di Guglielmo Forges Davanzati
È convinzione diffusa che il Salento, e più in generale il Mezzogiorno, è una delle aree più colpite da danni ambientali generati da opere altamente invasive. Si fa riferimento, in particolare, al disseccamento degli ulivi e al TAP. Si tratta di due fenomeni che, sebbene distinti, possono essere tenuti insieme da un comune denominatore: l’incapacità (o impossibilità) di chi rappresenta la regione interessata di opporsi o di mettere in discussione la necessità naturale di procedere all’eradicazione di ulivi secolari e di consentire il passaggio di un gasdotto.
È un dato di fatto la sostanziale inerzia della classe dirigente locale rispetto a qualunque ipotesi di disobbedienza. Ciò a maggior ragione in considerazione della rilevanza che assumono movimenti spontanei di cittadini (NO TAP, associazioni ambientaliste), le adesioni alla causa di tutti i sindaci dei comuni della provincia di Lecce, le cui istanze – legittime o meno – ci si aspetterebbe siano recepite sul piano politico, e magari discusse. E ciò anche a ragione del fatto che, almeno per queste associazioni, non vi è alcuna evidenza scientifica né in merito alla necessità di distruggere ulivi né in merito all’irrilevanza dell’impatto ambientale del TAP. La dura repressione del conflitto, sotto forma di vera e propria militarizzazione del territorio, sta a mostrare che opinioni diverse non possono essere ammesse. La loro indicibilità, per contro, è proprio la causa del diffondersi di congetture che possono arrivare al complottismo: è pressoché immediato, infatti, il passaggio dalla repressione del conflitto all’elaborazione e diffusione di idee che motivano la repressione del conflitto con l’esistenza di interessi non dichiarati e non dichiarabili di non meglio definiti “poteri forti”. In altri termini, mettere a tacere voci critiche (anche con l’uso della violenza) è – o può essere – la premessa per il loro rafforzamento e per la loro radicalizzazione. L’ipotesi che viene qui avanzata fa riferimento al c.d. potere politico dei territori, e si propone come estensione della tesi di M. Kalecki in Aspetti politici del pieno impiego (1943). Kalecki fa rilevare che se anche la classe dei capitalisti potesse ottenere i massimi profitti in condizioni di mantenimento del pieno impiego – il che potrebbe accadere per effetto della massima espansione della domanda aggregata – non avrebbe convenienza politica a farlo. Il pieno impiego, infatti, comporterebbe il massimo potere contrattuale dei lavoratori non sono nel mercato del lavoro ma soprattutto nella sfera politica.
Questa intuizione – la non neutralità politica dei rapporti di forza sui mercati – può essere utile per comprendere quanto sta accadendo nel Salento. In questi termini. In linea generale, e sul piano puramente formale, esiste ovviamente la possibilità di confliggere – possibilità che si dà mediante i tradizionali dispositivi dell’exit – in questo caso, la protesta – o del voice – la partecipazione democratica. Ma, sul piano sostanziale, la possibilità di confliggere nonché l’esito del conflitto dipende in ultima analisi dalla ricchezza del territorio: in altri termini, sembrerebbe di poter affermare che la classe politica locale non può non accettare quanto viene imposto perché non ha strumenti per opporvisi, e non ha strumenti per opporvisi perché rappresenta un territorio povero. In altri termini, non ha strumenti di negoziazione e, dunque, di minaccia. Essendo fortemente dipendente da trasferimenti esterni, è fortemente condizionato ad accettare politiche definite altrove, che, nella gran parte dei casi, non sono affatto pensate per tutelare gli interessi dei residenti. Il Pil, in questa accezione, non è solo un indicatore della ricchezza prodotta, ma anche un indicatore del peso politico del territorio.
TAP è un corridoio che porta gas dal Mar Caspio all’Europa: è il c.d. corridoio meridionale del gas (https://www.tap-ag.it/il-gasdotto), con approdo a San Foca. Secondo i proponenti, avrà il vantaggio di accrescere la disponibilità di fonti energetiche senza arrecare danni all’ambiente. Secondo chi si oppone, si tratterebbe di un’opera inutile per l’obiettivo dichiarato e dannosa per l’ambiente. Ancor più, se si considera la probabilità di incidenti.
Sul piano strettamente economico, il progetto pare indifendibile. L’Italia detiene sufficienti riserve strategiche di gas (http://www.geopoliticalcenter.com/prima-pagina/le-riserve-italiane-di-gas-naturale/), ma decide di ridurle per acquisirle attraverso TAP e, dunque, attraverso commissioni erogate a una multinazionale. TAP costa. La stima è di 45 miliardi di euro. British Petroleum è la principale impresa multinazionale coinvolta.
Dunque, l’Italia rinuncia a parte delle sue riserve strategiche, per rendersi partecipe (sostenendone i costi) di un’opera monumentale che comunque continua a renderla dipendente da combustibili fossili, assumendosi anche i rischi di elevati danni ambientali. La razionalità di questa scelta (stando a una banale analisi costi-benefici) è imperscrutabile, se non fossero in gioco questioni geopolitiche niente affatto chiare.
La nuova configurazione assunta dal capitalismo – la c.d. finanziarizzazione – è intrinsecamente “breveperiodista”. Imprese, Istituzioni finanziarie, governi hanno interessi di breve periodo, dal momento che la logica che guida le loro scelte è la logica che guida i mercati finanziari. E’ una logica perversa e probabilmente autodistruttiva. Certamente incompatibile con la tutela dell’ambiente e del paesaggio. Ma è anche una logica che dà luogo a cortocircuiti, dal momento che – nel caso in esame – sarebbe meno costoso e più efficiente spendere risorse per la ricerca scientifica finalizzata a produrre energie rinnovabili.