di Maurizio Nocera
Un vento lieve d’Alpi s’intrufola tra le foglie degli alberi del parco che circonda la Stamperia di Alpignano, quando il tempo comincia a non avere più confini. Monumento all’industria meccanica-ferroviaria fine ‘800 inizi ‘900, su vecchi binari d’epoca sonnecchiano le antiche locomotive, con il loro carico di storia e l’amore di chi in quel posto le ha volute. Dentro la tipografia, tra e su banconi, cassettiere, taglierine, macchine piane, carta odorosa d’affetti, il fervore dell’impresa alita tra lampi di creatività, col lavoro che si fa arte, e l’opera che dà senso all’eterno divenire.
Su un bancone per la composizione, tra i tipi propri del fondatore della Stamperia e quelli di Caslon e Garamond, una foto di Alberto Tallone, uomo già maturo, leggermente ricurvo sul tavolo di lavoro. La foto lo ritrae ancora nell’ambiente di Parigi, quello dell’Hôtel de Sagonne. E in quello straordinario ambiente che il «miglior tipografo italiano» [Dichiarazione di Pietro Romanelli alla consegna del primo Premio assegnato ad Alberto Tallone al Convegno di Bolzano (7-8 ottobre 1965) dedicato alla storia del libro, indetto dal Comitato per il V Centenario dell’introduzione dell’arte tipografica in Italia] del Novecento tiene nella mano sinistra il compositoio, nella destra il piombo dei caratteri. Davanti a lui, sulla cassa leggermente inclinata, un vantaggio è appoggiato su una pagina composta e legata con la funicella. Accanto, illuminato da una luce laterale, il frontespizio della Divina Commedia. Non si legge l’anno di stampa, però, sicuramente si tratta dell’edizione che il Pellizzari, nella sua Opera Tipografica di Alberto Tallone/ Testimonianze – Descrizione – Commento (Alpignano 1975) così scheda: «Testo e cura di Francesco Flora. Il nome dell’editore non compare né sulla copertina né sul frontespizio, ma soltanto nel colophon che dichiara l’opera composta da Alberto Tallone e licenziata dai torchi dell’Hôtel de Sagonne in Parigi il 25 novembre 1939 per l’Inferno, il 13 febbraio 1941 per il Purgatorio, e il 24 dicembre 1941 per il Paradiso».
Della “divina” opera di Dante, composta e stampata da Madino (è il nomignolo col quale Alberto Tallone veniva chiamato dai familiari e amici) in tre volumi, il figlio Enrico dispone ancora nell’archivio della Casa di alcuni esemplari di specimen, uno dei quali, all’interno di una più gonfia busta, mi ha fatto recapitare come esempio di impaginazione.
La differente tipologia degli esempi delle impaginazioni ci permette di ammirare la costruzione della pagina. Alberto Tallone, da architetto del libro, “disegnava” il progetto su cui costruiva poi il suo “punto tipografico”. Faceva tutto da solo. Ce lo conferma Enrico Falqui quando scrive: «la sua eleganza consiste nel saper stare al proprio posto, senza tuttavia rinunziare al controllo d’ogni più minuto particolare affidato alla sua cura di stampatore, dall’inquadratura delle pagine alla rifinitura degli “spazi”, al conteggio delle “interlinee”, alla scelta del “tondo” o del “corsivo”, al rapporto d’equilibrio che deve bloccare l’intera composizione senza soffocarla e senza appesantirla […] Tallone lavora sempre da solo […] con le sue stesse mani: compone, stampa, rilega, conciliando tecnica e grazia, armonizzando estro e rigore, nel miraggio, mai deluso, di un’omogeneità di contenuto e di forma» (E. Falqui, Stampatore esemplare, in P. Pellizzari, Op. cit., pp. XLVIII-XLIX).
Gli esempi delle impaginazioni dimostrano l’estrema attenzione con la quale egli sceglieva i caratteri, il Caslon e il Garamond prima, il suo tipo, successivamente, dopo averlo coniato nel 1949. Il suo modello d’impaginazione è sposalizio di forme e testo, incanto di bianchi e neri. Oceani di forme poetiche, che il Pellizzari conferma scrivendo: «Tallone […] si è imposto, soprattutto nelle opere di particolare significato e nelle edizioni dei grandi classici, [con] l’attenta ricerca delle forme tipografiche più idonee ad esprimere lo spirito dell’epoca, dell’autore e del testo».
