di Andrzej Nowicki
Negli ultimi tempi della sua vita Andrzej Nowicki (1919-2011) intensificò l’invio a “Presenza taurisanese” di testi per la sua “Italia pensante”, di cui ho pubblicato 20 puntate tra febbraio 2007 e giugno 2010. Si trattava di testi sui suoi incontri italiani con studiosi e filosofi, a volte molto lunghi e poco adattabili ad un giornale-rivista come “Presenza”. Scelsi per la pubblicazione i più brevi e compatti. Di recente mi son ritrovato tra le mani uno di quei testi esclusi per l’eccessiva lunghezza. Lo propongo ora in due puntate perché è diverso dagli altri. Rivela un Nowicki più leggero, più conversativo, un narratore tra l’ironico e il poetico. Non parla solo di incontri con persone, ma anche con insetti e bestioline, generalmente fastidiosi, come scarafaggi, zanzare, topi. Non sembri eccessivo e stravagante. Nowicki aveva l’animo veramente poetico e lui tollerante era tanto più forte e convinto quanto più debole e ignaro era il tollerato. (gm)
Vent’anni fa una mia nipotina, al mio ritorno in Polonia dall’Italia, mi disse: “Nonno, sei tornato dall’Italia e ci hai raccontato solo degli incontri che hai avuto con professori, come se in Italia non ci fosse altro, come se non ci fossero bambine della mia età, né cani né farfalle”.
Una tale osservazione mi costrinse a ricordare le bambine che avevo incontrato durante i miei soggiorni italiani: Barbara, Clarita, Cosimina, Francesca, Marina, Sandrina e tante tante altre. Non basterebbe un librone per salvare dall’oblio tutti i loro detti, nei quali non mancavano perle di pensieri vezzosi nella loro freschezza di intelletti in fiore. Un altro libro dovrei scrivere per raccontare i miei incontri con gli animali, a cominciare dai bagarozzi milanesi per finire alle zanzare fiorentine, alle lucertole, ai topolini, ai gatti e ai cani. E un terzo, per i miei incontri con gli alberi: le palme di Roma, il terrificante bosco di Monte Rebello, i giardini e i mercati di fiori di Firenze, gli alti cipressi di Arsoli, le selve di Calabria, gli aranceti di Palermo, i pini e gli ulivi di Taurisano.
Un vero Mare magnum, dal quale con un cucchiaino posso attingere solo poche gocce. Seguendo un grande poeta polacco, Julius Słowacki (1809-1849), incomincio pure io dagli insetti. Nel suo viaggio verso la Terra Santa, Słowacki scelse un itinerario con una breve fermata nel Salento. Dopo aver pernottato in un albergo a Lecce, ci lasciò un poetico ricordo delle schiere di cimici che gli avevano impedito di dormire.
Io, però, pur avendo pernottato molte volte negli alberghi leccesi, di cimici non ne ho vista neppure una. In quanto agli insetti di Puglia, chiamata dal mio amico Ernesto De Martino “terra del rimorso”, ho sempre avuto un grande desiderio di incontrare l’affascinante eroina del suo libro, la tarantola. Il mio amico Vittorio Zacchino, che avevo pregato di mostrarmela se l’avessimo trovata da qualche parte, mi è testimone che neanche col suo aiuto sono riuscito a trovarne una. Il mio incontro con una Aracne, la Ragna salentina, è rimasto fino ad oggi un “incontro mancato”.
