di Paolo Vincenti
Smartphone delle mie brame chi è il più social del reame? La dipendenza dai social media ormai è diventata un cancro dell’odierna società, la forma di dipendenza più forte oggi al mondo, e non può fare eccezione il nostro Paese. Si vive attaccati a Fb e Istagram, si passano le giornate perennemente connessi, e gli addicted, come vengono definiti i tossicodipendenti da social, ritengono ormai vero soltanto ciò che è sul mezzo, trascurando la vita reale. È la vetrinizzazione della vita, come la definiscono i sociologi, che porta, ormai non solo i nativi digitali, ma anche i più anziani, a tener da conto i like, più delle soddisfazioni reali, delle gratificazioni concrete, lavorative, sentimentali, personali, che in effetti non avranno mai. Il loro rifugio in quell’intramondo che è il social network è una fuga dalla odiata, banale, conforme quotidianità. Il social la colora, rende la grigia realtà più presentabile, smart, cool, più degna di essere narrata. E così anche la morte entra nel social e si fa spettacolo, materia per diretta, gancio per ottenere più consensi ed aumentare i followers. E la morte non suscita pietà, non chiama soccorsi, pronto intervento, ma like, condivisioni, empatia con l’operatore che la filma. Ha dato molto da pensare qualche mese fa il caso della morte da incidente stradale di Simone Ugolini a Riccione, mentre un idiota con lo smartphone lo riprendeva, senza badare a chiamare i soccorsi. L’imbecille pensava ai like che avrebbe ottenuto. E 11 mila addicted come lui si sono connessi, condividendo quel fatale momento: solo alcuni, pochi, insultandolo per il suo immobilismo, altri, la maggior parte, apprezzando e lodando la sua tempra e il suo sangue freddo nel riprendere senza ceder all’emozione, altri ancora, partecipando con commenti entusiastici. Desta orrore ma nemmeno grande sorpresa, comunque. Quante volte capita che in macchina assistiamo ad un incidente e vediamo gli automobilisti che si fermano davanti al luogo dell’accaduto curiosi di vedere il sangue, il cadavere fumante, o magari gli alterchi o le risse insorti fra i protagonisti dell’incidente? E la dipendenza da social è tale che contagia anche i malviventi, grandi e piccoli. Chi commette un crimine quasi sempre lo riprende col suo telefonino. La dipendenza è talmente stringente che passa sopra addirittura alla comprensibile speranza che ogni delinquente ha di farla franca. Tanto vero che moltissimi delitti vengono scoperti e i responsabili stanati grazie al social o alle telecamere di cui le nostre città sono invase. Un sicario, oppure un corruttore, uno scippatore, uno spacciatore di droga, un bullo, ecc., nonostante sappia che filmare l’impresa lo farà a strettissimo giro cadere nelle maglie della giustizia, non riesce a frenare l’impulso e filma mentre truffa, ruba, ammazza o raggira. Il social è la nuova agorà, la piazza virtuale dove gli internauti si scambiano pareri, emozioni, auguri, condoglianze, commenti vari, spesso parlandosi addosso, svariate ore al giorno, senza mettere il naso fuori dalla porta o dal finestrino dell’auto. I più giovani ormai comunicano solo attraverso messanger o whatsapp, anche se sono a pochi metri di distanza nella stessa scuola, aula, festa, o nello stesso ufficio, tanto che il social diventa “asocial”, come lo ha definito il periodico “Belpaese” (ottobre 2017) . E di fronte ad un qualsiasi avvenimento, politico, mondano, televisivo, sportivo, ecco tutti scatenarsi con il loro punto di vista, sparando cazzate immonde, sovente sfogando la loro bile repressa sui personaggi famosi o anche sulla gente comune. I cosiddetti “leoni da testiera”, quei pavidi che riversano merda sui loro simili fino quando sono protetti dallo schermo, poi se la fanno sotto se incontrano di persona qualcuna delle loro vittime virtuali, come dimostrano i simpatici servizi de “Le Iene2 su Italia 1. Sono gli haters, odiatori seriali, compulsivi che dicono male di tutto e di tutti solo per sfogare il loro narcisismo o per anestetizzare la loro frustrazione, alienazione. Molti querelano (la diffamazione a mezzo Internet è punita ai sensi dell’art.595 del codice penale), tanti altri lasciano perdere scoraggiati dai tempi lunghi della giustizia italiana. E gli odiatori continuano a bersagliare le loro vittime, twittando allegramente. Quando accadono fatti come quello di Riccione poi la gente si indigna, o fa finta di indignarsi, e dopo qualche giorno dimentica tutto. Non c’è orrore che tenga alla febbre compulsiva da social, soprattutto non ci sono antigeni contro le insidie della sottocultura promossa dalla virtualità, anticorpi abbastanza potenti da neutralizzare il virus dell’imbecillità. E i webeti (neologismo coniato dal direttore del Tg di La 7 Enrico Mentana) continuano a proliferare.
