Zibaldone galatinese (pensieri all’alba) V

di Gianluca Virgilio

V

Il mio intimo convincimento sugli studi di storia del barocco leccese è che essi si inseriscano a pieno titolo nel solco della restaurazione neobarocca che imperversa nella società salentina. Sono proprio questi studi, con la loro serietà scientifica, con la loro fondatezza storiografica, con il loro rigore inoppugnabile, quelli che giustificano in modo irrefutabile il neobarocco come ideologia del potere. Lo studioso assolve alla funzione di saldare il passato al presente, poiché fornisce al presente uno sfondo storico e una prospettiva nobile, sicché barocco e neobarocco si rispondono, s’intendono, si spalleggiano a vicenda, consolidando una visione del mondo in cui allo studioso non spetta altro compito che quello di dire, scientificamente, che cosa sia accaduto nel passato, che poi è la stessa cosa che accade nel presente.

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Ho visto papà Pasquale (cento e uno anni compiuti) che guardava il cielo da dietro la finestra e l’ho sentito esclamare: “Che bel cielo azzurro vi è oggi, è davvero una bella giornata!”. Ho pensato che in quell’atteggiamento e in quella frase vi era tutto lo spirito vitale dell’uomo centenario, per nulla stanco di godere dell’azzurro del cielo; e mi sono detto che finché sensazioni come queste pervadono le nostre menti, siamo ben vivi e la morte ci sembra solo una possibilità remota.

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Scrive M. Buber, La vita dei chassidim, ne La leggenda del Baalschem, in Storie e leggende chassidiche, a cura di Andreina Lavagetto, cronologia di Massimiliano De Villa, Mondadori, Milano 2009, p. 231: “Intorno a ogni uomo, inserita nella vasta sfera del suo operare, c’è una regione naturale di cose che egli è destinato a liberare innanzitutto. Sono gli esseri e gli oggetti che vengono chiamati patrimonio del singolo: i suoi animali e le sue mura, il suo giardino e il suo prato, i suoi utensili e il suo cibo. Curandoli e godendoli in santità, egli libera le loro anime”.

Prima di leggere queste parole, non avevo mai pensato che quando innaffio le piante dell’orto o do da mangiare e da bere al cane, quando elimino dallo studio le cartacce o pulisco il vetro di una finestra, quando faccio la raccolta differenziata, ecc. sto in realtà liberando le cose, l’anima delle cose!

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Jean Renoir, Renoir, mio padre, Adelphi, Milano 2015 (ma lo scritto risale al 1962) riferisce le parole le padre, il pittore impressionista Pierre-Auguste Renoir, a proposito della teoria del turacciolo: “Bisogna seguire la corrente… quelli che vogliono risalirla sono dei pazzi o degli orgogliosi, o, peggio ancora, dei distruttori. Di tanto in tanto si deve dare un colpo di timone a destra o a sinistra, ma sempre nel senso della corrente”.

Il “turacciolo” che asseconda la corrente e va dove essa lo porta potrebbe sembrare una metafora della rassegnazione, dell’acquiescenza, di un atteggiamento passivo rispetto alla vita, ma io credo che Renoir padre volesse dire ben altro, ovvero che il “turacciolo” significhi bene quella disposizione dell’animo all’armonia con quanto ci circonda; per restare alla metafora, il turacciolo ha la virtù di non affondare mai perché esso si affida alla corrente che lo trasporta, che sembra non trascinarlo con la forza, ma portarlo con sé, muoversi insieme a lui, eccetto “un colpo di timone a destra o a sinistra, ma sempre nel senso della corrente”. Il turacciolo nella corrente è l’uomo che vive nel flusso dell’esistenza, che si confonde con tutto quanto lo circonda, senza differenziarsi dal contesto in cui si trova ad agire, mettendo in gioco solo minimamente la sua volontà (“un colpo di timone…”), ma perlopiù assecondando la vita. La volontà, infatti, spesso non è determinata dall’intimo delle cose, ma dalla nostra supponenza. Il turacciolo va, va dove deve andare per una forza immensamente superiore a lui, e d’altro non gli cale.

