di Augusto Benemeglio
Dalla Torre del Silenzio (Uluzzo) che si affaccia sul Parco di Porto Selvaggio ordinavo – sulla carta – le mie vie, i miei giardini, i miei viali, le mie città invisibili, una ad una. Eccomi più solo di un cane svagato sul pontiletto di Santa Caterina a guardare le barche ormeggiate e scattarmi un selfie dopo l’altro con il cellullare che forse poi pubblicherò su f.b. che gronda di facce celebri e non, intente a mostrarsi occupando la maggior quantità di spazio possibile. Viviamo in una società facciale nella quale – dice Thomas Macho – i visi sono svuotati di ogni connotazione davvero personale. Maschera , medium sociale per eccellenza nel teatro antico greco, capace di evocare la presenza degli dei in un rito, o di rendere presente il volto di un defunto. Ma oggi tutte queste facies, vultus, imago, persona celebrano la presenza del kitsch. Ricordo la maschera colossale di Mao Tse Tung, icona del potere e della pop art, i volti dilaniati di Bacon, o quelli cancellati di Rainer, i film di Bergman, e il velo della Veronica su cui furono impressi i tratti del vero (?) volto di Cristo. Ma ecco la via Veneto di Fellini, la fontana di Trevi di Anita Ekberg, dea del Walhalla che spunta dall’acqua, e un drappello di marinai americani che la saluta con urla selvagge, – hurrà!
E poi in un balzo – come accade solo nei sogni -, eccomi ad Otranto a osservare altri innumerevoli volti disfatti di albanesi, maschere allucinate da speranze e furori troppo a lungo repressi, cui veniva loro incontro don Tonino Bello con un fascio di spighe di grano e quel suo sorriso pieno di miraggi e di utopie, come la sua chiesa del grembiule – “Non vi abbandonerò in questo giorno di abbandonati, non vi abbandonerò in mezzo alle croci, al deserto e alle macerie”, e viene spinto in tivù nell’arena di Santoro il Rosso per essere sbranato dai leoni. – “Era destino che si dovesse perdere la ragione , e perfino il pudore, lacerarsi i sensi e fare un falò del tuo decoro, per inseguire la follia della santità. La santità, come la genialità, non si eredita, è un dono che richiede, però, un esercizio costante di pazienza di feroce umiltà. E solo allora, l’anima intimidita entra nella spirale dell’immensità e non cerca più nulla, poiché nulla è da cercare e da capire: è solo Amore, e l’amore non ragiona! . “Non il vedere per primo qualcosa di nuovo, bensì il vedere come nuovo l’antico, ciò che è già anticamente conosciuto e che è da tutti visto e trascurato, contraddistingue la mente diversa”. Mi ricordavo un po’ Turoldo e un po’ Nietzsche , un po’ Ravasi , un po’ (chissà perché) Empedocle , tra le balaustrate di pietra e le simmetrie dei chiostri domenicani , coi finestroni lobbati, l’altare di Dio e i luoghi un tempo solcati dai torrenti. Me ne andavo come un girovago smemorato, metà viaggiatore e metà pellegrino, per le vie e per le piazze del Salento , in direzioni da me non volute. Chi mi portava avanti, chi spingeva i miei passi per i labirinti del granchio e della vite, per seguire una stella cometa già spenta, tra i campi liberi di Lancellotto, la Madonna di Costantinopoli e il menhir di Montebianco? Ecco Vernole, tra le serre di Martignano e il litorale, e l’albero di pino col suo profondo silenzio, chiuso e segreto, i suoi casali bianchi, e Acaia, dentro le sue mura e il suo grandioso castello, che celebra la sagra della pittula. “Ciò che fa la storia non può essere dedotto esclusivamente dalle fonti: occorre una teoria delle storie possibili perché le fonti possano cominciare a parlare”. Con un sentimento di luttuoso sgomento vedevo muovere le labbra mute del Grande Istrione , erede di Maramonte, antico sacerdote del menhir “Candido”, nel covone di grano di Campi, vicino alla zona dei quattro casali distrutti dai saraceni. “Senza contrari non c’è progresso. Attrazione e Repulsa, Ragione e Energia, Amore e Odio sono necessari all’umana esistenza…” Tra noi non una parola, non una parola. Non ci siamo mai salutati, nelle bettole di Trastevere, o sull’aereo Roma-Brindisi, all’uscita del teatro Valle, o a Otranto, a casa di Florio Santini , e perfino – una volta – a Johannesburg, dopo aver visto i negri uscire dalle miniere di diamanti e messo una benda nera di vergogna sui nostri occhi. Perché? E’ difficile dirlo. Ma forse è ancora quella benda nera che accieca la mia memoria. Lui non mi guardava affatto coi suoi occhi da zombi. In realtà era altrove, cassa sonora di sublime e raro talento fatta per parlare senza dire nulla. Sono momenti molto lunghi e difficili da dire, fanno parte del mio esilio segreto, del mio tempo di mezzo: mezzo marinaio e mezzo scrittore, mezzo pellegrino e mezzo viaggiatore, in fondo uno senza meta che ogni notte arde brevemente come un fiammifero per cercare di illuminare e ritrovare un po’ l’anima delle cose, come la Mimì della Bohéme che ha perduto la chiave: “Chi arde non si consuma, e se vuoi ritrovare la tua anima bisogna che tu la perda!”.