Sant’isidoro di Siviglia, protettore di Internet! E che cacchio di mondo è questo degli addicted? Fino a quando essi vivranno senza rendersi conto che la loro presenza sul pianeta è come quella di un’ameba, un numero per i sondaggi, solo un algoritmo, un dettaglio, un particolare trascurabile? Quando si renderanno conto che la loro vita può avere autonomia e dignità fuori da una definizione?
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Fare ammuina. È un vezzo non solo napoletano, ma tutto italiano, fare ammuina, cioè fare confusione, sparigliare le carte per non far capire davvero come sta la situazione. Così pure pazziare, cioè scherzare, divertirsi mattamente, per non pensare ai guai. In Italia, scrivono gli studiosi, non esiste più la dimensione del tragico, si è persa del tutto a partire dal Novecento. In teatro non si scrivono più tragedie, questo genere letterario è ormai desueto. Ma di contro, le tragedie accadono nella vita reale, di tragedie è piena Italia, nel senso di eventi collettivi disastrosi o luttuosi, vedi terremoti dell’ Abruzzo, dell’ Emilia e del Lazio, sui quali di rapina calano i vari sciacalli (che siano i napoletani che partono per i luoghi del terremoto a razziare le abitazioni o che siano i giornalisti che riprendono il pianto disperato della vecchina a cui il sisma ha sterminato la famiglia). Ma di tragedie in senso figurato ne accadono anche in politica. Le tragedie sono oggi materia per la tv, vedi le cosiddette fiction, cioè versioni sceneggiate di fatti realmente accaduti (una volta si chiamavano “film verità”). Se il teatro non conosce più il genere tragico, trionfa invece il genere comico, riscuotono successo la farsa, il cabaret, la commedia brillante. La gente vuole divertirsi, pazziare appunto, basti pensare ai record di incassi che fanno i film di Checco Zalone. Tragica, infatti, è la situazione economica del nostro Paese, e noi ridiamo per non piangere; per non cedere alla disperazione, la mettiamo sul sarcasmo e sullo sberleffo. La gente, specie in certi periodi dell’anno, come Natale e Ferragosto (emblematica, la determinazione di Equitalia di sospendere l’invio delle cartelle esattoriali per quei quindi giorni di ferie), preferisce la crapula e lo scherzo, all’amara consapevolezza. Tutti cercano di divertirsi per non pensare ai guai. Domina soprattutto l’ipocrisia. La classe politica, per esempio, offre sempre una versione menzognera, falsa, ai cittadini. E del resto, l’aveva detto già Machiavelli che “governo e virtù sono irreparabilmente separati, così come sono separate legge e verità, essendo ormai massima virtù del legislatore la simulazione”. E a proposito dell’autore del “Principe”: Machiavelli fu colui che sistematizzò la teoria espressa nel “De Monarchia” da Dante ( il quale l’aveva mutuata dall’arabo Averroè) della “doppia verità”, idest della separazione fra potere spirituale e potere temporale. Machiavelli scriveva nel Cinquecento. Oggi siamo ancora qui sommersi dai fondamentalismi di ritorno, non solo musulmani, ma anche cristiani. Il mondo è un gambero.