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Penso a che cosa significhi davvero volere qualcosa, al desiderio, che è sempre mancanza; e dunque esso per realizzarsi deve incontrare sulla sua strada un quid di realtà, utile a liberarlo della sua soggettività. Solo in questo caso il desiderio è necessario e realizza la vita; viceversa, il desiderio è velleitario e dannoso alla vita. A guardare bene, tutta la vita si realizza grazie a questo desiderio necessario e quando si muore vuol dire che non è più necessario vivere. Allora il desiderio mostra tutta la sua inconsistenza, essendo staccato da ogni necessità vitale: si desidera vanamente ciò che non si potrà mai avere. La vita unicamente consiste nell’essere di ciò che è necessario che sia, e nulla più.

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Harundo –inis, hirundo –inis: in latino, la canna e la rondine. La somiglianza dei nomi (cambia solo una vocale) mi fa pensare al racconto di papà Pasquale, che ricorda l’estate di tanti anni fa, quando si villeggiava in campagna, e a sera le rondini, a migliaia, andavano a dormire nel canneto: ognuna come foglia oscillante al vento della notte.

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Luce radente tra i palazzi nel tardo pomeriggio primaverile. Trascorro in moto per le strade cittadine, con un forte senso di estraneità. La città appare attonita, stupita, incapace di iniziativa. La sua inquietudine si rivela nel passante frettoloso, nel viso sfuggente, nel saluto approssimativo e di circostanza. Ed io, che cosa porto con me, quale desiderio, quale mancanza?

Non c’è anima viva con cui scambiare una parola. Tutte le amicizie accumulate in più di mezzo secolo di vita sembrano essersi dissolte. Come su una giostra alla fine della festa, vado in giro per la città, percorro strade note con l’unico piacere scemo di guidare la moto e sento di essere un perfetto sconosciuto tra mille sconosciuti. Che ci faccio in questi luoghi, a quest’ora che annuncia la sera incipiente? Meglio tornare a casa come a porto sicuro, meglio leggere un libro.

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I 62 miliardari più ricchi del mondo concentrano nelle proprie mani risorse pari a quelle messe insieme dalla metà più povera della popolazione del pianeta”. Non lo scrive un comunista, ma Massimo Gaggi, I sessantadue miliardari ricchi come mezzo mondo (ma forse questi calcoli sono esagerati), nel “Corriere della Sera” del 19 gennaio 2016, p. 15. Forse i calcoli sono esagerati, ma la conclusione di Gaggi è inequivocabile: “un riequilibrio … diventa sempre più necessario”.

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Maggio in Piazza S. Pietro a Galatina. Le rondini si inseguono nel cielo sereno della piazza e garriscono. Sono seduto al tavolino del bar, all’aperto e penso che mi piacerebbe scrivere lì, in presa diretta, le mie osservazioni, ma non posso farlo perché la scrittura ha un suo pudore e di certo mi prenderebbero per un eccentrico se mi mettessi a scrivere in piazza. Rifletto sul limite della mia libertà. Ma poi risolvo, che, una volta a casa, mi sarà possibile, stando nel mio angusto studio, immaginarmi lì, nella piazza, sotto il cielo attraversato dalle rondini, intento a scrivere come se fosse una cosa normale.

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“Bisogna lasciare che le cose vadano per il loro verso”: è una frase a cui spesso non diamo il dovuto peso. Il fatto è che le cose vanno sempre per il loro verso, malgrado ogni volontà contraria; ed anche quando una volontà contraria si mette di traverso, essa non fa altro che il gioco delle “cose che vanno per il loro verso”.

“Era il rivo strozzato che gorgoglia”, scrive Montale.

Più la volontà vuole, più fa male.

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In vacanza. Il pensiero che non ho nulla da fare, ma proprio nulla, mi esalta. Infatti, tutto quello che mi capiterà di fare in questo tempo in cui non ho nulla da fare sarà una novità per me e per il mondo intero. Questo sì che significa “progettare”!

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Spesso, quando non si riesce a dare una risposta, l’errore è nella domanda: qual è il senso della vita? In realtà, la vita senza questa domanda può essere una vita serena e appagante. È la domanda che introduce il turbamento. A chi giova chiedere una risposta fuorviante ad una domanda sbagliata? Ah, quanti malintenzionati ci sono in circolazione!

