Ecco, ancora insieme, due parole in sé contraddittorie, due parole che sommano violenza e ipocrisia: guerra umanitaria. Come può definirsi umanitaria una guerra, se è mille volte provato che comunque i cosiddetti attacchi mirati non risparmiano i civili, e comunque seminano distruzione? La guerra, ogni guerra, qualunque sia la giustificazione o il limite o la ragione di volta in volta invocati, è distruttiva: di vite umane e animali, di risorse, di ambiente, di natura, di paesaggio, di storia. La buona coscienza democratica occidentale va dicendo, nel caso della Libia, che, se questo accade, è un sacrificio non voluto, né preventivato, e comunque l’obiettivo è colpire solo basi militari e strutture di difesa per attuare la no fly zone, rendere impotente il raìs, bloccare il massacro di insorti, aiutare gli stessi a portare a termine il sogno di una democrazia appena pronunciato. Aiutare gli insorti: benissimo, ma perché non diffondendo le loro ragioni, tessendo rapporti con loro, conoscendo bene la loro composizione politica e i loro obiettivi, facendo propria la loro causa democratica? La guerra dischiude un teatro di violenza che genera violenza, e le stesse insurrezioni pacifiche vengono trascinate nel vortice bellico.
E poi, perché i buoni propositi democratici non si estendono a tutte quelle situazioni, anche dei Paesi arabi, dove sono in atto rivolte contro sistemi autoritari e violenti? Come si può credere allo slancio democratico di Paesi occidentali che hanno cercato nel passato, per ogni guerra, giustificazioni di ogni sorta pur di offrire all’infernale avventura della guerra una ragione? E hanno sempre taciuto sulla Palestina, su Gaza e altri eccidi?
Quand’anche una guerra centrasse davvero soltanto obiettivi militari, e fosse dunque la più “igienica” della storia (assai lugubre questo aggettivo, perché ricorda il grido futurista “la guerra, sola igiene del mondo”), dentro e intorno agli obiettivi militari ci sono uomini, che hanno corpi e pensieri e affetti. Tutti i cosiddetti obiettivi militari sono sostenuti o abitati o custoditi da uomini. Naturalmente si dirà che costoro in una guerra sono nella posizione di “nemici” e dunque è in certo senso scontato che possano o vincere o perdere (perdere la loro vita). Ma il fatto di trovarsi nella condizione di nemici o persino in un ruolo militare –come accade anche a molti dei nostri soldati in missione- non vuol dire che siano per ciò stesso guerrafondai e che abbiano scelto la distruzione degli altri come compito precipuo. La loro funzione non li rende meno sensibili alle ferite, al dolore, meno “viventi”. Il rapporto con la vita non ha appartenenze patrie né è caratterizzato da schieramenti. E’ preoccupante la diffusa insensibilità per le “altre” morti, quelle “dalla parte sbagliata”, come se appena un uomo indossa una divisa nemica cessasse di essere vivente, diventasse cosa, della stessa materia del carro armato nel cui abitacolo si trova, della stessa inerte materia di cui sono fatte le strutture militari. Tranne poi, a “storia” conclusa, e dopo decenni, recuperare un po’ di pietà, postuma, anche per le vittime civili dell’altra parte, e per gli stessi soldati nemici.
Ma ora la grande Europa democratica s’è mossa. Esattamente cento anni dopo che l’Italia, la “grande proletaria”, si mosse verso la conquista della Libia. Ora è l’Europa che s’è mossa: dopo aver tentato tutte le vie della diplomazia, delle trattative, delle mediazioni politiche? Certo, ora la prospettiva non è coloniale, è solo quella, così si dice, di fermare i massacri. Con altri massacri? Del resto, questa è da sempre la logica della guerra. Anche della guerra che si chiama, senza ritegno né umano né linguistico, umanitaria. E che cerca subito rassicuranti coperture: risoluzione dell’ONU, coordinamento strategico-militare della Nato, impegno limitato e così via.
Impressiona la rapidità con la quale il teatro bellico è stato allestito in questa Odyssey Dawn (che spreco di immagini luminose per coprire il rombo micidiale dei tornado!). Quanto all’Italia, oggi è una penisola dal paesaggio “armato”. Si declinano i nomi degli strumenti offensivi: Tornado Ecr, Tornado Ecs, caccia Amx, caccia Eurofight, portaerei Garibaldi e Cavour, navi da attacco anfibio San Marco e San Giusto… Il bel Paese è un Paese di organizzatissime basi militari (dal punto di vista dell’ambiente, come sanno in Sardegna, assolutamente innocue). Come appaiono, ora, lontane e peregrine le critiche agli armamenti, come appaiono stinte le tante bandiere arcobaleno esposte qualche anno fa alle finestre!
E com’è triste vedere l’opposizione parlamentare rimuovere di colpo ogni pur vago dubbio sulla ragionevolezza del militarismo esibito e allinearsi alle ragioni di un governo che fino a ieri stendeva tappeti orientali al passaggio del rais e offriva tappeti erbosi per la sua tenda. Era davvero già bruciato il tempo del ragionare, del tessere rapporti diplomatici e trattative? Non c’era più nessuno spazio per il dubbio, per l’immaginazione e il disegno di un futuro mediterraneo diverso dalle guerre?
Di fatto, si sa che il petrolio è il protagonista della tragedia mediterranea. Perché non lo si scrive sui giornali a caratteri cubitali, e da lì si fa discendere ogni altro ragionamento? Petrolio è, ancora, una parola coperta da manovre, da trame oscure, da sangue: come nel passato. Come nel caso Mattei. Come nel caso Pasolini, il cui postumo drammatico libro s’intitola appunto Petrolio.
(2011)