Tsunami Italia
Le elezioni politiche del 4 marzo sono state un vero e proprio tsunami per i già fragili equilibri del sistema politico italiano. Nessuno schieramento ha raggiunto la maggioranza ma le due forze che hanno totalizzato il più grande numero di voti sono il Movimento Cinque Stelle, con il 32,7% dei voti, e la coalizione di centro-destra, composta da Lega Nord, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Noi con l’Italia, con il 37%. La nuova mappa dell’Italia vede quasi tutto il nord consegnato al centrodestra e quasi tutto il sud al movimento grillino. Clamorosa disfatta per il Partito Democratico, che scende al 19%. Insieme con Liberi e Uguali, più Europa, Insieme, Civica Popolare e SudTiroler, il centro- sinistra totalizza appena il 22,9%. Come previsto, il cataclisma che si è abbattuto ha il nome e il volto dei Cinque Stelle, il movimento degli incapaci, che ha rubato voti non solo al Partito Democratico ma anche all’estrema sinistra ideologica e pauperista, alla quale contende il primato su certi temi. Basti pensare al magro risultato di Liberi e Uguali e alle percentuali da prefisso telefonico di movimenti come Potere al Popolo. Come mai poi le istanze di certa sinistra abbiano trovato sponda in un movimento che proprio una tradizione comunista non ha, è materia di cui si occuperanno gli esperti intenti ad analizzare il voto. Forse, si potrebbe cogliere una certa matrice anarcoide insurrezionale del movimento grillino nella sua prima fase, quella pre- istituzionale del “vaffanculo” e del “cacciamoli tutti”, quella giustizialista e forcaiola che stuzzicava la sete di sangue del popolo incazzato, un certo giacobinismo da Rivoluzione Partenopea che può aver accarezzato il malcontento popolare così come il suo bisogno di rispecchiamento che si è tosto ritrovato nell’analfabetismo costituzionale dei membri dei Cinque Stelle. Inoltre, può aver fatto la sua parte il bisogno del popolo di sinistra, disorientato dalla putrida classe dirigente del Pd, di trovare una nuova guida e di riconoscersi in un nuovo Catechismo nazionale per il cittadino, sempre per restare alla Repubblica Partenopea del 1799 ( e “cittadini” si definivano gli stessi parlamentari cinque stelle) che si è materializzato sulla rete nel blog di Beppe Grillo, pronto a dispensare, fra panzane e corbellerie, giudizi sommari su chiunque.
Ma se questa può essere la genesi della grande adesione popolare al Cinque Stelle, è da capire come mai oggi, che il movimento si è snaturato rispetto agli astratti furori dell’inizio, continui a conseguire sì lusinghieri risultati, se la blanda e velleitaria protesta è stata nel frattempo ribaltata dal più vieto e democristiano camaleontismo politico. Dunque nessun merito dell’M5s e solo demerito degli altri? Sembrerebbe di sì; ma se così fosse, ci aspetterebbe davvero una lunga traversata nel deserto, nell’infausta ipotesi di un governo pentastellato. Insieme al grande risultato conseguito dai Cinque Stelle, la grave sconfitta del Partito Democratico è l’elemento più rimarchevole di questa tornata elettorale. Un Pd precipitato al 18,7 % apre foschi scenari per il centro- sinistra italiano. Si tratta della peggiore sconfitta mai subita dal Pci-pds-ds-pd. Una incredibile emorragia di voti e di consenso che ha portato il partito a trazione renziana ad essere solo terza forza del Paese, distaccata di molto dall’ M5s e surclassata dal centro-destra. Gli analisti politici in queste ore si stanno profondendo in mille disamine ma è certo che difficilmente il Pd riuscirà a sollevarsi da questa sconfitta, almeno nel prossimo futuro. Chiaro che la maggior parte dei voti persi dal Pd sia andata all’M5s e una minima parte alla Lega Nord. Questi ultimi partiti poi sono i vincitori morali delle elezioni, che non hanno portato a maggioranze definite. Il Pd è all’angolo e come un cane bastonato non gli resta che leccarsi le ferite. Colpisce, ancora una volta, l’arroganza di Matteo Renzi, la testardaggine di voler mantenere un ruolo di primo piano, nonostante la debacle. Sebbene sia il principale responsabile della sconfitta elettorale e un minimo di decenza gli imporrebbe di sparire dalla scena, di ritirarsi a vita privata, non vorrebbe fare ammissione di colpa e, se fosse per lui, nemmeno di mollare. Così annuncia le dimissioni ma non le dà e sostiene di voler restare in carica almeno fino all’insediamento del nuovo governo, il che potrebbe significare fra molti mesi. Sappiamo infatti quanto siano complicate le manovre politiche post voto, in mancanza di una maggioranza certa, l’esempio della Germania insegna. E lui, il bischeraccio di Pontassieve, vorrebbe continuare a tenere la barra, perpetrando sine die il potere, solo per furore di vendetta, per far pagare ai Cinquestelle la campagna di odio e diffamazione nei suoi confronti, impedendo loro di formare un governo, cosa possibile solo con l’appoggio del Pd. Ma la minoranza interna del partito passa al contrattacco invocando il redde rationem. Lo criticano aspramente sia Orlando, che Emiliano, il quale, unico per il momento fra i piddini, vorrebbe fare un’alleanza coi Cinquestelle. Le ragioni del Governatorone della Puglia non sono ovviamente quelle nobili di dare una stabilità al Paese ma passano per le sue mire personali, come tutte le mene ordite in questi anni contro Renzi confermano, nella sua ambiziosa scalata ai vertici del partito. In ogni modo, la mossa di Renzi apre una vera e propria guerra civile nel Pd perché l’ambizione mortificata del playmaker Matteo e il suo odio per i pentastellati porteranno ad un cupio dissolvi che inghiottirà il partito stesso o ciò che ne rimane.
