di Rosario Coluccia
Dal 1974 due istituti di indagine statistico-demoscopica, la Doxa e l’Istat, rilevano periodicamente il comportamento linguistico degli abitanti del nostro paese, misurando le percentuali d’uso dell’italiano e dei vari dialetti. Sulla base della più recente statistica disponibile, si constata che nel 2012 l’interazione con estranei avviene solo o prevalentemente in italiano per l’84,8% della popolazione e il 10,7% usa alternativamente italiano e dialetto. L’italiano è il mezzo linguistico correntemente usato per ogni modalità di comunicazione formale (escludendo quelle in famiglia e con amici, in cui persiste l’uso del dialetto). La lingua è ormai, senza dubbio, fattore portante dell’unità e dell’identità nazionale.
A oltre 50 anni dalla pubblicazione di un libro fondamentale, la Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro, è diventato quasi un luogo comune ricordare i fattori extralinguistici che hanno determinato il passaggio dalla condizione di ridotta o ridottissima italofonia (che al momento dell’unificazione politica coinvolgeva gran parte della popolazione italiana) alla ben diversa situazione attuale. La centralizzazione amministrativa, la leva militare obbligatoria su base nazionale, i rivolgimenti demografici prodotti dalle migrazioni verso le città o verso l’estero, lo sviluppo dell’economia e della cultura, il proficuo espandersi dell’istruzione pubblica e generalizzata, l’azione sempre più estesa e incisiva dei mezzi di comunicazione di massa (comprese, nei decenni recenti, la rete e le varie forme della comunicazione digitale) hanno lentamente ma progressivamente invertito il rapporto tra italofoni e dialettofoni e determinato le condizioni odierne, inedite nella storia del nostro paese.
L’espansione dell’italiano non comporta la scomparsa dei dialetti. Tutt’altro. È notevole (e per certi versi inaspettata) la persistenza dei dialetti, che convivono con la lingua nazionale, con rapporti ed influenze reciproci. I dialetti non sono in pericolo di estinzione, la convivenza con l’italiano non comporta che essi debbano soccombere, cedendo alla pressione della lingua più forte. Anzi, quasi paradossalmente, il possesso dell’italiano da parte di fasce sempre più ampie di parlanti (che si è intensificato nella seconda metà del Novecento), si è risolto in una rivalutazione implicita dei dialetti, che non sono più visti come un elemento di inferiorità da cui liberarsi ma, al contrario, sono considerati un marchio identitario di cui essere fieri.
Tra gli studi dedicati ai fattori di diffusione dell’italiano (e alla correlata vivacità dei dialetti) finora non aveva trovato posto un’analisi sulla lingua delle diciture stampigliate sui francobolli (se ne è occupato recentemente un italianista dell’università di Foggia, Francesco Giuliani). Eppure le diciture, esaminate in una prospettiva adeguata, da un lato appaiono caratterizzate da peculiarità loro proprie e dall’altro possono essere considerate un riflesso del più ampio quadro culturale, politico e sociale all’interno del quale sono state generate. Anche in quest’ambito specifico l’italiano (ampiamente maggioritario) convive con casi sporadici di ricorso al dialetto.
