di Antonio Prete
A Sud di Otranto, tra il faro di punta Palascìa e Porto Badisco, lasciando a destra le terre che un tempo circondavano l’ Abbazia di Casole, si può prendere un sentiero che porta verso il mare. Abbandonando a un certo punto anche questo cammino, dove la terra si fa aspra e si copre di scogliere biancogrigie, si può salire -se da bambini si è avuta una qualche familiarità con i camminamenti su corrose rocce carsiche- verso un torrione cilindrico alto sul mare, Torre Sant’Emiliano. Si va sopra un terreno di pietre : una crosta corrugata, bucherellata, arricciata. Una superficie lunare, che in ogni anfratto, tra le onde di calcare, ha nell’autunno tutti i gradi del verde, perché la macchia grida la sua energia con ogni elemento vegetale : la malva, il mirto, il lentisco, la mentastra, il cardo selvatico, il rosmarino, il finocchietto, la cicoria resta , il cisto marino, il cappero, la lavanda e molte piante geofite, quelle con i grandi bulbi a serto e un fogliame tenero e ampio. Gli interstizi verdi e i rilievi di pietra grigia trasformano il terreno in una scogliera che invece dell’acqua ha nelle sue pieghe erbe e piante. Poco prima del tramonto un’onda di rosso trascorre sui cespugli e sulle pietre e rimbalza laggiù, sulla distesa delle acque, che a sinistra, verso punta Palascìa, sono di un blu profondo ma ancora luminoso, e a destra, lungo le insenature che precedono e oltrepassano Porto Badisco, una insenatura anch’esso, sono di un blu violaceo che si mescola a tratti col blu cobalto. Il torrione, via via che il cammino procede, si leva intero sullo sfondo del mare e rivela la sua forma, con le sbrecciature in alto e nel fianco : una sentinella ferita, o un solitario osservatore che da cinque secoli scruta nelle albe i profili montuosi d’Albania e al tramonto i passaggi di velieri e di navi e di gommoni –anche quelli carichi di gente che fugge dalla guerra e dalla fame- e nelle notti è pietra tra pietre. A meno che la luna non ne esalti il profilo contro la scia argentea sul mare. La distesa petrosa – la foscoliana “petrosa Itaca” qui ha una sua immediata e fantasmatica prossimità – e la distesa marina mettono al confronto due figure che sono per Baudelaire, e non solo per lui, come due sorgenti – o due spazi mentali, o due condizioni interiori – della poesia : il deserto e il mare:
Et c’est depuis ce temps que, pareil aux prophètes,
J’aime si tendrement le désert et la mer.
È certo da quel tempo che, simile ai profeti,
amo teneramente il deserto ed il mare.
Il deserto e il mare: dialogo della pietra con le acque, del grigio col blu, del silenzio con il suono delle onde. Mettersi, sul far della sera, in ascolto di questo dialogo aiuta a ritrarsi in uno spazio interiore quando, sulla via del ritorno, il rumore del mondo dispiega la sua instancabile pervasiva supremazia.
[Torre saracena. Viaggio sentimentale nel Salento, Manni, San Cesario di Lecce 2018, pp. 82-83].