In compenso ho avuto grandi incontri con gli insetti milanesi. Verso la fine del 1946 a Milano presi in affitto dal signor Innocenzi un alloggio in via Morgagni, dove nel gennaio dell’anno seguente sarebbe nato mio figlio. Tra i non pochi difetti di quell’alloggio a darci il fastidio più grande era un esercito composto da più di cento ninnoli soprammobili, non solo perché erano brutti ma soprattutto per il grande affetto nutrito dal proprietario verso di loro. Ogni due-tre giorni il signor Innocenzi ci visitava per contare i suoi diletti ninnoli e assicurarsi che non ne mancasse alcuno. Dopo una decina di noiose e importune visite, mi irritai e in un eccesso d’ira aprii uno dei cassetti della credenza della cucina per buttarci dentro tutti quei ninnoli. Credevo che fosse vuoto, invece era abitato da varie tribù di bagarozzi, che, spaventati per l’inaspettata invasione di ninnoli, si diedero alla fuga dalla cucina verso le altre stanze della casa. Durante la notte tornarono nel cassetto per coabitare coi loro subaffittuari. Dopo tre giorni una nuova visita del Vecchio. Entrato nella cucina per contare i suoi tesori, non avendoli visti, emise un grido straziante di disperazione che ancora l’ho negli orecchi: “dove sono i miei ninnoli?”. “Sono tutti al sicuro – gli risposi – nel cassetto dei bagarozzi. Non voglio vederli più. La prego di prenderli con sé assieme ai loro compagni; ma prima conti gli uni e gli altri, uno per uno, per accertarsi che ci sono proprio tutti: ninnoli e bagarozzi”.
Dodici anni dopo la mia partenza da Milano, arrivai a Firenze e cercai un alloggio, il più vicino possibile alla Biblioteca Nazionale Centrale. Trovai una pensione lontana non più di sette minuti, dove rimasi a studiare per due mesi. Era incantevole, bella, pulita, senza bagarozzi, coi piatti gustosi della cucina toscana. Quando si mangia, però, non è importante solo quel che si mangia ma anche con chi si mangia, chi è compresente a tavola. L’eccellente compagnia fu il massimo pregio di quella pensione. Eravamo in dodici, quattro fissi: la padrona, signora Margherita; il cognato, colonnello emerito, maestro di una loggia massonica, inventore, impareggiabile conversatore, l’«anima della compagnia»; la figlia della padrona, la piccola Rosalia; ed io. Altri otto si alternavano perché abitavano in altre città e paesi vicini o erano addirittura di altre parti del mondo.
In questa pensione sono stato tre volte, nel 1959, nel 1963 e nel 1966. Lì ho conosciuto pressappoco una sessantina di persone, arrivate a Firenze da ogni parte del mondo: Svizzera, Francia, Germania, Inghilterra e Stati Uniti, ma anche America del Sud, Libano e Nuova Zelanda. Tra di esse molte bellissime ragazze, studentesse, turiste, cantanti e pittrici; i maschi erano in prevalenza studiosi che frequentavano le biblioteche. Dopo cena, spesso, ci intrattenevamo in camera a chiacchierare, discutere o ballare.
Nella mia camera da letto mi aspettavano le zanzare, povere, affamate, anelanti il mio ritorno e il mio sangue. Tre o quattro volte volli verificare quante di esse mi aspettavano per pungermi e sempre ottenevo lo stesso risultato: ventiquattro.
Ho letto che gli insetti sono maestri di aritmetica e di geometria. Le api non sbagliano mai una cellula, tutte precise esagonali. Le mie zanzare fiorentine avevano ben calcolato che per godere del mio sangue non dovevano esagerare. Dopo due-tre settimane giunsi alla conclusione che non esiste rimedio per difendersi e mi ricordai di un proverbio polacco: quando altro non puoi fare bisogna affezionarsi agli esserini che si sentono bene in nostra compagnia.
Man mano scoprii tre pregi delle mie zanzarine. Primo, esse erano cavalleresche, non subdole e fraudolente; prima di pungere, segnalavano sempre ad alta voce la loro intenzione. Secondo, erano simili alle rose di Goethe, si innamorarono di me e, pungendomi, confessavano: Ich steche dich, dass du ewig denkst an mich (ti ho punto perché tu possa pensare sempre a me). Terzo, avevano un bel nome ma anche una bellissima voce. Mi è capitato di vedere un film italiano intitolato appunto “La Zanzara” e sono rimasto affascinato dalla cantante Rita Pavone nel ruolo della Zanzara.
(a cura di Gigi Montonato)
[“Presenza taurisanese” anno XXXVI n. 302 – giugno 2018, p. 6]