di Rosario Coluccia
Da qualche settimana i media sono percorsi da un diluvio di interventi e di articoli (al quale ho contribuito anch’io) originato dai casi, purtroppo sempre più frequenti, di sopraffazione e di violenza che si verificano nelle scuole italiane e che coinvolgono studenti, professori, genitori. Allarmato da quello che tutti abbiamo letto e ascoltato un lettore mi scrive, chiedendo che il suo nome non venga citato nella mia risposta. Accolgo la richiesta perché la lettera è firmata, se fosse anonima non risponderei. Il lettore fa una premessa e pone delle domande. Il cellulare viene spesso usato per diffondere fatti riprovevoli, a volte sembra addirittura che i protagonisti (negativi) di questi episodi intendano, attraverso la diffusione in rete, vantarsi di gesti di cui dovrebbero vergognarsi, incuranti delle conseguenze. E allora, non è il caso di vietare l’uso del cellulare a scuola? Sappiamo, gli adolescenti (ma non solo loro) ne fanno un uso continuo. Ma, almeno per le ore di scuola, non possono rinunziarvi? Nelle ore di lezione si faccia lezione e basta, conclude il mio lettore.
La questione è importante e delicata. Fino a poche settimane fa dettava le regole una circolare del 15 marzo 2007 emanata dal ministro dell’Istruzione dell’epoca che vietava l’uso del cellulare in classe. Non per opposizione di principio alle nuove tecnologie: il rifiuto era motivato dalla volontà di assicurare uno svolgimento efficace e corretto dell’attività didattica. Quella circolare diceva più o meno così. Bisogna evitare che il cellulare e altri dispositivi elettronici rappresentino elemento di distrazione sia per chi li adopera che per i compagni. Inoltre usare il cellulare durante le lezioni potrebbe costituire una mancanza di rispetto per il docente, che deve poter svolgere la propria funzione senza essere disturbato. La violazione delle regole prevedeva sanzioni adeguate alle circostanze, fino al ritiro temporaneo del telefonino durante le ore di lezione, in caso di uso scorretto dello stesso. Ho controllato rapidamente in rete. I regolamenti di moltissime scuole si adeguano a quelle disposizioni, impegnando studenti e docenti a non usare mai in classe né cellulare né altri dispositivi elettronici, salvo casi eccezionali e sempre con il consenso del docente.
Sappiamo che le cose stanno diversamente. La realtà effettiva contraddice le regole dettate oltre dieci anni fa, il cellulare è entrato di fatto nella scuola. I ragazzi lo usano di continuo, i genitori protestano nei casi (rari) in cui il cellulare che disturba viene temporaneamente sottratto ai pargoli (e, ovviamente, restituito al termine della lezione). L’onnipresente protesi digitale ormai accompagna ogni momento della vita quotidiana di milioni di cittadini, indipendentemente dall’età e dalle situazioni. Basta guardare in giro. Ai dibattiti pubblici, a cinema, perfino ai concerti di musica classica non manca mai qualche squillo o musichetta di chiamata o qualche squittio di WhatsApp. E l’interpellato, invece di arrossire e sparire, quasi sempre risponde, a volte addirittura senza alzarsi dal proprio posto. E se qualcuno protesta, in genere la risposta è un grugnito di fastidio. In conclusione. Se il cellulare a scuola è una realtà (da molti detestata), è velleitario impedirne fisicamente l’ingresso: nessuno vorrebbe collocare metal detector all’ingresso o perquisire gli studenti. Ma un conto è che i ragazzi lo posseggano per occasioni di vera emergenza, altro conto è che lo utilizzino liberamente durante le ore di lezione. La materia va attentamente ponderata e regolamentata. Non chiudiamoci gli occhi, sperando che la questione si risolva da sé. Così siamo abituati a fare in Italia, poi la realtà dei fatti ci smentisce, nelle piccole e nelle grandi cose. L’esempio più drammatico è quello dell’immigrazione, fenomeno epocale di portata biblica, che è stato affrontato vivendo alla giornata, con iniziative non organiche, pur spesso animate da buone intenzioni. Poi, di fronte ai problemi irrisolti, l’insofferenza dilaga. E i demagoghi ci sguazzano.
