Per traini te maravija di Giuseppe Greco

di Luigi Scorrano

Credo di avere, con Giuseppe Greco, un debito morale. Nessuno, nemmeno lui, me lo ha mai rinfacciato o semplicemente ricordato. Avevo promesso di scrivere qualcosa sulla sua poesia e sulla sua pittura. O, molto più semplicemente in un volenteroso esame avrei parlato d’una candida impressione mia davanti alle sue immagini, ai suoi colori. Ne avrei parlato semplicemente. Ma metti giù la penna sul foglio, o premi il tasto di un cursore, e il semplicemente che ti sei proposto si esilia fuori della tua mente. Però ci provi a proseguire.

Cerco di liberarmi ora dal debito di cui parlavo in apertura: lo faccio ora a scarico di coscienza giurandogli senza mentire che qualche parola sulle sue poesia dirla (non posso fare altrettanto con le sue pennellate!). Poesia e pittura, in intenzione più che in risultati (da considerare con benevolenza) sono l’oggetto di queste righe. Le parole di Giuseppe sembrano staccarsi, nella loro essenzialità e, se è consentito, nella loro tenera sontuosità, dai fondi dorati di antichi pittori, da frammenti di codici miniati tenacemente resistenti alle offese di stagioni inclementi o alle offese degli uomini.

Che cosa reca sul suo carro contadino colui che annunzia traini di meraviglie? Porta parole colorate, segni, amabili geroglifici, tracce di luce di cieli visitate nel sogno e, a fronte di quanto di favoloso sembra unicamente mostrarsi, la realtà quotidiana fa anch’essa i suoi percorsi, offre altre indicazioni che con quelle circondate da un’aura magica disegnano un quadro mosso e vivo di realtà minuta e di brani  di vita quotidiana bagnati da una luce interiore, un po’ sottotono per discrezione non per timore. A sobrietà (d’ispirazione e di esecuzione) aveva accennato In una stringata prefazione Donato Valli, che avvertiva anche, nelle parole di Greco, una sorta di musica interna, una qualità melodica del verso. La parola di Greco non è disseccata e gli umori che la nutrono bisogna indovinarli dal’effetto che producono. Greco non spende troppe parole: limita la sua tavolozza verbale, risolve la possibile ampiezza di un discorso nell’apparente dimessa dimensione enunciatoria. Ne consegue una dizione  che va in cerca di una parola-guida e su quella innesta, cauto ma convinto, quel che ha da dire. La scansione versale è, in tali circostanze, qualcosa che sa d’antico e di classico: involontariamente, forse, fuggito dalla penna o dal pennello, ma non casuale. A riprova, componimenti come Primavera, gioco di sillabe cui s’affida l’essenziale, gli elementi indispensabili a conseguire vivacità d’immagini e gusto della sorpresa: «’Mpizzutene le scemme  / e ll’arbuli /  se  ‘mpjene te uceddhi»; o, come in   Ósci, l’affidare al vento un messaggio amoroso, che è  / una rosa / e una gemma di rosa: «Osci / ca è dduminica / te mandu / ‘na rosa e ‘na scemma /c u llu ientu».

Sono in queste immagini le cose migliori di Greco: quelle che stringono in una sobrietà di linee la forza di un sentimento. E possono riallacciarsi, sul piano figurativo alla castità  del segno grafico: un segno rapido, che non vuol dire tutto ma suggerire, con linee esili quel che sta dietro lo slancio d’un segno: la fragilità pensosa legata alla nostra fragilità.

 

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