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All’alba mi ha raggiunto un pensiero sulla sessualità, e cioè che essa sia nient’altro che un desiderio di prossimità all’altro. Il fine riproduttivo è solo una conseguenza dell’istinto che si determina a seguito del nostro stare insieme e dunque viene meno nei casi in cui la prossimità è tra persone dello stesso sesso. Così pure la distinzione di sesso vale solo per l’atto riproduttivo, ma per il resto il desiderio di prossimità è così vario che il sesso diventa uno stereotipo che non permette di capire che cosa si nasconda dietro le molte manifestazioni della sessualità: solo ed esclusivamente il desiderio di non essere soli ovvero il desiderio di prossimità all’altro. Gli antichi, perlopiù bisessuali, avevano una concezione della sessualità ben più larga di quella introdotta dal cristianesimo, secondo il quale il sesso deve essere finalizzato alla procreazione. Per i pagani, invece, il sesso era una manifestazione della prossimità all’altro, da cui soltanto poteva derivare il piacere (di stare insieme all’altro, indipendentemente dal genere).

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Scrive dagli USA Noam Chomsky, Capire il potere, Marco Tropea Editore, Milano 2002, pp. 233-234: “In Europa è stato incredibile. L’Europa è stata colonizzata culturalmente dagli Stati Uniti a un livello inverosimile. A quanto pare gli europei non se ne accorgono, ma se andate da quelle parti trovate solo una brutta copia degli Stati Uniti, anche se è ancora più tragico perché hanno una sensazione di grande indipendenza. Gli intellettuali dell’Europa occidentale amano considerarsi persone molto sofisticate che si fanno grasse risate su questi sciocchi americani, ma hanno subito dagli Stati Uniti un totale lavaggio del cervello. La loro visione del mondo, le distorsioni e quant’altro sono tutte filtrate attraverso film, telefilm e giornali americani, ma ormai non se ne accorgono più.”.

Chi potrebbe dire che non è vero?

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Trascorrere un giorno intero senza un’idea. Me ne preoccupo. Ma ecco che mi viene l’idea che noi tutti tendiamo verso la totale mancanza di idee, che bisogna rassegnarsi a questa lenta, inesorabile nostra riduzione alla materia informe, da cui un giorno più o meno lontano sia nati.

Un’idea è sempre una consolazione.

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Sulla questione del latino, Manzoni ha detto l’ultima parola due secoli fa col personaggio di Don Abbondio, che usa il latino per ingannare il povero Renzo. Pertanto, si sottragga il latino ai Don Abbondio (ce ne sono di tutte le risme) e la questione sarà risolta.

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A scuola ho fatto vedere Castaway on the moon, un film nordcoreano del 2009 per la regia di Lee Hae-jun. I ragazzi quindicenni alla fine hanno applaudito; ed in effetti il film mi appare come una vera, perfetta opera d’arte: un racconto schietto e profondo che tocca i problemi fondamentali dell’uomo contemporaneo: il conflitto con la civiltà, il rapporto con la natura, la solitudine, l’amore, l’identità, ecc.; il tutto trattato in modo non didascalico, bensì con una sapienza narrativa che molto raramente si incontra nella produzione cinematografia attuale. Vedendo il film, ho pensato molto a Leopardi e ne ho parlato ai ragazzi, che presto mi porteranno la loro relazione, e sarà una bella occasione per parlarne ancora.

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Interessantissimo quanto si legge sul fascismo in Ignazio Silone, La scuola dei dittatori, in Romanzi e saggi, vol. I, Meridiani Mondadori, Milano 1998, p. 1096: “No, il fascismo veramente non è caduto dal cielo ed esso non ha sottomesso a sé uomini liberi, ma folle già predisposte a servire dal loro modo quotidiano di vivere e già educate a ubbidire da tutte le forme della vita democratica (insegnamento scolastico, servizio militare, pratiche religiose, e anche dall’addestramento ricevuto nei sindacati e partiti d’opposizione, centralizzati e burocratizzati come il resto).”

Ciò spiega bene come dalla democrazia possa nascere il fascismo e come da questo si possa ritornare alla democrazia, senza sostanziali cambiamenti.

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Sento dentro di me due forze che mi tirano in due diverse direzioni: la prima mi spinge a vivere dentro la storia, a tuffarmi dentro, a farne parte, ad essere attivo e propositivo, a lottare, come si diceva una volta, per un mondo migliore; la seconda è una forza che mi tira fuori dalla storia e mi suggerisce di guardare con distacco a quanto accade intorno a me, come se io non ne facessi parte, ma fossi chiamato solo a osservare e descrivere. Sin dai tempi del liceo, per me è stato così. A conti fatti, almeno finora, la prima forza mi ha condotto verso delusioni sempre più cocenti, mentre la seconda forza, se non mi ha consolato, almeno mi ha fatto comprendere i motivi dei miei fallimenti.

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