Ma non solo questo, perché l’artefice poneva massima attenzione al corpo del carattere, che doveva avere sempre le dimensioni compatibili con la giustezza degli occhi del lettore, così come il foglio di stampa doveva essere tagliato al punto giusto, affinché il formato del libro entrasse in comunione col tipo di carta, e questa, a sua volta, col contenuto del testo; l’impaginazione, insomma, doveva essere una fusione armonica di bianchi e di neri. Tutto, intorno alla composizione e all’impressione, doveva suonare come uno strumento musicale di straordinaria fattura, una sorta di Stradivari della stampa. La spaziatura, la disposizione delle righe sulla pagina, l’aggiustatura, la spazieggiatura, la marginatura, la formazione delle parole, la divisione delle sillabe, le lettere capoverso, la punteggiatura, le postille marginali, la collocazione del numero sulla pagina, dovevano essere così come l’architetto del libro – Alberto Tallone – le aveva pensate e progettate.
Gli specimen degli esempi delle impaginazioni rappresentano oggi il mondo-universo della Stamperia d’Alpignano. Così almeno è stato fino al 24 marzo 1968, giorno in cui Albero Tallone morì a causa di un intervento chirurgico. Straordinariamente però, ancora oggi continua ad essere nello stesso modo in cui egli progettò come costruire un bel libro, e questo grazie ai suoi eredi, che non hanno tradito il suo amore per il libro, per la composizione, per la bella stampa. I saggi e gli studi di G. di San Lazzaro, Pietro Trevisani, Gianfranco Contini, Luigi Fumanelli, Maurizio Pallante, Luigi Balsamo, lo stesso Enrico Tallone (curatore), pubblicati sul primo tomo del Manuale Tipografico dedicato ai Frontespizi e ai Tipi Maiuscoli Tondi e Corsivi, lo confermano, mostrando la massima attenzione della Stamperia d’Alpignano per il “punto di vista tipografico” ideato, progettato e messo in opera dal suo fondatore.
Nell’architettura del libro, Alberto Tallone non lasciava nulla al caso, nessun ambito all’improvvisazione, nessun vuoto agli elementi della natura con i quali interagiva nella sua Officina. Studiando gli esempi di specimen citati si ha subito l’idea di quanto attenta sia stata l’impaginazione: perfetta la riduzione a “pezzi” regolari della composizione in colonna, dove i “pezzi”, una volta stampati, dovevano formare l’unità-libro, con un equilibrio fra le doppie pagine, la giusta dimensione tra la gabbia del testo e gli orizzonti della stessa pagina, una giusta suddivisione dell’altezza e della larghezza del foglio affinché l’occhio del lettore s’appaghi affascinato.
Molti amici ed estimatori della Stamperia d’Alpignano hanno già scritto che Alberto Tallone dimostrò fin da subito di essere un grande stampatore al pari di un Gutenberg, di un Aldus, e più ancora di Bodoni, suo sacro modello d’ispirazione. È ancora lì, a dimostrare tutta la bellezza dell’arte tipografica, la sua prima opera a stampa, la Lettera alla Madre (9 settembre 1932) che egli compose in-16° imprimendola sui torchi dell’officina di Darantiere, a Parigi, in soli sei esemplari, e nella quale, umilmente, dichiara di essere il «più felice degli operai».
Alberto Tallone dedicò l’intera vita al libro. Nel suo originale percorso tipografico, ebbe pazienza e attenzione. Scelse di lavorare sempre. Il suo faro luminoso fu l’arte del bello nel libro, con la scelta di tipi assolutamente puri, eccelsi, distillati come calici di vino purissimi. Per anni e anni lavorò con i caratteri Caslon e Garamond, fino a quando, come ha scritto Enrico Falqui «a un dato momento, abbia provveduto a disegnarsi e fabbricarsi (con l’aiuto del maestro incisore Charles Malin) un carattere elzeviriano che gli assomigliasse e rispondesse più addentro: un carattere che fosse valevole così per la bloccata compattezza della prosa come per la modulata scioltezza della poesia, nella nostra e nelle altre lingue, senza il divario e lo stridore di solito riscontrabili in ogni variazione. Quasi per grazia ricevuta avrebbe voluto chiamarlo “Palladio”. Ma sarebbe stato nel giusto? Nella scarna e sensibile sua elegante flessuosità trapela qualcosa di toscano, di quattrocentesco, di umanistico. Fortuna volle che la fonderia Radiguer, nell’inviargliene i primi pacchi […], scrivesse “Tallone” sulle etichette: e, con tale nome avendo i garzoni cominciato a indicarselo tra loro nel lavoro, “Tallone” è il giusto nome conservato dal nuovo carattere».
L’originalità tipografica di Alberto Tallone fu tale che gli permise di rispettare tutti ma allo stesso tempo di non sentirsi inferiore a nessuno, di certo questo non gli accadde a Parigi, presso la tipografia di Maître Darantiere, e men che mai quand’era già in proprio all’Hôtel de Sagonne. Egli, senza mai farsi condizionare, cercò sempre di apprendere dagli altri tipografi più anziani di lui, da quelli che l’arte della stampa la praticavano ormai da una vita. E lì a Parigi, nell’officina del suo maestro e benefattore Maurice Darantiere, che si formò quel suo straordinario modo di “fabbricare” il libro che, nella storia della stampa di tutti i tempi, ha permesso di scrivere il suo nome accanto agli altri grandi di quest’arte.