7 marzo 2018
Le macerie dopo la frana
Come ampiamente previsto, le elezioni del 4 marzo, anche a causa di una legge elettorale barbina, il Rosatellum, hanno lasciato l’Italia nell’ingovernabilità, non avendo consegnato la maggioranza a nessuno dei partiti in campo. Tuttavia, notevolissime sono state le affermazioni del Movimento di Beppe Grillo e della Lega Nord. Sebbene i voti siano tanti, non sono però sufficienti. Di più, il voto ci consegna un’Italia davvero spaccata in due politicamente, come si evince dalla cartina pubblicata da “Il Giornale” il 6 marzo 2018, con il meridione che ha votato compattamente il Movimento Cinque Stelle e il settentrione quasi tutto per il centro-destra a trazione leghista. C’è una piccola area geografico politica, nel centro Italia, che ha votato Pd, e poi un’area più grande priva di rappresentanza che è quella degli astensionisti: cioè adulti indecisi o disgustati dallo stato delle cose che hanno perso ogni speranza, e il popolo della chiocciola, ossia i giovanissimi che nemmeno si sono recati alle urne, del tutto disinteressati da quanto succede al di fuori del loro iphone. “La situazione politica non è buona”, canta Adriano Celentano. Entrambe le forze maggioritarie sono movimenti populisti, quello pentastellato di protesta più che di proposta. Nessuna sorpresa, come ripeto. Hanno vinto in quasi tutta Europa le forze anti establishment e l’Italia non poteva fare eccezione. Il problema è che il principale partito anti casta nel nostro Paese è appunto il Movimento Cinque Stelle, ossia il peggio del peggio (molto peggio della Lega). Ma il risultato che più evidenzia il ribaltamento della situazione è quello del Partito Democratico, sceso a meno del 19%. Incredibile, se si pensa che il Pd è il partito che ha governato nell’ultima legislatura e che alle Europee del 2016 ha preso il 41%. Sic transit gloria mundi. Renzi, Napoleone con lo scolapasta in testa, dagli altari alla polvere. ll bullo ha preso una sberla dalla quale a breve non si rialzerà, sebbene il bischero Matteo abbia tentato la mossa del cavallo, per dirla con Camilleri, per spiazzare l’avversario. Ma nel suo partito è iniziato già il redde rationem, e se non si compirà fino in fondo, ciò è dovuto alle truppe cammellate, cioè al fatto che la maggioranza del partito è tenuta dai fedeli di Renzi. “Un popolo anzi un mondo declina: quello di centro sinistra come lo abbiamo conosciuto finora” scrive Visman Cusenza su “Il Messaggero” del 6 marzo 2018. “E stata spazzata via la sinistra dell’elite, che non sa più parlare al popolo”, scrive Mario Ajello sullo stesso giornale. Una vera e propria frana si è abbattuta sul Partito Democratico. Ma Renzi sembra non accorgersi dello scollamento fra il partito e la base sociale, dando conferma a quanto scrive la stampa. Egli infatti si è abbracciato allo status quo rivelandosi in tal modo collaterale a quella feccia politica della prima e seconda repubblica su cui sputava all’inizio della sua ascesa. Ora Renzi, il leader rottamatore, attaccato alla poltrona, vendicativo e rancoroso, si dimostra simile ai da lui rottamati. Anche il Presidente del Consiglio Gentiloni pare sconcertato dalla sua intemerata. Ma anche Franceschini e Delrio, entrambi papabili alla carica di nuovo segretario del Pd. Il Renzaccio poi pretende anche di dettare le regole ammonendo che non sarà la dirigenza del partito a nominare il nuovo segretario ma bisognerà andare alle primarie. Per quanto condivisibile, non si può accettare un diktat da parte di un leader esautorato che si attacca al respiratore artificiale per allontanare la morte inesorabile.