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Invisibili. Una storia raccapricciante, degna di un film horror. A Venezia, un ladro entra in un appartamento per svaligiarlo e fa una macabra scoperta, trova sul letto il cadavere di un uomo mummificato (Fonte: “Corriere della Sera”, 23 marzo 2018). Si tratta del professor Lelio Baschetti, morto, come hanno poi accertato gli inquirenti, addirittura nel 2011 e da allora restato a putrescere senza che mai nessuno se ne accorgesse. Si trattava di un uomo schivo, un docente in pensione, single, senza figli, che non coltivava particolari interessi né amicizie. Per tanto tempo, stecchito sul suo letto, senza destare nessun sospetto in seguito alla sua prolungata assenza, né nel postino che regolarmente gli consegnava la posta, né nell’edicolante sotto casa dove acquistava il giornale, nel macellaio da cui comprava la carne, nel medico che lo aveva in cura, e neppure nella sorella con la quale non aveva nessun rapporto da anni. Colpisce, in questa storia inutile, la mancanza di qualsiasi rapporto solido intrattenuto dall’uomo, la cui esistenza è scivolata via leggera come una piuma nel vento mefitico della laguna, o una foglia sui liquami. Ma quello che personalmente mi fa rabbrividire, di questo popolo di “invisibili”, è l’abisso di solitudine, di silenzi, di indifferenza, nel quale scorre la loro irrintracciabile vita, il deserto di incomunicabilità diuturnamente attraversato da queste impercettibili esistenze. E la tragedia di questa società che vive attaccata ai social, nella piazza virtuale, ed evita ogni contatto umano, qualsiasi rapporto amicale, affettivo, parentale, è tutta in questo caso emblematico. Un uomo muore e per sette anni nessuno lo cerca, nessuno se ne avvede.
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La situazione non è buona. Il rapporto Eurispes 2017 è sconfortante e fotografa una situazione italiana che è critica, a dir poco. I giovani, non riuscendo a pagare i mutui o i fitti, tornano a casa dai genitori, insomma a fare i mammoni, dando ragione a chi in questo buffo modo ha ribattezzato i ragazzi italiani. Ho detto “ragazzi italiani”? Ricordate quel gruppo musicale dei primi anni Duemila composto da cinque coccolini che ballavano e cantavano in playback, risposta nostrana alle boy band britanniche e americane? Beh, si respirava allora un’aria meno pesante di adesso, ancora si riusciva ad arrivare a fine mese e i giovani in cerca di lavoro riuscivano, sia pure con estrema difficoltà, a trovarlo. Oggi il lavoro è diventato un miraggio per i ragazzi, che sono costretti a pesare sui genitori o addirittura sui nonni.
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Crazy world. In Provincia di Verona, Santa Maria di Zevio, due ragazzini minorenni per divertirsi danno fuoco ad un clochard che viveva dentro la sua macchina. Ahmed Fdil, 64 anni, di origini marocchine, muore così carbonizzato e i due ragazzini, stanati dalle forze dell’ordine, si giustificano dicendo che volevano solo divertirsi.
In una cittadina in provincia di Forlì, Meldola, un anziano genitore ammazza la figlia disabile e poi si spara. Con lucida determinazione, l’uomo ha trascinato in garage la figlia, 44 anni, cerebrolesa dalla nascita, e l’ha freddata con un colpo alla testa. Dopo, si è fatto fuori. Forse alle origini del tragico gesto l’insofferenza del padre, dopo una vita di sacrifici e, si ipotizza, il fatto di non riuscire più a sostenere i costi dell’assistenza alla figlia. O forse la terribile solitudine, come scrive la stampa, di chi si sente abbandonato dallo Stato, persino in regioni, come l’Emilia Romagna, dove la Sanità viene considerata virtuosa. A Firenze, una bambina di soli quindici mesi viene presa a calci e pugni dal padre, un balordo albanese, tornato a casa ubriaco. Alla bimba, ricoverata presso l’Ospedale Meyer, sono state trovate due costole rotte e una grave lesione al timpano.
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Sono all’ordine del giorno ormai scene di genitori che picchiano gli insegnanti rei di aver redarguito i figli o di aver messo un brutto voto o peggio una nota. Nemmeno lontanamente li sfiora il sospetto che le cause della pessima riuscita dei figli siano attribuibili alla loro mancanza di educazione, perché ciò porterebbe i genitori a mettere sé stessi in discussione e questo è un ostacolo da rimuovere nel cammino della più sconsiderata, criminogena e barbara crescita dei loro figli debosciati. Genitori smidollati che si presentano a scuola negli orari più disparati, chiedono con prepotenza di poter incontrare il docente e gli assestano un gancio o lo riempiono di botte, lasciandolo agonizzante sul pavimento della sala dei professori. Genitori che si azzuffano alle partire di calcio dei ragazzini o pestano l’allenatore perché non fa giocare il figlio o preferisce un altro al loro rampollo. Genitori che scaricano sui figli le proprie ansie, che proiettano su di loro le proprie ambizioni, aspirazioni mancate, rendendo ancora più fragile il già precario equilibrio dei piccoli bulli. Davvero il mondo è fuor di sesto.