I due Pinocchio di Maria Rita Bozzetti

di Augusto Benemeglio

LA VOCINA

Chi non conosce Pinocchio, il libro più letto nel mondo? Si sono versati mari, oceani d’inchiostro, e di interpretazioni ce  ne sono millanta versioni. Da quando uscì, centotrentasette anni fa, Pinocchio non ha mai conosciuto fasi di stanchezza: è stato letto e riletto, interpretato, recitato, ridotto per il teatro, trasposto, stravolto, adattato per il cinema, riscritto a fumetti, parodiato, rielaborato, reinventato per nuovi libri. Inutile fare i nomi di Kleist, Totò, Disney, Carmelo Bene, Comencini, Benigni, Fellini, Paolo Poli, Manganelli: si potrebbe continuare all’infinito, fino Guillermo del Toro e  Tim Burton. Amato da piccoli e da grandi, adorato da lettori comuni e critici d’ogni tipo, ma non dalla scuola, dove il capolavoro di Carlo Lorenzini, alias Collodi,  semplicemente non esiste, anzi non è mai esistito, sempre relegato nella letteratura per l’infanzia, cioè opere minori,  Maria Rita Bozzetti ne ha voluto fare un poema, un intertesto in chiave di umanesimo cristiano, come scrive nella prefazione Franco Manescalchi, a I due Pinocchio, Milella editore, 2016, arricchito dalle splendide tavole delle opere pittoriche del maestro Antonio Stanca. Come diceva Borges, la poesia opera per magia, senza leggi prefissate, opera in modo esitante e temerario, come se camminasse nell’oscurità, come un sogno che poi si fa luce e strappa il sipario del mistero. Ma perché due Pinocchio? Sulla duplicità o lo sdoppiamento di Pinocchio si fa riferimento a numerosi testi letterari, da Chamisso a Hoffman, da Stevenson a  Conrad, fino agli straordinari capolavori dell’ultimo Shakespeare: “Misura per Misura”  e “La Tempesta”, per tacere della psicologia   dell’immaginale  in cui Pinocchio è quasi un archetipo junghiano. Ma non è tanto la duplicità, (in questo caso il dialogo lirico delle due voci antitetiche, quella del  Mr. Hyde e quella del Dr. Jekill ), né l’allegoria, la parabola del nostro vivere, che è chiaramente sottesa nel poema. Il tema più rilevante  che la scrittrice vuole sottolineare  è quello, oserei dire,  “metafisico”, che attiene al mondo degli angeli. Infatti, per me quello che ha ispirato tutto il suo lavoro è legato a una vocina, che forse ciascuno di noi potrebbe ascoltare, se avesse la grazia di una disposizione d’animo adeguata. È qualcosa di simile alla voce del verbo incarnato.  Pinocchio è  soprattutto una voce, scrive Pietro Citati. “È delizioso ascoltare il timbro sfacciato, esibizionista, improvvisamente sentimentale di quella voce, di quella sua lingua di legno e di carne! Pinocchio ha la possibilità di percorrere due strade opposte. Avrebbe potuto resistere alle leggi del mondo umano rivendicando la leggerezza, la velocità e la grazia dei suoi automatismi da burattino, che – dice Kleist – riproducono qualcosa della grazia di Dio. Invece sceglie la strada opposta”.  Ma per  la Bozzetti “Quella vocina è l’inizio/di un salire e discendere/per montagne ancestrali/con nebbie e meteoriti,/ è un errare assorbiti/ da lontana meta/ percepita tra aghi di buio, /è un intrecciarsi a luce stellare/in ordito che si schiarisce/nel lento macinarsi del tempo, /spazio ordinato da simboli di vero/ E’ attrazione per il nascosto, /un soffio libero che disinnesca/ da noia ogni futile nodo/ stretto agli angoli del giorno… (p. 22).

 

MANGIAFUOCO

Secondo lo stesso Citati, Pinocchio  è uno dei libri più felici, divertenti e ariosi di ogni tempo, il terzo libro di prosa del nostro Ottocento, dopo “I Promessi Sposi” e “Le operette morali”, ma di gran lunga più letto di loro; è al  pari delle grandi opere d’avventura di Dumas e di Dickens, o l’Odissea, “Le avventure di Robinson Crusoe”, “I viaggi di Gulliver”, le favole francesi, Le metamorfosi di Apuleio,  tutti libri che Collodi,  intessuto di fantasie romantiche e platoniche, aveva letto e riletto. Sapeva bene cos’era la scuola, il lavoro, il vagabondaggio, l’infanzia, la vecchiaia, la fame, e quali lusinghe impietosiscono il cuore di un uomo, quale retorica i grandi impongono ai bambini, o come si cuoce un uovo e si sbuccia una pera, tutte cose che Pinocchio sa già; anzi si scopre ben presto che è sempre stato un burattino famoso, al pari di Arlecchino e Pulcinella, maschere  che ritrova nel teatrino di Mangiafuoco, uno dei personaggi più ispirati della poesia esegetica della Bozzetti, che, come annota Manescalchi, ha sempre un atteggiamento pedagogico e catartico, tipo antichi commentari e qualcosa di molto vicino alle meditazioni: Mangiafuoco, d’aspetto duro, /s’incrinò nel cuore alla fervida supplica/ del burattino invocante il babbo/ e pietà provò per quell’essere disperato/// La storia di Geppetto strappò compassione/ e rifiuto a usare il figlio di un padre/ tanto mite per cucinare il suo montone./ Impietosito comandò ai suoi gendarmi/ di legare Arlecchino come sostituta/legna per il suo pranzo: ma questi svenne/ e Pinocchio scese in difesa offrendosi/ vittima di scambio! Mangiafuoco/ ancor più s’intenerì per il gesto d’amore/ e liberi lasciò i due,   chiedendo/ un bacio di grazie per la vita concessa:/ tutti allora fecero festa (p.71).