Il 1 marzo 2017 è apparso un francobollo dedicato ad una pietanza tradizionale della cucina veneta. La vignetta raffigura una pentola di terracotta contenente il «bacalà alla vicentina» (riproduco il maiuscolo della didascalia stampata in alto a destra del francobollo), affiancata da un mestolo in legno, alcuni pezzi di stoccafisso e una forma di polenta. L’emissione appartiene alla serie tematica «le Eccellenze del sistema produttivo ed economico», nella quale si inseriscono anche due precedenti uscite (entrambe dell’ottobre 2016) dedicate rispettivamente allo «Speck Alto Adige IGP» e alla ricorrenza indicata come «1856-2016 centosessant’anni di Riso Gallo» (anche in questi due ultimi casi e nei cinque che seguono rispetto integralmente il carattere grafico degli originali). Alle stesse finalità commemorative e celebrative, rivolte ad esaltare specialità alimentari della nostra nazione, è dedicata anche una precedente serie filatelica etichettata «Made in Italy», con francobolli che illustrano specialità alimentari di vario genere. La «Sagra degli Spaghetti all’Amatriciana», con le immagini di spaghetti, pane, pomodoro, peperoncino, formaggio, fiasco e bicchiere di vino stagliate su uno sfondo stilizzato che rappresenta una località collinare (agosto 2008). Quattro prodotti caseari provenienti da differenti realtà territoriali: ogni francobollo riproduce un prodotto con le didascalie «Gorgonzola», «Parmigiano Reggiano», «Ragusano» e «Mozzarella Di Bufala Campana» (agosto 2011). Il «Recioto di Soave DOCG» (novembre 2014), vino rosso ad alta gradazione, ottenuto da uve passite, tipico della zona veronese, richiamato dall’immagine che riproduce filari di viti, un grappolo d’uva e un borgo antico in fondo; il dialettismo recioto è di origine veneta, probabilmente derivato da recia ‘orecchia’, in quanto il vino era anticamente prodotto con le orecchiette del grappolo d’uva, cioè con le sue parti laterali, le ali del grappolo, che di solito hanno gli acini più maturi e migliori.
Sono moltissimi i termini gastronomici di origine dialettale entrati nell’italiano: partendo da un ristretto territorio i dialettismi approdano nella lingua veicolati dal favore che acquirenti e consumatori di tutta la nazione attribuiscono al cibo (originariamente regionale) che quella parola designa. Se un prodotto ha successo anche all’estero, la parola acquista una dimensione internazionale. Tutti sentiamo come italiane parole come amatriciana, gorgonzola, mozzarella, parmigiano, ragusano, reggiano, spaghetti, provenienti all’origine da ambiti locali e oggi presenti nei vocabolari della nostra lingua. Anche recioto è nei vocabolari, entrato più recentemente. La fortuna di alcuni vocaboli (legata alla attrattività dell’alimento) supera i confini nazionali. Nelle lingue francese, inglese e tedesca sono entrati da tempo italianismi come gorgonzola, mozzarella (in inglese anche nella variante mozzarella cheese), parmesan, spaghetti. Nome identico o simile non vuol dire medesima qualità del prodotto. Negli Stati Uniti si spaccia per originale un falso parmeggiano, nome scelto proditoriamente perché suona italiano, assomiglia all’originale, e trae in inganno i consumatori meno avveduti. Ma l’infame parmeggiano non ha nulla che vedere con il prodotto di partenza, la qualità del formaggio americano è pessima. Anche in Germania capita lo stesso, lì pure vendono il parmesan. Un amico che va spesso in Germania mi assicura che in alcuni supermercati di quella nazione si vende il gambozola, che richiama foneticamente l’originale senza averne le qualità. Il mascheramento linguistico attuato come strumento fraudolento, la lingua può essere usata anche a questi scopi.
Vanno approfondite le intenzioni di chi ha scelto di mantenere la forma veneta bacalà (con una c) nella stampigliatura del francobollo. Il distacco rispetto alla forma italiana baccalà (con due c) è giustificabile se mira a diffondere la ricetta tradizionale ma risulta discutibile se si pone come manifestazione di particolarismo politico e di rivendicazione localistica, una delle tante che vediamo prosperare nel nostro paese. Nel 2017 è stato festeggiato il trentesimo anno di fondazione della «Venerabile Confraternita del Bacalà alla Vicentina», il cui presidente ha «raccontato in una breve relazione l’enorme lavoro ed i traguardi ottenuti in questi 30 anni di lavoro». Nulla di male se ci si limita a ricordare la denominazione veneta di un piatto specifico. Purché non diventi ostracismo nei confronti di coloro che, in tutto il territorio nazionale, continueranno a chiamare baccalà quel cibo. Nella nostra lingua la parola esiste dal 1650, è questo il vocabolo italiano, non possiamo inseguire localismi insensati.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 24 giugno 2018]