La città abbandonata

di Gianluca Virgilio

Forse sarebbe bene che passassimo la maggior parte dei nostri giorni e delle nostre notti senza alcun diaframma tra noi e i corpi celesti, e che il poeta non parlasse e il santo non abitasse tanto a lungo sotto un tetto. Gli uccelli non cantano nelle caverne, né le colombe nutrono la loro innocenza nelle colombaie.

Henry David Thoreau, Walden ovvero vita nei boschi.

A novembre può accadere, a dispetto dell’estate di San Martino, che per tre, quattro giorni di seguito, il sole rimanga nascosto dietro le nubi e il cielo sia grigio e gonfio d’acqua. La pioggia batte sulle case e le rende scure, scivola sui muri lasciando dietro di sé molte strisce sporche, precipita nei canali di scolo, scorre nelle strade invadendole con milioni di particelle sottratte ai cancelli, ai muri, alle terrazze, che vanno a finire nella fogna e di lì chissà dove. I contenitori  dentro i quali vivono gli uomini si consumerebbero impercettibilmente per effetto di queste lunghe piogge, se gli abitanti non facessero periodicamente la manutenzione delle loro abitazioni, e nel tempo di cinquanta, cento anni al massimo l’intera città sarebbe ridotta a un niente.

A sera, dopo cena, indosso l’impermeabile, prendo l’ombrello, lego Billie al guinzaglio ed esco. Ha appena smesso di piovere, le strade sono bagnate e piene di pozzanghere, il cielo minaccia altra pioggia.

Rasento una casa abbandonata, camminando sopra un tratto di marciapiede sconnesso, lungo un alto muro di cinta, una protezione che ne impedendo la vista al viandante. In questo tratto, bisogna stare attenti a non sporcarsi. Per i loro bisogni i cani amano gli spazi antistanti le case che reputano senza padrone. A quest’ora c’è poco traffico sulla strada principale. Ma le auto che passano fendono l’acqua sollevando piccole nubi di vapore che il vento trasporta più lontano. L’acqua piovana ha aperto lunghe fessure nell’asfalto bagnato e, qua e là, qualche buca profonda, che nel buio le auto non riescono a scansare, rompendo ancor più l’asfalto.

Passo davanti al carcere mandamentale, deserto ormai da decenni, chiuso dietro sbarre arrugginite e infestato da erbacce. Occupa un intero isolato con i suoi muri di cinta alti quattro metri, dentro i quali ha messo radici un albero di fico, fuori tempo massimo per chi ebbe il desiderio di evadere e cercava un appiglio. Ricomincia a piovere leggermente, ma ho voglia di sgranchirmi le gambe e anche Billie non sembra molto contrariato, anzi è lui che mi conduce seguendo invisibili e inconoscibili tracce. Ci dirigiamo verso il centro cittadino.

Facciamo una sosta ai piedi di un palazzone di sei piani, interamente disabitato. Billie ha eletto questa sera a suo WC il marciapiede antistante, impercorribile. Nessuno ha provveduto a chiudere le numerose finestre, da dove provengono strani versi di uccelli. Continuiamo la nostra passeggiata.

A destra e a manca le agenzie immobiliari hanno esposto cartelli con la scritta “Si vende” oppure, più di rado, “Si affitta”, sopra caseggiati vuoti. Qua e là un edificio è reso inespugnabile da inferriate che chiudono porte e finestre. Penso alle generazioni di uomini che giungono a vecchiaia e non hanno nessuno a cui lasciare la casa; oppure a quanti muoiono, e i figli sono lontani e abitano un’altra casa, mentre quella dei genitori finisce coll’essere visitata dai ladri. Ovunque mi volti, vedo case abbandonate, disabitate, spesso fortificate, ma sempre prive di vita. Billie solleva la zampa a ogni angolo, mentre continua impercettibilmente a piovere.

Un isolato più avanti è occupato da una scuola abbandonata coi vetri in frantumi e i muri pieni di scritte, alcune oscene, altre d’amore. Dove sono andati a finire gli studenti? E perché tornano qui a scrivere le loro parole?

Billie mi porta nella piazza cittadina. Anche qui, dappertutto, sopra ricchi negozi e luminose vetrine, sopra banche d’affari e bar semideserti, ci sono case vuote, palazzi in vendita, appartamenti disabitati, chiusi da impannate fatiscenti. A chi appartengono queste abitazioni, chi le ha costruite, e per quale scopo? E perché sono state abbandonate?

Ci infiliamo nel centro storico, seguendo un percorso che abbiamo fatto altre volte, attenti ad evitare le pozzanghere nel selciato sconnesso. Qui tutto è pietra, il pieno supera il vuoto, il mondo vegetale è bandito, eccetto poche piante di tarassaco cresciute nelle connessure ai bordi delle vie. Dentro il circuito delle vecchie mura, gli uomini hanno costruito tutto il costruibile, prima di uscirne fuori, facendo avanzare il cemento in ogni direzione, in preda al delirio di rendere la natura un unico grande rifugio. Sono poche le luci accese, le finestre sono perlopiù spente o chiuse. Billie annusa dappertutto il piscio di gatti e cani e il guano dei piccioni appollaiati sopra gli stemmi araldici di celebri famiglie, i cui palazzi sono attraversati da un’unica grande crepa.

Al centro di questo delirio urbano, preso da un eccesso di claustrofobia, sogno anch’io: con un guizzo, mi trasferisco tra le nuvole e mi guardo intorno. Le luci illuminano il reticolo di vie che dal centro si allunga verso le periferie e le campagne, fino ai paesi limitrofi. Ovunque giacciono abbandonati teatri e cinematografi un tempo gloriosi, mercati agricoli e capannoni industriali, attività collassate e edifici diruti di tutti gli stili, di tutte le epoche, e poi, via via che l’occhio penetra nelle campagne, una miriade di case e casette e casupole, costruite per inseguire un desiderio o un capriccio, che la pioggia novembrina continua a dilavare nell’oscurità della notte.

Discendo dal mio cane, che intanto si è messo ad abbaiare alla vista di un gatto e vorrebbe inseguirlo. Non piove più, ma il cielo è sempre ingombro di nuvole bianche, illuminate dalle luci cittadine. Per strada non c’è nessuno. Tutti sono in casa. Torniamo indietro – mentre ormai Billie non ha più nulla da lasciare agli angoli delle vie – per passare la notte al coperto, una notte divenuta inquieta tra le case abbandonate.

(2012)

[in Così stanno le cose, Edit Santoro, Galatina 2014, pp. 47-51]

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