di Antonio Prete
Ci sono alcune parole che nel nostro tempo, e in particolare nei nostri giorni, sono offese. O straziate. Perché svuotate di senso, respinte nell’insignificanza, rinviate a quella coscienza dell’umano ritenuta puro orpello di anime belle. Parole ritenute altro dalla politica. Altro dalla decisione politica, che in un preteso stato di necessità richiede fermezza e ruvidezza e maniere forti. È del resto sulla voce tuonante e sulla presenza incombente che si costruisce il consenso, e si raccoglie il frutto delle disseminate paure. Tra le parole oggi rese pallide, e restituite all’inerzia di un lessico depotenziato della sua energia, c’è la parola ospitalità. Rinviata a una corretta e igienica pratica alberghiera, destituita di quel riconoscimento forte del tu che è suo vero ritmo, sua ragione. Sottratta anche al disegno del noi, di un noi festivo, che in essa prende forma e vigore. Liberata da quel passaggio miracoloso dall’hostis all’hospes, dall’estraneità alla prossimità, che è scritto invece nell’origine del suo nome. In ognuna delle lettere che compongono il suo nome.
Una frase di Edmond Jabès coglie il tragico di questo svuotamento del nome ospitalità e l’urgenza della sua custodia: “Una parola di dieci lettere è il territorio dell’ospitalità. Proteggi ciascuna di quelle lettere. Poiché dappertutto, intorno, c’è l’inferno, il sangue, la morte”. La frase è nel libro dedicato appunto all’ospitalità, Le livre de l’hospitalité, l’ultimo libro di Jabès, il libro dell’addio alla scrittura, e alla vita. Proteggere le lettere di un nome è fare della parola uno scrigno della conoscenza, fare del suo senso un atto di vita. La parola, nel caso dell’ospitalità, è come una superficie d’acqua nella quale si possono scorgere i riflessi della lontananza, i riverberi di quel che è perduto, e negato, insomma di tutto quello che porta con sé colui che è accolto nella nuova casa. Perché, appunto, “dappertutto, intorno, c’è l’inferno, il sangue, la morte”. E dappertutto, anche nella lontananza dalla guerra, c’è un’insidia: quella di addomesticare l’orrore, di abituarsi al tragico, di non avvertire più lo scandalo per la distruzione dell’umano. Colui che fugge dalla guerra, dalla condanna all’estinzione per fame o per violenza, pensa, o spera, che la parola ospitalità abbia altrove ancora un suo senso, sia appunto protetta nelle sue singole lettere, perché intorno c’è l’inferno.
Colui che si salva da un naufragio cerca di poter guardare altrove, ancora, l’orizzonte. Lo straniero, nel primo dei Petits poèmes-en-prose di Baudelaire, è colui che nel cammino guarda “là-bas, là-bas, les nuages…”, laggiù, laggiù, le nuvole… Le nuvole, con la loro libertà di forma e di movimento, vanno verso l’orizzonte. Ed è proprio con l’orizzonte il vero legame che ha lo straniero, una volta sradicato dalla sua terra. Il diritto all’orizzonte è figura di ogni altro diritto. Ostruire l’orizzonte, costruire muri, è sottrarre il cielo allo sguardo, e ai pensieri. Il muro si oppone all’orizzonte, alla ricerca d’orizzonte che è in ogni cammino, in ogni movimento verso un approdo. “Il muro è il silenzio più duro. Negare il muro”, scrive Jabès in un altro suo libro intitolato Le parcours. Abbattere il muro è liberare l’orizzonte alla vista. Restituire il rapporto con il cielo, con la lontananza, con le nuvole. Il rapporto che appunto definisce colui che è in cammino.
E l’ospitalità è “carrefours des chemins”, incrocio di cammini: è questa la bella espressione che Jabès usa per definire l’ospitalità. Ecco una prima restituzione di senso alla parola: incrocio, e dunque incontro, di cammini. Ospitare è fare incontrare dei cammini. Nella lingua araba, ricorda ancora Jabès, uno dei nomi che designano l’ospite è colui che cammina. Per questo l’ospitalità ha origine mediterranea e nomade, ha origine dall’essere in cammino. Solo chi è in cammino, chi è nomade – chi è abitato da un pensiero nomade, potremmo aggiungere – e ha lo sguardo rivolto all’orizzonte, di là da ogni muro, solo costui può ospitare l’altro, cioè può fare dell’ospitalità una cosa naturale: come la pioggia, o il tramonto, o lo stesso cammino. È quel che fa il beduino nel deserto. Jabès racconta anche di una sua lontana esperienza nella immensa distesa di sabbie: una sera, la vettura in panne, lo smarrimento, poi l’accoglienza insperata nella tenda di un beduino, un’accoglienza che appare del tutto naturale a chi sa d’essere anche lui in cammino (per questo il beduino non comprenderà il perché del ringraziamento, quando l’ospitato tornerà a trovarlo).
L’ospitalità oggi, nella diffusa (ad arte) preoccupazione per l’eccesso di presenze migranti, di approdi, di richieste d’asilo, è parola che, insieme alla sua concreta declinazione, e insieme al suo esercizio, alle forme innumerevoli e possibili del suo esercizio, chiede d’essere anzitutto uno sguardo. Educazione a uno sguardo. Uno sguardo capace di oltrepassare il proprio recinto d’osservazione per collocarsi nel tempo e nello spazio interiore del singolo individuo che viene da lontano e chiede un approdo, un passaggio a un’altra terra, sotto un altro cielo. Nel cuore di quel singolo individuo c’è un sentire che è il nostro stesso sentire: desideri e immagini, legami e pensieri della stessa natura e intensità di quelli che ci appartengono, che ci costituiscono. Quasi sempre la differenza sta solo nel di più di dolore, nella ferita più acuta, nella violenza subita sul corpo e sullo stesso sentire. Un di più che la parola ospitalità può comprendere se di essa custodiamo e proteggiamo le singole lettere. Difendendole dal grido politico, dal suo rumore osceno, che vuole cancellarle.
[in “Doppiozero” del 21 giugno 2018]