Magra figura per la lista “Piu Europa” di Emma Bonino, la quale per presentare le liste ha dovuto ricorrere all’aiuto del moderato e cattolico Tabacci. In politica la coerenza è aria fritta e i radicali ci hanno abituato nella loro lunga storia alle sorprese, ed era chiaro che questa inversione a u della Bonino l’avrebbe fatta uscire fuori strada. Ancor più magra figura per la lista “Insieme”, nonostante la benedizione di Romano Prodi. Che dire poi degli insulsi Liberi e Uguali? Nonostante la testa d’ariete Grasso, il movimento di Bersani e D’Alema ha racimolato un micragnoso 3 virgola qualcosa, troppo poco per chi contava di essere centrale nel nuovo assetto politico. Anche Rifondazione Comunista e Sel facevano meglio. C’è di buono però che grazie a questa operazione ardita quanto becera di disarcionare Renzi, i fuoriusciti del Pd hanno rottamato sé stessi. “Potere al popolo” prende appena l’1%. Che sagome, i comunisti col Rolex, per dirla con JAx e Fedez. Nel centro-destra, a fare la parte del leone è stato Salvini, con una buona affermazione della Meloni dei Fratelli d’Italia, magro bottino invece per la quarta gamba fittiana di “Noi con l’Italia”. La Lega totalizza il 18%, mentre Forza Italia scende a poco più del 14. Onore al merito di Salvini che ha portato il suo partito dal 4% del 2013 al quasi 18% di queste elezioni e ciò senza fare epurazioni, come il suo omonimo del Pd. Ecco, se c’è una differenza davvero macroscopica fra i due quarantenni segretari è che il Pinocchio piddino è sempre stato divisivo (dopo di me il diluvio), mentre il brianzolo unisce, concilia, armonizza. Poi c’è una differenza di stile ben evidente. Infatti, il Matteo ex arrembante non nasconde la propria spocchia e anzi se ne fa scudo, utilizza la nobiltà della tradizione a cui si richiama, la propria presunta superiorità culturale per dileggiare gli avversari, mentre il Matteo ora arrembante, consapevole della propria scarsa formazione e delle vergognose radici (ha tolto la dicitura Nord dal nome del partito), usa un atteggiamento più prudente, quasi remissivo in certi casi con chi la sa più lunga di lui. Salvini ha persino candidato Umberto Bossi, il suo principale avversario interno, facendo eleggere il vecchio scarpone in un collegio sicuro, la sua Varese. Percorso opposto, insomma, quello dei due Mattei. Sic transit gloria mundi reloaded. Ma Salvini ha trovato sponda anche al Sud, notevole l’affermazione nel Meridione per una forza politica già razzista e secessionista. Ciò perché il leader lumbard ha saputo parlare a tutta la gente ed è spesso venuto in vista nelle città meridionali a predicare ordine e sicurezza. “Da padano a nazional popolare. Così il lumbard ha conquistato il Sud”, spiega “Il Messaggero”, a firma Marco Ventura il 6 marzo 2018. Un buon risultato anche quello ottenuto da Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni ha più che raddoppiato i consensi. In caduta verticale invece quelli di Forza Italia. Ora Berlusconi dovrà riconoscere la leadership del Salvini se non vuole sparire del tutto, arroccandosi su posizioni anacronistiche. Il Cavaliere mascarato deve cedere ed accettare finalmente ciò che era evidente per tutti tranne che per lui, e ritirarsi nella quiete dorata della sua vita privata. Tanto ormai non ha nemmeno più il problema del successore. Può passare a chiunque le consegne di un partitino del 14%. Purtroppo nessuna persona seria e assennata può festeggiare di fronte ai risultati elettorali, perché sia Movimento Cinque Stelle che Lega non hanno forza autosufficiente per governare e hanno bisogno di coalizzarsi con altri partiti, ossia con il Partito Democratico, che sarebbe per ciascuno il male minore, o peggio fra di loro. Ma il Partito Democratico a guida renziana non intende allearsi e vorrebbe fare saldamente opposizione e l’alleanza fra Lega e Cinque Stelle pare improponibile perché nessuno dei due leader, Salvini e Di Maio, vorrà fare un passo indietro e rinunciare alla Presidenza del Consiglio. Dunque, tempi foschi saranno le prossime settimane per la politica italiana.
Bisogna dire però che di risultati positivi queste elezioni ne hanno portati. A cominciare dai tanti impresentabili e improponibili rimasti fuori dal Parlamento. L’esercito dei trombati, come celia “Il Giornale”, è guidato da D’Alema. Baffino è rimasto fuori, sconfitto in quel Salento che pure lo ha sempre stravotato. L’ex leader massimo pensava di trovare nelle nostre lande ancora fertile prateria elettorale, accompagnandosi a vecchi potentati che la gente ormai non sopporta più. “I trombati e i miracolati”, come scrive “Il Giornale”. Fra i trombati eccellenti, oltre al già citato D’Alema, quarto nel suo collegio di Nardò, Pippo Civati, Nico Stumpo e Arturo Scotto, sempre di Liberi e Uguali; Stefano Esposito del Pd, Gianni Pittella in Lucania, così come la giornalista Francesca Barra, poi Riccardo Illy a Trieste; il celeste Formigoni, candidato con Noi con l’Italia, e per il Movimento Cinque Stelle l’ex Iena Dino Giarrusso e il Comandante De Falco. Allegramente trombati anche molti Ministri gentiloniani, come Minniti, Dario Franceschini, Orlando, la Fedeli, Roberta Pinotti, sebbene questi siano ripescati grazie al Proporzionale. Ma rimane clamorosa la loro disfatta nei collegi uninominali: e figure di merda hanno pure collezionato il Presidente Grasso, leader dei Leu nella sua Palermo, e la Presidenta Boldrini. Inaspettatamente trombate (ma salve) anche Emma Bonino e il Ministro Beatrice Lorenzin. Per quanto riguarda la debacle di Liberi e Uguali, è desolante osservare come una battaglia di carattere personale, fra Baffino D’Alema e il bullo Renzi, porti a spaccare quello che era il principale partito italiano fino alle elezioni del 4 marzo, e al suicidio omicidio di una intera classe dirigente. A Grasso, Bersani and co. non importa nulla delle sorti dell’Italia ma solo delle loro beghe da cortile. Ora Liberi (da ogni dignità) e Uguali (alla politica politicante d’antan) si dicono disponibili a dialogare con i Cinque Stelle. Peccato che i grillini li snobbino perché le loro misere percentuali non servono a formare una maggioranza. Berlinguer e Natta si saranno rivoltati nella tomba di fronte alla ingloriosa fine di una sì nobile tradizione della sinistra italiana. Chi gongola invece è l’anima di Gianri Casaleggio. La sua creatura politica è divenuta la prima forza del Parlamento. Ora spetta a loro governare dopo avere sputato sentenze e inneggiato a onestà e trasparenza. Peccato che, se vogliono farlo, si debbano ritrovare come interlocutori quegli stessi fetenti maneggioni che hanno per una vita sfanculato. E qui viene il bello, o il brutto. Al partito dei grillini sono stati indirizzati molti voti del Pd e anche di tanti altri partiti. Dunque se c’è una responsabilità maggiore, questa è dei grillini. I 5 stelle hanno raggiunto un enorme risultato che adesso dovranno capitalizzare. E “Giggino” Di Maio da Pomigliano d’Arco lo dovrebbe capire.
