di Gianluca Virgilio
Rinascimento salentino o restaurazione neobarocca?
La storia reale non può essere ricuperata.
Lewis Mumford, La cultura delle città, Einaudi, 2007, p. 81.
Nel romanzo Il Gattopardo, laddove don Ciccio Tumeo dialoga con don Fabrizio, Tomasi di Lampedusa, commentando la scena e qualificando il personaggio di don Ciccio Tumeo, dice che è uno snob, e precisa che lo snob è il contrario dell’invidioso; definizione molto sottile, che ho compreso solo recentemente, facendone diretta esperienza.
Camminando ieri sera per le strade del centro storico di Lecce, guardavo le persone, a folti gruppi di comitive turistiche affaccendati dietro una guida, intenti a sfogliare un libretto o a indagare una cartina stradale, oppure a gruppi minori di famigliole lì convenute dalla periferia o dai paesi della provincia, che ammiravano palazzi e chiese del centro storico coi loro vari elementi architettonici: cornucopie, capitelli corinzi, figure zoomorfe, colonne tortili, balconi decorati da eleganti balaustre, segni di un’edilizia sacra e civile, espressione raffinata e prepotente di una aristocrazia agraria che ostentava così il suo potere e sembra ostentarlo ancor oggi, oltre i secoli nei quali è vissuta. Il barocco fu questa mostra di superiorità del centro dominante sopra una campagna avvilita, assetata, saccheggiata. A me è venuto di pensare alla definizione di Tomasi di Lampedusa e che sulle bocche e negli sguardi dei numerosi visitatori della città d’arte vi fosse disegnato il sentimento di ammirazione di don Ciccio Tumeo per il principe Fabrizio, cioè dello snob per il vecchio potente, l’esaltazione incosciente e cieca del suddito, che diviene rispetto religioso e assume un’aria di compunta pietas dinanzi all’edilizia sacra. E improvvisamente mi sono sentito, nella misura in cui anch’io ero là a passeggiare tra quella scenografia, don Ciccio Tumeo, e tutti gli altri mi sono sembrati uguali a me, una vera folla di don Ciccio Tumeo fatta in serie, che rendeva omaggio alla rappresentazione teatrale del barocco salentino, entro la quale ci veniva consentito di camminare. E dal momento che l’uomo ama esprimersi figuraliter, mi è sembrato di capire che la messinscena della passeggiata domenicale era un omaggio metaforico che il popolo salentino, unitamente ai numerosi turisti venuti da fuori, rendeva all’attuale aristocrazia più o meno agraria che domina questo territorio. In realtà, mi sbagliavo a pensare così, poiché cercando in ogni modo di non essere snob, rischiavo di cadere nell’invidia. Lo snob esalta il potente da una posizione subordinata, l’invidioso, dalla stessa posizione, lo biasima solo perché è escluso dal potere e vorrebbe averlo. Per non essere né snob né invidioso occorre fare solo una cosa: cercare di capire.
La muta coralità della passeggiata tra le strade neobarocche era davvero stupefacente. Per passeggiare in luoghi simili, via Vittorio Emanuele II, via Libertini, via Palmieri, e dintorni, per sobbarcarsi la fatica di camminare tra la folla –un padre spingeva una carrozzina, trovando innumerevoli ostacoli nella selva dei corpi, una madre stringeva forte la mano della figlioletta per paura di perderla nella calca – occorre attendere una qualche gratificazione. E la gratificazione derivava, per ciascuno, dall’essere insieme agli altri, a tutti gli altri, in una folla nella quale ogni individuo non poteva che rimanere anonimo, entro una cornice spettacolare, nella quale la folla non esprimeva nessuna palese sudditanza, ma una piena e concorde accettazione della situazione in cui si era volontariamente cacciata. L’omaggio al potere era prima di tutto un omaggio a se stessi, una sorta di compiacimento di essere una parte importante, per quanto infinitesimale, di un tutto compatto, in un gioco narcisistico individuale e di massa, dell’individuo-massa, nel quale il potere più sottile e più atroce trova sempre il proprio fondamento.
