lettori. Lo farò la prossima settimana, promesso.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di Domenica 8 luglio 2018]