Il tempo, lo spazio e l’esistenza sono il sapere essenziale

di Antonio Errico

Disse una volta Giuseppe Pontiggia che se la letteratura ha un senso, ce l’ha solo se si confronta con le cose essenziali che ci riguardano.

Forse si potrebbe considerare il riferimento alla letteratura come una parte per il tutto, come un frammento dell’insieme che costituisce il sapere. Se così può essere, allora il sapere ha un senso solo se consente di confrontarci con le cose essenziali che ci riguardano, con i significati più o meno evidenti o più o meno nascosti delle storie, delle cose che appartengono al tempo, al terreno e all’ultraterreno, al reale e all’irreale, alla storia e all’immaginazione, al vicino e al lontano, alla superficie ed alla profondità.

Riferiscono i dizionari che i sinonimi di essenziale sono: basico, basilare, capitale, fondamentale, imprescindibile, indispensabile, necessario, nodale, primario, principale, sostanziale. I suoi contrari sono: accessorio, accidentale, complementare, marginale, secondario, superfluo.

Allora, nella definizione dei processi del sapere, come in tutte le altre faccende dell’esistere, bisogna scegliere a quale forma di sapere aderire, se a quella dell’essenziale o a quella dell’accessorio. Certo, sarebbe di una bellezza straordinaria se si potesse scegliere sia una forma che l’altra. Ma tutto non si può conoscere. Quello che riusciamo ad apprendere nella vita, anche con sacrificio, anche con fatica, è soltanto una minima parte di quello che ci sarebbe necessario, indispensabile, essenziale.

E’ per questa ragione che non si può fare a meno di scegliere la forma del sapere, che risulta indispensabile distinguere, selezionare, orientare il proprio passo verso un orizzonte se non proprio definito almeno tratteggiato, profilato in lontananza.

A volte si ha l’impressione che la contemporaneità esprima una predilezione per il sapere accessorio, superfluo, secondario, non di rado assoggettandolo alla condizione dell’utilità, del tornaconto, del profitto.

A volte si ha l’impressione che s’innalzino altari ai vitelli d’oro delle voghe, delle tendenze, al nuovo che avanza, senza discernimento, indiscriminatamente. Basta che sia nuovo, senza che abbia alcuna importanza se si tratti soltanto di una novità apparente, senza domandarsi se la novità vera o falsa abbia una qualche relazione con le connotazioni essenziali dell’esistenza.

Ma poi, ad un punto, ogni uomo, ogni comunità, ogni civiltà, si ritrova a dover scegliere. Può accadere perché a quel punto si viene condotti da un processo fondato su un’idea di conoscenza come accumulazione che non considerando la differenza fra l’imprescindibile e il marginale provoca un rigetto. Può accadere perché si rivela e s’impone un’urgenza che coinvolge il sistema valoriale, le dinamiche relazionali, le radici e i rami delle forme e delle espressioni culturali. E’ a quel punto che la scelta diventa inderogabile, quasi per un istinto di sopravvivenza umana e culturale.

E’ davvero difficile capire se noi si sia arrivati a questo punto oppure no. C’è chi dice di sì; c’è chi dice non ancora; c’è chi dice non so. Ma in una condizione di incertezza e rispetto ad un contesto di complessità, non si può fare a meno di domandarsi, per esempio, se la pervasività della tecnologia, il nostro insinuarla in ogni sfera, in ogni ambito, in ogni piega dell’ esistere quotidiano, possa agevolare un confronto con le cose essenziali che ci riguardano.

Probabilmente ed in qualche maniera sì. Come succede con i libri. Ma non tutti i libri propongono conoscenze essenziali. Esistono libri che si può evitare di leggere, che anzi è meglio evitare di leggere, perché non cambiano niente, non dicono niente. Allo stesso modo, non tutta la tecnologia ha la funzione di consentire l’accesso a conoscenze fondamentali. Anzi, spesso spalanca finestre su cumuli di rifiuti, su insignificanze paradossali.

Ma la domanda più difficile, quella alla quale si può rispondere soltanto assumendosi tutta la responsabilità dell’arroganza, è un’altra che non riguarda i mezzi ma i contenuti di quel sapere che si confronta con le cose essenziali che ci riguardano.

Poi, a pensarci, si può anche scoprire che la risposta non è affatto difficile, che la conoscenza che si confronta con l’essenzialità muta nelle forme ma non nella sostanza.

Si potrebbe dire il tempo, per esempio. Non si riesce ad immaginare quale possa essere un contenuto relativo al tempo, convenzionalmente appartenente a qualsiasi disciplina, che non risulti essenziale per l’esistenza. Che alla conoscenza di un contenuto che riguardi il tempo si giunga attraverso lo studio di un testo di Stephen Hawking oppure attraverso l’uso delle macchine del CERN, non fa nessuna differenza oppure la differenza che fa è determinata dalla finalità che richiede l’impiego dell’uno o dell’altro mezzo.

Si potrebbe dire lo spazio, per esempio. In ogni sua accezione, in ogni sua dimensione. Lo spazio che si abita, quello che è abitato dall’Altro, nella sua concretezza e nelle sue astrazioni, nelle connotazioni disciplinari e nelle figurazioni immaginarie e virtuali. Lo spazio come metafora del limite e della finitezza, dello sconfinamento e dell’infinito.

Il catalogo del sapere essenziale si potrebbe concludere qui, alle voci di tempo e di spazio, alle loro innumerevoli coniugazioni, alle loro costanti evoluzioni.

Ma esiste una implicazione inevitabile, che attribuisce un senso assoluto al tempo e allo spazio, una circostanza che si chiama esistenza e che consiste in una condizione che si realizza esclusivamente in una relazione indispensabile con il tempo e con lo spazio.

E’ questa la conoscenza fondamentale, essenziale, mai definitiva, sempre in divenire, sempre interrogante, tramata di connessioni non lineari, dinamiche asistematiche e spesso imprevedibili, di enigmi indecifrabili.

Se è vero che alla fine qualsiasi conoscenza si riconduce a questa, è anche vero che bisogna individuare e scegliere quali sono quegli elementi della conoscenza che ne costituiscono una rappresentazione significativa. Quelli contano. Quelli che si stratificano dentro, che consentono alla propria esistenza di attraversare un tempo ed uno spazio seguendo le tracce che altri hanno lasciato, lasciando tracce che altri forse seguiranno.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 29 aprile 2018]

 

 

 

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