8 marzo 2018
Fattore Italia
Il risultato elettorale italiano ha sovvertito le vecchie gerarchie politiche, ribaltato gli equilibri della Seconda Repubblica e forse porterà il Paese ad entrare nella Terza Repubblica, seppur lontana ancora all’orizzonte. Ma per ricostruire, bisogna prima demolire tutto. E le macerie sono quelle dell’ingovernabilità, delle secche in cui la nave Italia si è incagliata, senza nessun timoniere in grado di portarla fuori, per il momento. Dunque ci toccherà passare attraverso le forche caudine di un governo dei populisti, fumo negli occhi per i vertici europei. Passare, in altre parole, attraverso un governo Cinque Stelle o un governo Lega Nord, che sono le due forze piazzate in testa alle audizioni del “ di tanto peggio Di tanto Maio”, ai bootcamp del “non so ma però”, ai live show del “si Salvi(ni) chi può”. Conosciamo tutti l’ “ante Factor”: la rabbia ed il disgusto della gente e la crisi di rappresentanza dei partiti. Ma non sappiamo immaginare come sarà l’“extra Factor”. Il problema è che nessuna delle due forze di maggioranza relativa può comporre un Governo se non con l’appoggio di altri gruppi parlamentari, mancando i numeri per essere autosufficienti.
Più che mai centrale diventa il ruolo del Presidente Mattarella. Sergio il grigio dovrà prendersi una grossa responsabilità stavolta, non potrà nicchiare come fino ad ora ha fatto, assecondando la propria natura di becchino. Se non ci sarà l’accordo, come pare, fra una delle due forze in campo con un altro gruppo parlamentare, dovrà tentare un governo del Presidente, cosa che lo vedrà salire la scala reale del protagonismo, dalla quale se ne era controvoglia sceso il suo predecessore, King George the Neapolitan.
Maggioranze possibili, maggioranze impossibili, maggioranze variabili e maggioranze futuribili, maggioranze di minoranza e minoranze di maggioranza. Sergio “allegria” Mattarella dovrà pattinare sul ghiaccio come Ondrej Hotarek per venirne a capo, sciare fra le piste meglio di Alberto Tomba per dare a questo Paese una alternativa di governo, uno scarabocchio di maggioranza, uno straccio di premierato, un bigmamino di legislatura. Come detto, nessuno ha i numeri per governare, né la coalizione di Centro-Destra, né il Movimento Cinque stelle. Lo sparring partner si chiama PD, il quale però ne ha già prese tante dall’elettorato che come un pugile suonato ha afferrato le corde, e non ha nessuna voglia di continuare a prenderne. Per sommo paradosso allora, con il partito renziano fuori dai giochi, Five Stars e Lumbard dovrebbero governare insieme. Ma si sa che Lega e Grillini non potranno farlo, se non a costo di neutralizzarsi reciprocamente come Eteocle e Polinice sotto le mura di Tebe. Perderebbero tutto il loro potenziale e la loro carica sovversiva, e il loro sarebbe il bacio della morte, una reciproca carneficina di Liegnitz, come quando si scontrano due mali di pari portata, in una ecatombe finale e deleteria per il Paese. E siccome nessuno dei due vuole restare con la pistola fumante in mano, entrambi tentano di scongiurare questo mezzogiorno (e mezzo) di fuoco. Avrà dunque la meglio chi sarà più abile nell’arte della simulazione e nel gioco del compromesso. Sia Matteo- for president- Salvini che Giggino Di Maio dovranno dimostrare di tenere mucho a governare, di essere in sommo grado preoccupati per le sorti del Paese, di tentarle tutte, ma in realtà fare la mossa, se non ammuina, sotto sotto tramare per evitare una simile congiuntura. Sic stantibus rebus, nella constatata impossibilità di formare un governo, Mattarella non potrebbe che dare l’incarico a qualcun altro, comporre un “governissimo” con tutti dentro. L’incarico di Premier dovrebbe andare non ad un esponente della Lega né ad uno dei Cinque Stelle, ma ad una personalità esterna, più o meno super partes. A chi darebbe allora l’incarico, brizzolo Mattarella? Magari a Claudio Baglioni (vero trionfatore del Festival di Sanremo 2018, dati i disastrosi risultati di vendita dei dischi del festival) che ha appena pubblicato un album proprio intitolato “Al centro”. Il brizzolo presidenziale potrebbe affidare un incarico esplorativo al brizzolo canzonettaro. Quest’ultimo, coadiuvato dalla giuria di qualità (composta da Mara Maionchi, Albano, Massimo Cacciari, Sferaebbasta, Pierluigi Pardo e Klaus Davi), inizierebbe gli audits delle varie forze politiche, affidando infine l’incarico di formare la maggioranza di governo a quelle ritenute più talentuose, in possesso dell’ “I Factor” (Fattore Italia). Dico Claudio Baglioni, per indicare una personalità italiana altamente rappresentativa e riconosciuta, ma naturalmente i