 

LA FATINA

Pinocchio è un orfano – altra figura mitica dell’Ottocento – con un disperato desiderio affettivo che lo spinge verso un padre e una madre. Poche cose sembrano più commoventi  del suo ingenuo tentativo di costruirsi con la fantasia un lungo passato insieme a Geppetto, mentre in realtà ha vissuto con lui solo poche ore; e che dire degli sguardi amorosi, dei baci infuocati che il burattino getta, “quasi fuori di sé”, alla Fata dai capelli turchini, altro personaggio che la Bozzetti analizza con grande finezza e cuore di madre:  “Quanta pazienza ha la Fatina!/ Pazienza è districare nodi/nei possibili fili del tempo/perché s’intrecci un ordito regolare … La Fata è la mamma / che accarezza, cura, conforta, smorza/ la resistente, immatura, ostinata natura/ che si illude di dominare l’esistere (p. 109).

La Fata prevede il futuro, prepara i destini, governa la metamorfosi:  bisogna prendere le medicine, ubbidire, dire sempre la verità, dare retta ai consigli dei grandi, diventare uomo che lavora, se vuoi diventare un bambino. In apparenza è una maestra del tardo ottocento che vuole educare Pinocchio al principio della realtà ed escluderlo dal regno magico della fiaba, al quale entrambi appartengono. E nell’intertesto poetico conferma la Bozzetti: La fata è luce/che attraversa la mente/incoraggia a distinguere /i margini delle cose e del nulla/ tutti immersi nella vita (p. 147). La fata è l’angelo di ognuno/ consiglia amore per l’onesto rigore/…che conduce a liberarsi dalle maglie dell’egoismo (p. 151).

Ma in realtà la pedagogia della fata di Collodi è piena di una inimitabile grazia e d’ironia. Quando Pinocchio sta per peccare, non lo costringe: è convinta che l’errore si può curare solo con l’errore; e alla fine lo salva senza che egli ne abbia merito, con la dolcezza del perdono amoroso, anche dopo che lui  tradisce per l’ennesima volta la sua fiducia e va  dietro Lucignolo nel paese dei balocchi, e diventa asino. Tuffato nell’abisso della morte, gettato come un sasso nel mare della vita, Pinocchio risale verso la luce, e viene liberato solo per grazia della Fata. Ed ecco rinascere il burattino, con le liete capriole da delfino, le danze felici nel mare, un inno di gioia di chi ha ritrovato la propria vita, ma questa gioia “burattinesca”  non può durare a lungo.

 

IL DESTINO DI PINOCCHIO

Egli è destinato a diventare l’altro Pinocchio, il bambino  “che avrà gli stessi occhi della Fatina, celesti”, e per far ciò deve rinunciare a una parte di se stesso. Nello stomaco del Pesce Cane, in compagnia di un Tonno, ritrova il padre, l’amato Geppetto e progetta la fuga, con arditezza, ingegno, coraggio, tutto ciò che non era mai riuscito a fare prima, e decide di riportarlo a casa. Tutto accade in una notte illuminata, in una notte di luna piena, come nelle metamorfosi di Apuleio. Ma prima di allora, – scrive la poetessa, – c’era stata la tenebra, il vuoto, lo smarrimento: “Poi, /come norma che scandisca ore/e successione di spazi/nell’incastro del giorno/ ecco la fioca luce/ e il ritrovare il proprio sé ,/il passato felice/ il racconto triste di una storia/ e riassaporare l’esistenza/ nell’abbraccio del destino…” (p.197).

Alla fine, amici, che cosa non darei per sentire quella vocina “Nel silenzio dell’io”-:  Lune, avori, strumenti di navigazione, rose rosse, lampade d’ottone e una tela d’oro di Turner; un  sogno che smarrii prima dell’alba e la mia sciabola appesa al muro di gesso, la sorte di una torre del Salento, ormai devastata dai saraceni di oggi e tutta  l’ epopea dell’”Uomo e il Mare”, quando  spesso con Maria Rita eravamo seduti al tavolo della Giuria e la musica che ascoltavamo sapeva raccontare il vento, e tutto quello che ora sento nell’eco della conchiglia del mio cuore. Avrei dato tutti i miei libri, le stampe, le chiavi segrete  e quell’impero di luce che muore in una lucciola!….   Ma,  in fondo, per ascoltarla, basta leggere il tuo libro, sostare sui tuoi versi, come dice la tua amica Laura Mirjam Mele nell’introduzione: occorre stare, fermarsi, tollerare anche l’incapacità di accedere al senso profondo di questo dire su Pinocchio, dicendo di sé e del mondo.  Di sé e noi.

 Roma, 28 febbraio 2018

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