di Evgenij Permjak
C’era una volta un ricco-straricco riccone. Aveva l’oro, stava seduto sull’oro, nuotava nell’oro, si occupava dell’oro, pensava e ragionava in termini di oro. Nulla, tranne l’oro, vedeva e voleva vedere. Come se non bastasse, anche il cognome il riccone aveva d’oro, Zolotov, ovvero, per essere chiaro in italiano, Dorov.
Questo Dorov si ficcò in testa che l’oro fosse la forza di tutte le forze, il potere di tutti i poteri e l’inizio di tutti gli inizi. Che perfino Dio fosse soggetto all’oro, perché, tramite l’oro, ci si poteva aggiudicare pure il paradiso.
Una volta, Dorov cominciò a vantarsi, durante un convito, in cui oltre a gran signori e proprietari terrieri, furono invitati uomini del ceto dei lavoratori: addetti al lavaggio dei minerali, trituratori, scavatori, capominatori, minatori e vari altri addetti al servizio minerario. Il fatto successe da noi, nelle terre degli Urali, perché non sarebbe neppure potuto succedere altrove. In quanto è qui che accadde ogni sorta di miracolo e di meraviglia…
Dorov gozzovigliò, dunque, oltre misura, ed attaccò con la sua solita millanteria. Ordinò al suo tesoriere di portare il suo oro e si mise a vantarsi: «Io, se voglio, posso ordinare a questa pepita d’oro, piccola quanto una lumachina, di diventare una diva di marmo e lei lo diventa. Io, se voglio, la obbligo a stendersi ai miei piedi come un tappeto prezioso e lei si stende. Oppure, se mi verrà in mente di farla diventare uno zar-samovar da un migliaio di litri, si metterà a far bollire l’acqua, eccome, per tutto il mondo ed a cantare per tutti quanti le sue samovariche canzoni. È giusto, vero?»
«E’ giusto, è giusto, signor Dorov» – fecero in coro i gran signori.
«E’ vero, è vero» – grugnirono i proprietari terrieri.
Intanto Dorov proseguì con le sue chiacchiere, vantandosi: «Questo lingotto, a vederlo, ha una fernetta assai corta, ma ha un ampio potere di giro. Solo a volerlo, può trasformarsi in un raro orologio straniero o in una carrozzella automatica che corre da sé, all’ultimo grido. Se vuoi, si innalzerà al cielo con sette cupole di una grande chiesa e brillerà di croci. Oppure, se vuoi, potrebbe diventare un allegro locale di tutt’altro tipo. Ah, ah, ah! È giusto, vero?»
Fecero nuovamente eco e grugnirono i gran signori ed i proprietari terrieri.
Invece tutti gli uomini del ceto dei lavoratori stavano seduti taciturni, si accigliavano, si scambiavano sguardi, si agitavano seduti sulle larghe panche. A loro non andavano affatto a genio tutti questi discorsi. Sapevano i lavoratori, eccome, il reale andazzo delle cose, su quale albero crescevano le pizze calde e sopra quale cespuglio maturavano le buone, gustose focacce. In modo particolare lo sapeva un semplice minatore, che perfino il ricco-straricco riccone Dorov un po’ temeva. Perché quest’uomo di poca presenza aveva una grande-grandissima forza. La forza verbale. Era capace di parlare in una tale maniera, che tutto quello che diceva diveniva visibile. Si trasformava in un’immagine viva. Non raccontava le cose semplicemente, ma le mostrava, le faceva vedere. Se si metteva a parlare del bosco, tutti, come per un incantesimo, si trovavano improvvisamente nel bosco. Si metteva a parlare del mare e cominciavano tutt’attorno a spumeggiare le onde ed a schizzare in faccia l’acqua da tutte le parti, da far venire voglia di asciugarsi.
Proprio quest’uomo, a questo punto, pose una domanda a Dorov: «Ma dimmi, potresti, per caso, tutto quello in cui l’oro si è trasformato, farlo tornare come prima?»
E Dorov: «Perché no! Non è una gran fatica, se ogni cosa si compra e si vende, e solo l’oro rimane sempre se stesso! Se vuoi, puoi accumularlo e se vuoi, puoi tramutarlo in tutto quello che ti pare.»