nomi sono tanti. Potrei citare Mario Adinolfi, leader del Popolo della famiglia, o in alternativa il Crociato di “Avanti un altro”. Se poi anche il Claudio nazionale fallisse, Sergione Mattarella avrebbe un’altra chance, prima di sciogliere le Camere e tornare al voto. Cioè comporre un comitato di 5 saggi a cui affidare il compito di varare una nuova legge elettorale, condurre l’ordinaria amministrazione e traghettare a nuove elezioni. Il comitato potrebbe essere formato da Vittorio Sgarbi, Cruciani e Parenzo, che valgono per uno, Pierluigi Zingales, lo stesso Adinolfi e Floriana del Grande Fratello. Se quest’ultima possibilità naufragasse, a “Mato Matto” Mattarella non resterebbe che gettare la spugna. Ma anche nel caso di un governissimo, le chances di stabilità sono remote. Sicché Pentastellati e Leghisti si crogiolerebbero per i danni arrecati da un siffatto ircocervo e attenderebbero che lo sfinito Sergione metta fine alla legislatura. A quel punto, nella ventura di nuove elezioni, entrambi sono convinti di raddoppiare i consensi. Ecco perché Salvini continua a giurare fedeltà alla sua coalizione di centro-destra: non può certo perdere quel prezioso sostegno di Forza Italia e Fratelli d’Italia che sarebbero puntelli per il suo successo. Allo stesso modo, il Movimento Cinque Stelle continua a sbandierare la propria alterità, a dichiararsi fiero delle proprie presunte mondizia, incorruttibilità, autarchia. Stay tuned, staremo a vedere.
11 marzo 2018
Satura 9
Il paradosso. Nessuna delle due forze risultate più votate alle recenti elezioni ha interesse a formare un governo e la forza che è risultata sconfitta è centrale per la formazione del governo stesso. Amenità della legge elettorale. Infatti, sia l’M5s che il centro-destra dovranno chiedere l’appoggio del PD, appoggio che il partito ha negato per bocca del suo segretario dimissionario. Ma quelle dell’M5s e della Lega sono tattiche; infatti, come detto, queste forze politiche in mancanza di una maggioranza assoluta non hanno interesse ad andare al governo. Prima di tutto perché dovrebbero farlo chiedendo i voti del PD o peggio, alleandosi fra loro. In secondo luogo perché, molto probabilmente, questa sarà una legislatura brevissima e lo spettro di nuove elezioni non fa dormire sonni tranquilli a nessuno. Ma soprattutto perché un governicchio, M5s o Lega che sia, sarebbe un fallimento totale, non potrebbe portare allo sperato cambiamento da queste forze promesso in campagna elettorale, nessuna delle riforme sbandierate sarebbe realizzata, alcun risultato raggiunto, da un esecutivo raffazzonato e posticcio. La conseguenza sarebbe che la forza di governo alle prossime elezioni verrebbe bocciata dagli elettori e così si spegnerebbero per sempre i bi-sogni di gloria di Matteo il lumbard e Giggino “o presidente”. Come i Cinque Stelle potrebbero giustificare alla massa di scrocconi e derelitti che li hanno votati il mancato conseguimento dei risultati? Forse potrebbero capire quegli elettori più maturi che magari hanno votato Cinque Stelle solo per disperazione, per evitare l’astensionismo. Ma il novero di potenziali beneficiati, di nuovi cortigiani, la massa informe del pueblo meridionale di giovani scansafatiche e tamarri scioperati in cerca di assistenza, non gli si rivolterebbero contro, una volta viste deluse le tapine aspettative? E mutatis mutandis, come potrebbe la Lega di Salvini spiegare ai tanti razzisti ed incazzati bauscia del nord i mancati risultati? Non imbraccerebbero essi i forconi contro il board leghista? Dunque cui prodest, si chiedono i giornalisti, di fronte alla ricerca delle due forze in campo di accordi e intese per formare un governo? La loro è una ricerca vana, anzi una finta, imposta solo dal dovere istituzionale di dare stabilità al Paese. Ma i meschini calcoli politici li porteranno ad evitare una simile congiuntura ed essi costringeranno il Presidente Mattarella a sciogliere le camere e farci tornare a votare. Di Maio in peio, si Salvi(ni) chi può!
Gerontocrazia. Ma Albano non doveva ritirarsi nel 2018? Invece è più attivo che mai (cuore permettendo). Eccolo ancora che sgambetta da una trasmissione all’altra, in tv è onnipresente, e programma concerti in tutto il mondo come nemmeno le più grandi rockstar americane. Yes, Salento is magic! Potere dei peperoncini, dell’olio, del vino e dell’aria buona di Puglia. Però Albano esagera, l’anagrafe in qualche conto bisognerà pure tenerla. Niente di strano, certo, perché in questo patto con il diavolo il cellinese è in buona compagnia. La storia della musica è piena di finti annunci e di finti ritiri, da Renato Zero a Vasco Rossi. Felicità!
