di Augusto Benemeglio
Papa Francesco
Per i 25 anni dalla morte (20 aprile 1993), Papa Francesco si è recato al piccolo cimitero di Alessano, a pregare sulla sua tomba: “Se tu sapessi che questo enorme singhiozzo che stringi fra le braccia d’aria, che questa lacrima d’argento che asciughi baciandola, vengono da te, sono te, dolore tuo mutato in lacrime di speranza e di grazia, singhiozzi miei che aprono il cielo di nuovi cieli!”. E’ stato un momento d’estasi collettiva, c’era tutto il Salento, quella “terra-finestra del sud dell’Italia che si spalanca sui tanti sud del mondo”. E poi c’era una stola e un grembiule, realizzati dalle donne di Alessano, un omaggio al papa, alla chiesa del grembiule che è a servizio dell’umanità. “Una chiesa – ha detto il pontefice – per il mondo, non una chiesa mondana, ma per il mondo, come l’aveva anticipata e testimoniata sulla sua viva carne don Tonino, nel corso di tutta la sua vita”. Un mazzo di fiori bianchi e gialli sulla tomba, purezza e passione, che fanno un quadro di nuova speranza in quel grande silenzio della luce e del sapere, in quella desolazione di tutti i giorni in cui non hai vicino nessuno, se non il dolore altrui, la povertà, l’umiliazione della gente. Di chi è solo con la sua pena, e vuole consolare il gran dolore del mondo, che è anch’esso tutto suo. “Imitiamo don Tonino, lasciamoci trasportare dal suo giovane ardore cristiano, sentiamo il suo invito pressante a vivere il vangelo senza sconti… Che il Mediterraneo sia un’arca di pace”, come scriveva lui più di trent’anni fa. “Oggi la nostra preghiera, il nostro bacio su questo letto di pietra, il suo letto santo, stanno nella fede soltanto, e nell’amore divino.”
Scopritore di stelle.
Era un poeta, era uno scopritore di stelle. Ma era, soprattutto, un santo, e i santi sono rari, sono persone che portano sulle spalle anche le nostri croci, ma con gioia, con un amore illimitato, a prova di tutto, i santi sono i giullari di Dio, come Francesco d’Assisi, che portano un soffio di speranza sulla salvezza dell’uomo, nonostante tutto.
Mi vengono in mente queste parole di don Riboldi, in quel pomeriggio d’aprile di più di vent’anni fa, a Taviano, città dei fiori, quando venne il vescovo lombardo, con tanto di scorta (era per antonomasia il prete-antimafia, che aveva osato accusare dal pulpito la camorra napoletana di tutte le violenze, il sangue, la ferocia, le stragi, lo strazio infinito, la morte della speranza, le infamie più immonde, era colui che aveva negato la comunione a uno di loro, che aveva fatto crociate, processioni per le strade di Acerra, che aveva bandito, esiliato tutti i collaboratori occulti della mafia, che aveva spronato i pavidi e i timidi a unirsi tutti insieme alla lotta, un prete con la fede e con le palle che aveva osato sfidare la mafia, che aveva – già anni prima – sposato la causa meridionale, per amore, solo per amore.