L’aristocrazia salentina è un’aristocrazia della terra, del denaro, delle imprese, delle professioni. A quest’aristocrazia appartengono le masserie fortificate, i palazzotti barocchi, i castelletti sparsi in provincia. I nuovi ricchi acquistano questi immobili e li restaurano, per viverci come signorotti d’altri tempi o per passarci il week-end, sentendosi al sicuro, sicuri di essere gli ideali continuatori dei baroni seicenteschi. Essi –o gli Enti pubblici da loro amministrati- restaurano i castelli, i palazzi, le sedi vescovili, le chiese, i conventi. Restaurano le facciate riportandole a com’erano un tempo, poiché gli interni come potrebbero essere tali e quali a quelli dei nostri progenitori che non conoscevano la vasca da bagno? Il Seicento: secolo sudicio e sfarzoso, diceva Manzoni, e non solo dal punto di vista igienico. Il restauro è al servizio del potente e di coloro che vanno a passeggiare tra le facciate messe a nuovo dei palazzi neobarocchi. Spiegasi così la miriade di pubblicazioni degli editori locali sul restauro delle masserie, dei palazzi di città, delle ville di campagna e di tutto il resto. Spiegasi così perché siano tutti pazzi per la pizzica. Non c’è festa paesana, non c’è santo patrono che si rispetti, che non si balli la pizzica davanti a un castello o a un palazzo baronale restaurati. Tutti tarantolati? Sì, ma morsi da un ragno diverso, che non abita più campagne assolate e depresse, ma uffici con l’aria condizionata, sedi di abili amministratori esperti di marketing a caccia di una visibilità che diversamente non saprebbero come procacciare a se stessi prima che ai nostri infelici paesi. È in luoghi asettici che si è ideata e programmata la nuova rinascenza barocca, una grande furbata cui gli intellettuali locali danno credito con le loro giustificazioni storiche. Il risultato è che oggi la scenografia restaurata dei nostri paesi richiede folle di danzatori pizzicati dalla tarantola, che pensano di curarsi al suono della pizzica e non sono altro che uomini-massa privi di un’identità, che non sia quella imposta loro nelle sagre e nelle feste padronali. Sono figli dei figli dei contadini di una volta, credono di scoprire le loro radici, laddove i loro padri avevano messo a tacere ogni musica e avevano nascosto al mondo la malattia del sangue, più per pudore che per inadeguatezza. La modernità li ha spazzati via coprendo il loro silenzio, dal quale nessuno avrebbe appreso più nulla, mentre si sarebbe potuto apprendere molto; e ad essi ha sostituito il neobarocco, nel quale i danzatori di pizzica esprimono invece una decisa inequivocabile adesione allo spettacolo che è stato allestito per loro e in cui essi sono attori-protagonisti, non pagati, paganti. Riprodurre nelle piazze dei paesi i ritmi sfrenati del contadino sfruttato, assetato, dissanguato, cui una volta l’anno il padrone concedeva di recarsi a Santu Paulu de Galatina perché vi bevesse l’acqua del pozzo, significa dimenticare tutto questo e nello stesso tempo accettare pienamente, non so se incoscientemente, un nuovo regime di sfruttamento molto più subdolo e opprimente, che al ritmo ripetitivo, ossessivo del tamburello, cadenza il passo forsennato del danzatore di pizzica entro la moderna piazza restaurata. Così, mentre le nostre biblioteche sono le più carenti d’Europa, mentre i nostri giovani si stordiscono con la droga perché non sanno più chi essi siano, mentre l’intera struttura sociale versa in uno stato di abbandono e si sfrangia ogni giorno di più fino a fare dei cittadini un insieme di atomi vaganti per le strade di immense periferie paesane, prive di servizi, centri ricreativi, associativi ecc., i nostri centri storici, rimessi a nuovo, crisalidi vuote di vita risplendenti di mille artifici luminosi, celebrano i fasti della nuova retorica neobarocca, che alla fine della festa, all’alba, lascia per le vie deserte solo immondizie e macerie che prima o poi nessuno sarà in grado di smaltire.
(2007)