Morte per autocombustione. Con la sonora sconfitta del Pd, la sinistra ha neutralizzato sé stessa, perdendo l’ultima possibilità che aveva di agganciare il treno della credibilità e della coerenza. Con la sberla presa alle elezioni del 4 marzo infatti, il Pd ha polverizzato non solo il Giglio tragico renziano, ma tutto ciò che era alla sua sinistra, Liberi e uguali in primis. L’operazione Leu, velleitaria già nelle premesse, risultante di una tradizione ingloriosa che va da Sinistra Ecologia e Libertà a Sinistra italiana, da Sinistra Arcobaleno a Comunisti Italiani, da Rivoluzione Civile a Lista Tsipras, si è dimostrata ancora più becera di quante l’hanno preceduta, perché frutto di invidie e vendette personali, di odi e ripicche, tutti interni al Pd, ma di cui agli elettori non poteva importare un piffero. Nonostante i pifferi abbiano cercato di suonarli, lo smacchiatore di giaguari Bersani e Massimo antipatia D’Alema, Civati chi? e Roberto Speranza (perduta). E rendendosi poi conto di non essere versati per questo tipo di musica, abbiano cercato un pifferaio magico pronto a risolvere la situazione. Ma hanno sbagliato suonatore, a quanto pare, o spartito. Pensavano di trovare nel Presidente del Senato “Grasso” che cola, invece i topi in fuga gli hanno fatto capire che non c’è trippa per gatti. La sconfitta si è mangiata anche “Potere al popolo”, l’ultima listarella elettorale assiepata intorno alla falce e martello che furono. Ora la sinistra in gramaglie piange sé stessa e gli elettori che un tempo erano rossi sono diventati bianchi, come la scheda elettorale che hanno lasciato intonsa, o peggio incolori, come il Movimento Cinque Stelle che in gran parte hanno votato.
Luca era gay. È triste l’inviata di “Quinta Colonna” Nausicaa Della Valle, martire insieme a Roberto Poletti dei cazziatoni di Paolo Del Debbio, che li tratta a pezza di piedi nei loro surreali collegamenti dai campi rom o dalle principali piazze di spaccio italiane. Del Debbio gli intima di spostarsi più a destra o a sinistra nell’inquadratura, di dare o togliere il microfono a qualche intervistato in base alle sue simpatie del momento, gli toglie la parola e chiude il collegamento se stanno dicendo qualche corbelleria oppure li costringe a continuare a parlare del nulla per interminabili minuti se magari non è ancora pronto il collegamento successivo. Della Valle incassa e va avanti, fedele soldatina delle truppe deldebbiane. Ma la Nausicaa, dicevamo, è triste perché è stata massacrata in rete da insulti e ironie. Infatti, qualche tempo fa, ha rilasciato un’intervista ad una tv cristiana, Tci, in cui dichiarava di essere stata gay ma che ora è guarita grazie all’intervento del buon Dio. Dopo aver sbandierato la liberazione dall’omosessualità e dalle lobby gay, sostiene la giornalista, è stata fatta oggetto di una campagna di odio soprattutto da parte delle comunità lesbo e omo. Ma Gesù mio, come si fa a sostenere una cosa del genere e poi non aspettarsi di essere insultata dal popolo della rete? Allora, o la Della Valle non era lesbica prima, ma solo sessualmente aperta, ed ora ha perso l’interesse, oppure non lo è mai stata o lo è ancora e cerca pubblicità inventando una storia risibile.
12 marzo 2018
Satura 10
“Porca miseria qui la barca non va più/ la cosa è seria la tua barca non va più/ o capitano se non fai qualcosa tu/ andiamo giù” (Orietta Berti).
La sindrome di San Matteo . Il Pd ha subito una sonora sconfitta. Il brutto the day after del partito lo vede ridotto ai minimi termini. “Renzi uccide un Pd morto”, scrive “Il Fatto Quotidiano” del 6 marzo 2018, alludendo alle dimissioni farsa del segretario, che hanno aperto, ancor più della sconfitta, la notte dei lunghi coltelli all’interno del partito. Fra i più critici in assoluto, il Governatore della Puglia Michele Emiliano, uno dei principali avversari e papabili alla carica di segretario. Renzi poi, le dimissioni, è stato proprio costretto a darle. Ma il partito è ancora saldamente guidato da lui, perché tutta la dirigenza è renziana. Vero che quando si andrà a rinnovare le cariche, molto probabilmente dovrà consegnare il potere e avviarsi suo malgrado lungo il viale del tramonto. Quella che lascia il Pd, dopo cinque anni di governo, è un’Italia certamente non migliore di quella che ha preso in consegna. Il debito pubblico è ancora enorme, abbiamo subito una ondata massiccia e incontrollata di immigrazione e se anche pare sia calata la criminalità nelle nostre strade, la percezione della gente è che anzi essa sia aumentata. La produzione industriale continua a precipitare fin dal 2007, gli investimenti sono crollati, la povertà assoluta raddoppiata, e se queste piaghe non sono attribuibili al Governo Renzi, è però anche certo che non sia riuscito a sanarle, vedi il fallimentare Job Act. Mancanza di lavoro e precarietà hanno creato un malcontento diffuso che ha portato la gente a votare alle recenti elezioni i partiti ritenuti anti-sistema, ossia i populisti. Il problema è che in Italia si è creato un divario sempre più netto fra poveri e ricchi, una sperequazione enorme fra chi è debole, che lo diventa sempre più, e chi è forte, che va maggiormente rafforzandosi. Il fenomeno si chiama “Effetto San Matteo”, come indica il sociologo Franco Cassano sulle pagine della “Gazzetta del Mezzogiorno” (8 marzo 2018). Il nome deriva dal versetto 25, 29 del Vangelo di Matteo che recita: “Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.” Si è aperta ancora di più la frattura fra il nord e il sud. E’ curioso e fa pensare il fatto che questo divario che vive il Paese sia anche il portato delle politiche messe in campo da un Matteo (Renzi), e che da più parti ad un altro Matteo (Salvini) ora ci si affidi per colmarlo; ancora più bizzarro è che il primo Matteo, che ha diviso il Paese, sia un centralista e unionista, mentre il Matteo che ora dovrebbe unire fosse, fino a poco tempo fa, indipendentista e secessionista.