Sembra animato da buone intenzioni un “decalogo” emanato nel gennaio 2018 dal Ministero dell’Istruzione che di fatto dà il via libera all’ingresso dei telefoni cellulari in aula. Il documento si intitola «Dieci punti per l’uso dei dispositivi mobili a scuola», e fin qui capiamo. Immediatamente dopo c’è la solita inutile frase in inglese, che c’entra come i cavoli a merenda: «BYOD – Bring your own device», che vuol dire ‘porta il tuo dispositivo’, in forma criptica intenderebbe spiegare al ragazzo che portare il cellulare a scuola non è vietato, se serve ad un migliore svolgimento dell’attività didattica (ma questo si capisce solo leggendo i punti successivi, BYOD di per sé non significa assolutamente nulla). Insomma: per apparire moderno il ministero ricorre a una formuletta inglese. E quando commenta in italiano, al punto 6 del “decalogo”, scrive «nonchè» (con l’accento grave, errato) invece di «nonché» (con l’accento acuto, giusto). Così va la lingua, al Ministero dell’Istruzione della Repubblica Italiana.
Veniamo alla sostanza. Ecco le indicazioni del documento:
- ogni novità comporta cambiamenti;
- i cambiamenti non vanno rifiutati, ma compresi e utilizzati per il raggiungimento dei propri scopi;
- la scuola promuove le condizioni strutturali per l’uso delle tecnologie digitali;
- la scuola promuove e accoglie lo sviluppo del digitale nella didattica;
- i dispositivi devono essere un mezzo, non un fine;
- l’uso dei dispositivi promuove l’autonomia delle studentesse e degli studenti;
- il digitale nella didattica è una scelta: sta ai docenti introdurla e condurla in classe;
- il digitale trasforma gli ambienti di apprendimento;
- rafforzare la comunità scolastica e l’alleanza educativa con le famiglie;
- educare alla cittadinanza digitale è un dovere della scuola.
Le intenzioni sono evidenti. Si ammettono in classe computer e tablet, al fine di promuoverne l’ uso consapevole, in linea con le esigenze didattiche. Spetta ai docenti decidere come introdurli durante la lezione, nei modi e nei tempi che ritengono opportuni. Gli ultimi due commi aprono scenari quasi etici. Le famiglie sono coinvolte, i parenti sono chiamati alla collaborazione, le tecnologie digitali devono essere funzionali ad una vera e propria «alleanza educativa». Bella prospettiva, purtroppo contraddetta da tanti episodi concreti, che vedono i genitori schierati pregiudizialmente a difesa dei figli e contrapposti ai docenti: spesso in forme aprioristiche, quasi per principio. Una precisazione infine, a scanso di equivoci. In nessun punto il decalogo ammette l’uso personale durante le ore di lezione, se non è autorizzato dai docenti. Quindi telefonate, messaggini, riprese video sono vietati, nessuno si sogni di attribuire permessi del genere alla recente circolare ministeriale. Almeno su questo, evitiamo fraintendimenti.
Cosa pensare della novità? In Europa, non esiste un orientamento univoco. Il nostro paese sceglie una prospettiva che somiglia a quella adottata dalla Germania che consente di introdurre il cellulare in aula, affidandone la regolamentazione al singolo istituto. Diversa la posizione della Francia e della Gran Bretagna che hanno deciso di vietarlo. Si confrontano due diverse posizioni, che un po’ estremizzando potremmo presentare così. Alcuni osservano che il telefonino e la rete sono dappertutto nella società, servono per comunicare, informarsi, decidere. Non se ne può fare a meno, nella scuola come nella vita, è una scelta di libertà. La pensano diversamente coloro che mettono in guardia dall’uso eccessivo delle tecnologie informatiche, specie da parte di bambini e ragazzi che hanno il cervello non ancora del tutto formato (ma l’abuso provoca guasti anche negli adulti). Non si può accettare ogni novità con leggerezza, comunque sia.
Da che parte stare? Ne parleremo la prossima volta.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 6 maggio 2018]