Il nostro bravissimo narratore-dimostratore diede un’occhiata di sbieco ai compagni e disse a Dorov: «Permettimi allora di mostrarti quale sia l’inizio di tutti gli inizi, la forza di tutte le forze e a chi sia assoggettato persino lo stesso oro. Ordina, intanto, di versare a te e a tutti gli altri ancora un bicchierino, mentre farò entrare nell’ambiente un po’ di nebbiolina cristallina e, per una visione ancor migliore, la faccio diluire con una luce di chiaroveggenza.»
Disse così e all’improvviso tutto ciò che era attorno assunse un aspetto cristallino-trasparente con un leggerissimo velo di nebbia e poi, attraverso le mura del palazzo di Dorov, si mise a schiarire la luce di chiaroveggenza, facendo apparire tutto palesemente chiaro e distinto, tanto da poter abbracciare con lo sguardo ogni minimo particolare.
Intanto il narratore-dimostratore cominciò ad ordinare ad ogni avere e bene materiale di Dorov di tramutarsi in quello che era una volta. All’istante, davanti gli occhi di tutti, il palazzo di Dorov si rivestì di ponteggi, sui ponteggi salirono i copritetto, arrivarono di corsa gli imbianchini ed i verniciatori, vennero i vetrai. I copritetto si misero a riscoprire il tetto; gli imbianchini e i verniciatori iniziarono a sbiancare e a sverniciare tutte le superfici, recuperando nei loro secchi la pittura murale e le vernici; i vetrai cominciarono a togliere i vetri dagli infissi; i muratori a decostruire tutte le pareti e i muri; gli stuccatori a togliere ogni tipo di stucco; i parchettisti a disfare alla svelta tutti i pavimenti. I trasportatori pure arrivarono a ritroso, caricarono tutti i materiali ed insieme ai loro carri, sempre a ritroso, consegnarono tutti i carichi nei luoghi di provenienza.
Tutto il ferro entrò a ritroso nei laminatoi per poi, attraverso i fori di colata, riversarsi negli altiforni e dopo ancora freddarsi tutto in minerale fossile. I minatori fecero ritornare il minerale fossile di ferro nel monte di Ferro, lo disposero dentro le miniere e ricoprirono tutto col terreno. I tagliapietre fecero diventare pietra grezza le colonne di pietra coi capitelli a volute e la fecero ritornare alle cave di pietra. Così sino all’ultimo chiodo tutto andò indietro ed a ritroso, come se la stessa ruota della vita cominciasse a girare all’improvviso dalla parte opposta: il sole levarsi dal tramonto e tramontare al levante, le piogge a riversarsi nelle nubi, le assi di legno a riunirsi sotto la sega in tronchi, e i tronchi resuscitare in pini nelle pinete… Ma il narratore-dimostratore non si fermava – aggiungeva e versava sempre più e più la limpida luce di chiaroveggenza.
Tornarono da Dorov i mucchi di monete d’argento e d’oro, ma anche loro iniziarono a fuggire nella zecca per deconiarsi e rifondersi in lingotti. Tutto si vedeva molto chiaramente. Si vedeva come i maestri-cesellatori toglievano dalla pressa per conio l’oro deconiato, come i ricercatori d’oro, i trituratori, gli scavatori, gli addetti al lavaggio rilavavano l’oro nella sabbia di quarzo e lo inserivano ad inclusione dentro le vene aurifere. Alla fine tutto divenne come era, quando nulla c’era.
Un posto brullo.
Rimasero solo gli uomini con le onnipotenti mani lavoratrici che cominciarono, in quel preciso istante, davanti agli occhi di tutti, a diventare d’oro. Tanto si doravano, brillavano e luccicavano come il sole, che mancò poco che accecassero il ricco-straricco riccone Dorov. Tanto che, quando finalmente riuscì a riavere la vista, sbattendo fortemente le ciglia, comprese in che cosa consistesse davvero la forza di tutte le forze. Lo vide in modo chiaroveggente, ma non lo ammise. Tacque. Stette zitto, perché non aveva nulla da dire né da ribattere, questo avidissimo ragno d’oro, alla semplice verità della forza di tutte le forze e dell’inizio di tutti gli inizi.