Italieni forever. Che bel popolo gli Italieni. Un popolo di truffatori, professionisti del raggiro, dell’imbroglio, fuoriclasse della menzogna, campioni del fotti fotti. Italieni sono i nostri rappresentati politici. Abili mentitori, puttanieri, ignoranti, ciurmatori, falsari. Populismo e becera demagogia sono la loro caratteristica. Certo, Italieni sono anche gli elettori che votano questi bagatellieri. Ed ecco allora che fra i candidati degli Italiani all’estero all’ultima campagna elettorale è spuntato Giuseppe Macario, leader di una fantomatica lista “Free flights to Italy”, cioè che prometteva voli gratis per tutti. La lista era in lizza nella circoscrizione del Nord e Centro America. Ha raccolto 500 firme regolarmente depositate e il suo leader candidato presentato un curriculum invidiabile. Piccolo dettaglio trascurabile, si trattava di un fake, una lista fantasma. Cioè la lista esisteva davvero, ma il Macario è un cialtrone, uno psicolabile, già denunciato per cyberstalking e che non si è mai mosso da Fiano Romano, il paesino dove vive insieme all’anziana madre e dove è da tutti considerato un soggetto pericoloso. Ma nessuno aveva controllato? Tutto ciò è stato scoperto da Selvaggia Lucarelli, giornalista del Fatto Quotidiano, mentre Macario prometteva voli gratis per tutti dagli Stati Uniti all’Italia, prendendo anche molti voti dai boccaloni pronti a correre fra le braccia del filantropo pataccaro.
- come Basta!Andrea Scanzi sta portando in giro per i teatri il suo spettacolo “Renzusconi”, tratto dal suo fortunatissimo libro (Paper First, 2017). Questo animale mitologico sembra sia stato neutralizzato definitivamente dalla recenti elezioni politiche (mai dire mai). Infatti nel centro-destra, risultato vincente in termini di maggioranza relativa, il partito più forte è diventato la Lega salviniana. Più che positivo il fatto che Forza Italia abbia perso molti consensi nonostante una campagna elettorale da delirio dell’ex premier Silvio “bunga bunga” Berlusconi, il quale scalmanava da una tv all’altra a ritmi indiavolati. Ora il Cavaliere dimezzato (che sembra il titolo di un libro di Calvino) dovrà accontentarsi del misero 14 % raccattato, una percentuale auspicabilmente destinata a decrescere ancora. Certo, la campagna di odio allestita nei suoi confronti deve aver fatto la sua parte, e viva Dio, perché “B. come basta!”, potremmo dire, citando il fortunato libro di Marco Travaglio (“Fatti e misfatti, disastri e bugie, leggi vergogna e delitti (senza castighi) dell’ometto di Stato che vuole ricomprarsi l’Italia per la quarta volta” Paper First 2018)
La barca. La disfatta del centro sinistra italiano passa per un piccolo paese dell’Emilia Romagna. Se la grassa Emilia, prima delle elezioni del 4 marzo, era la regione rossa per eccellenza, infatti, Cavriago, minuscolo borgo in provincia di Reggio Emilia, era il comune più rosso, considerato la Pietroburgo d’Italia. Qui il Pci, poi Pds, poi Ds, poi Pd, ha sempre ottenuto la maggioranza assoluta e bandiera rossa la ha sempre trionfato. Ora è stato superato dal Movimento Cinque Stelle che ha ottenuto una piccola percentuale in più. L’ultima roccaforte del cattocomunismo italiano dunque ha ceduto sotto i colpi del populismo grillino. Anche Cavriago, dove al centro della piazza troneggia una colossale statua di Lenin, dono negli anni Settanta dell’ex Urss alla cittadina, che ha sempre fatto professione di fede bolscevica alla madre Russia, ora si è adeguata ai tempi e al nuovo vento nazional populista. Non a caso, Cavriago è la patria di Orietta Berti, la quale, da sempre donna di sinistra, è passata a votare Cinque Stelle, facendo endorsement nella trasmissione di Fazio: dopo “Finchè la barca va”, “La barca non va più”.
13 marzo 2018
Siamo una squadra fortissimi
Il risultato elettorale si è dimostrato nettamente a favore di Movimento Cinque Stelle e Lega. Delle due forze, quella che sembrerebbe più vicina ad ottenere l’incarico dal Presidente della Repubblica è l’M5s. Come faranno gli inetti pentastellati a guidare questo Paese per il quale la metafora della Costa Concordia e del Capitano Schettino non sarà mai stata adoperata invano? I 5stelle hanno garantito uno stipendio a tutti i ggiovani senza lavoro, solleticando vieppiù quell’assistenzialismo che nello sgarrupato Meridione fa la sua porca figura. E certo il reddito di cittadinanza ha fatto più presa, nell’immaginario dei nullafacenti in attesa della grazia, della Flat Tax berlusconiana. Tanto a che serve pagare meno tasse a chi non le paga per niente? Meglio lo stipendio fisso, questa sì che è una vera mancia, rispetto alla mancetta renziana degli 80 euro, che coinvolgeva una fascia minore di beneficiati.