Dagli studi compiuti finora sulla sua opera, appare evidente che egli personalmente non delegò mai ad altri il principio sacro all’artista secondo cui l’opera deve avere sempre la responsabilità dell’autore. Era infatti lui che sceglieva il tipo di carta da stampare, che ne studiava la grammatura, la porosità, l’opacità, l’umidità relativa, il valore di pH. Così come anche la scelta degli inchiostri. Egli ne saggiava la lucentezza, la pastosità, l’acidità in rapporto al tipo di carta che aveva già scelto per quel particolare testo; poneva attenzione al grado di ossidazione possibile degli inchiostri. Infine, sceglieva il formato da dare al libro. Dagli esempi di specimen delle impaginazioni si notano bene le sue innovazioni dirompenti con le scelte degli altri stampatori del Novecento: la particolare spezzatura dei titoli, la ricercata gradazione e disposizione delle linee, l’ampio spazio concesso al bianco della pagina, la ricerca sempre del calice perfetto. A questo proposito, una bella precisazione esplicativa l’ha scritta Enrico Tallone nell’Introduzione al Manuale Tipografico: «Nella concezione di mio padre esso [il calice] deve essere semplice, essenziale, ma non scarno, ed esprimere dinamismo per mezzo di un’impaginazione piuttosto serrata all’interno e verso l’alto, fidando sul proprio colpo d’occhio, senza applicare regole fisse o schemi ripetitivi, badando che tra le righe non si creino bianchi troppo regolari i quali romperebbero la tensione dell’insieme. La ricerca della chiarezza fa sì che di frequente i frontespizi assumano la forma di un calice, con l’autore al vertice, il titolo al centro, il nome del curatore a chiusura della coppa, mentre lo spazio tra questa e il piede raffigura lo stelo che trova la base nella data e nel nome dell’Editore».
Sia gli specimen degli esempi delle impaginazioni sia quelli dei formati sono originalità tipografiche che solo un Complemento al Manuale Tipografico come quello di Alberto Tallone può contenere. Si tratta di un progetto dal respiro paragonabile a quello di Giambattista Bodoni, dove la ricerca della bellezza nell’opera d’arte sorregge tutto l’impegno dell’artista, e questo non come mero fatto estetico fine a se stesso, ma come “costruzione” del bello offerto a chi lo sa comprendere e a chi ama circondarsi del sapere.
Alberto Tallone amò l’arte della stampa e il libro fino all’inverosimile tanto che, nel 1936, all’alba del suo noviziato di stampatore a Parigi, scrisse: «Il libro […], con la sua bellezza materiale, sarebbe come un documento nobile ed eterno di spiritualità./ La tenace attività svolta con lunga pratica della libreria internazionale mi portò verso la creazione del libro, amandolo sempre più nella sua forma e nella sua missione»10. E ancora, in un distico per segnalibro, da lui stampato senza firma e senza data ma dei primi tempi della Stamperia di Alpignano, rivolto ai suoi possibili lettori, scrisse: «Amerai come me questo libro. Impara a non sciuparlo. Volta la pagina prendendola in alto sempre con le mani pulite. Rimettilo nell’astuccio, si salverà dalla polvere e dalla luce. Il tuo amico editore».
Su di lui una bella pagina fu scritta anche da Marino Parenti, il curatore dell’ineguagliabile Pinocchio del Collodi, stampato con i suoi tipi nel 1951. Si tratta della Presentazione della Mostra delle edizioni talloniane alla “Strozzina” di Palazzo Strozzi, a Firenze nel 1950, nella quale l’illustre letterato definì l’Alpignanese con queste parole: «Le stampe di Alberto Tallone non hanno più bisogno di essere elogiate; ma varrebbe la pena di illustrarne il tormento di creazione; la lotta del loro artefice per un’armonia architettonica e cromatica del libro cui si oppongono, a volta a volta, i caratteri peculiari dei tipi; la ribellione continua alle mauvaises coupures; l’incontentabile ricerca dello spazio, della pagina, del formato».
E infine, mi piace chiudere qui ricordando che Alberto Tallone amò i suoi libri fino al punto di definirli, in una lettera del 15 dicembre 1963 indirizzata all’amico bibliofilo Michele Ugo Buonafina di Milano, «i miei figli di carta».
[Premessa alla Bibliografia talloniana, a cura di Anna Mavilla, Franco Maria Ricci, Parma 2010.]