Speranza salentina
Era venuto a Taviano due anni dopo la morte di Don Tonino (eravamo in una primavera del 1995 e la sala era gremita fino all’inverosimile) ed era venuto per onorarlo, ma anche per portare testimonianza, per dire a chiare note con la sua voce robusta, tonante, vibrante, che don Tonino era la purezza della vita librata sul mondo, uno di quei doni che il Padre Eterno elargisce una volta ogni secolo, e che noi spesso non ce ne accorgiamo, non vediamo, non ascoltiamo, rimanendo prigionieri nella sfera angosciosa del nostro nulla (il posto di lavoro, la casa, i soldi in banca, le cose da esibire, la nostra falsa tranquillità, la nostra falsa sicurezza, sempre ben chiusi nel bunker che è il nostro cuore, un lago di indifferenza). Don Tonino era nato, aveva vissuto ed era stato sepolto nella sua patria, il Salento, dove si raccolgono tutte le ansie le pene le ingiustizie le umiliazioni, le sconfitte, le macerazioni, le disperazioni, dove tutte le passioni della terra si uniscono per far trionfare la giustizia, la pace, la solidarietà, il bene comune, e diventano carezza di voce, tenerezza, rinascita. Lui solo era il vero grande cuore, la grande anima, la grande speranza, e da lui bisognava iniziare ogni progetto, ogni costruzione affinché il Salento diventasse davvero quell’ arco di pace e di solidarietà di cui aveva sempre parlato. Dai numeri alterni, dalla danza perenne di nascite e morti, da celesti città di sabbia o infernali città di fuoco, da imperio e servitù, da inedia e opulenza, da grazia e venustà, da asprezza e calma, dalle dominazioni di secoli su una terra che vomita morti, dal profondo Salento, quello del Capo, a poche miglia da Leuca, “finibus terrae”, era nato lui, Tonino Bello, terzo figlio di una famiglia poverissima. Lui era miele di miele, sostanza di sostanza, essenza di essenza, l’amore che aiuta a vivere e a sperare, ma anche un prigioniero nella sfera delle nostre piccolezze, abitudini, indifferenze, grigiore; era venuto a scuotere, a far crollare le nostre sicurezze, le nostre certezze con le parole del Vangelo, parole che fanno sempre male per chi non conosce l’umiltà di cuore. Tra fuori e dentro, tra l’altro e noi, tra l’istinto animale e il collegamento divino, s’infiltrava lui come una passione senza limiti, senza confini, senza spazi, e aveva scoperto quali sono le stelle sulla terra: i giovani smarriti, senz’arte né parte, i poveri, i diseredati, i drop out, gli alcolisti, le prostitute, i tossicodipendenti, gli immigrati, gli ultimi della terra, che andava in giro a cercare, e portare con la sua scassatissima cinquecento al Vescovado, e tutto ciò veniva aspramente criticato, avversato e combattuto dagli altri, dai potenti, dai benpensanti, dalle istituzioni, e, talora, dai suoi stessi confratelli. Lui era l’altrove, il profeta della chiesa del grembiule, l’uomo tutto evangelico, il pastore errante, il testimone della gioia, che manifestava la “grande passione per l’uomo”, non sempre condivisa dalla sua amatissima Chiesa. Anzi, spesso la Chiesa s’attardava all’interno delle sue tende, dove non giungeva il grido dei poveri, o si manteneva prudenzialmente al coperto, andando a braccetto con i primi piuttosto che gli ultimi, sedotta dalle sirene della politica o dalle manovre di accaparramento dei potenti. La Chiesa anziché mettersi in cammino, cercava una buona sistemazione, si trincerava dietro le sue apparenti sicurezze e non aveva il coraggio di uscire dai propri accampamenti, di schierarsi apertamente con gli ultimi. La Chiesa era spesso pavidamente neutrale, o addirittura sorda e indifferente di fronte alle ingiustizie e a chi le compie. Gli unici che continuarono ad apprezzarlo, ad ammirarlo, ad amarlo incondizionatamente furono quei pochi preti impegnati, sensibili, intelligenti e coraggiosi come lui, in specie Turoldo ( un poeta) e Riboldi (un vero e proprio guerriero di Cristo), preti disposti a tutto pur di difendere i deboli, i poveri, gli ultimi, – tutta quella fiumana di gente che era stata conquistata da Tonino, dai suoi occhi buoni chiari trasparenti, dal suo volto luminoso sempre proteso verso l’interlocutore, dalla sue parole di rara chiarezza bellezza e semplicità che rivelavano la presenza di un uomo eccezionale, di un profeta, di un santo.