Ma il reddito di cittadinanza, a detta degli economisti, è una misura irrealizzabile, perché occorrerebbero circa 29 miliardi. Tecnicamente il reddito di cittadinanza, formula cambiata rispetto alla iniziale “reddito di dignità”, perché di essa i Cinquestelle, avendo la faccia come il culo, sono sforniti, consiste in un sussidio di disoccupazione che si perderebbe dopo tre offerte di lavoro andate a vuoto. A parte che i fannulloni meridionali troverebbero comunque il modo di aggirare facilmente questo ostacolo, già la misura varata dal Governo Pd (per andare al rimorchio dei Cinque Stelle) del REI, ossia il reddito di inclusione, che entrerà in vigore a luglio 2018, è di difficile attuazione. E se per far fronte alla povertà assoluta, vale a dire quasi 700.000 famiglie in Italia, vi dovrebbe essere un esborso di circa 1 miliardo e mezzo di euro, immaginiamo quanto utopica sia la misura dei pentastellati che invece lecca il culo alla povertà relativa, dunque a 4.6 milioni di italiani. Per altro, l’assegno previsto dal Rei è di 485 euro a testa, pensionati esclusi, quello dei Five stars invece 780 euro. Inoltre, la loro squadra di governo, un po’ raccogliticcia, fatta da professori di non grande fama e addirittura ex beneficiati del Pd, vedi Giuseppe Conte, già braccio destro del Ministro Boschi, e Salvatore Giuliano, non il bandito, ma il Preside del Majorana di Brindisi, firmatario delle riforma della Buona Scuola della Ministra Giannini; questa potenziale squadra di governo, si diceva, sulla quale Di Maio ha annunciato di non voler trattare, nel senso che è un pacchetto all inclusive, questa squadra che dovrebbe dare una legittimità tecnica alle velleitarie promesse grilline, come potrà reggere all’urto con le problematiche italiane ed europee? E che bella squadra del menga…
Ora i pentastellati dovranno mediare, chissà cosa faranno una volta dentro le stanze del potere, quanto si democristianizzeranno e quanto resteranno incorrotti, duri e puri, ovvero puzzoni come sempre.
18 marzo 2018
Lo stallo
La stampa estera ha facilmente derubricato i risultati di Cinque Stelle e Lega come la vittoria dei populismi in Italia. Ma a ben guardare non si può fare di tutta l’erba un fascio. Intanto la storia dei due partiti è profondamente diversa. La Lega ha una identità ben precisa, molto più definita, prensile, come quella del geco, più radicata ai territori, rispetto a quella dei Cinque Stelle, che invece è più proteiforme, adattabile, mobile, come quella del grillo che zompetta allegramente da una parte all’altra. Inoltre la Lega in questo Parlamento è la forza più vecchia, essendo nata nel lontano 1987, mentre il Movimento Cinque Stelle è la più giovane, poiché ha solo dieci anni di vita e cinque di Parlamento. Cambiano poi i bacini di utenza dei due partiti. Quello della Lega è il centro nord, più attento a certi temi, come la sicurezza, l’abbassamento della pressione fiscale, la sburocratizzazione dell’apparato amministrativo. Quello dei Cinque Stelle è il sud, sensibile all’assistenzialismo, alla protezione, nelle sue fasce più deboli, e alla conservazione, nei suoi ceti più alti e parassitari. In effetti, la destra ha sostituito in tutto il centro nord la sinistra che sino alle fine della Prima Repubblica rappresentava la classe operaia e le fasce più deboli ma che nel corso della Seconda ha subito un mutamento antropologico, passando a rappresentare il ceto medio e il ceto produttivo, soprattutto la grande impresa. La Lega oggi risponde alle istanze di entrambe queste categorie, i ceti popolari e le aziende, ed ha quindi rimpiazzato nel sentimento della gente la tradizione socialdemocratica e cattocomunista. Il Cinque Stelle nel Sud invece ha sostituito il centro destra, specie Forza Italia, che già aveva sostituito la vecchia Democrazia Cristiana, nei potentati locali, avversi al nuovo ma gattopardescamente pronti ad abbracciarlo, e nella massa dei sanculotti, fatalmente attratti dalle dazioni gratuite. Si tratta di due offerte alternative, non coincidenti. Molto difficile dunque che le due forze possano governare insieme e fare quell’alleanza che da vari ambienti filogrillini viene auspicata, caldeggiata. Sarebbe un ircocervo, una fusione a freddo, basata solo sulla legge dei numeri, ottriata, ossia calata dall’alto, per i cittadini che li hanno votati. Anche i programmi sono molto distanti, a partire dal reddito di cittadinanza e Flat tax al 15% promessi rispettivamente da M5s e Lega, appunto assistenzialismo contro efficientismo e produttività. Ma questo perché, come detto, i bacini elettorali dei due partiti sono diversificati anche geograficamente: il Sud piagnone e sprecone per i grillini, il Nord dinamico e virtuoso per la Lega. E poi diametralmente opposte sono le posizioni sull’amministrazione della giustizia che si potrebbero riassumere grossolanamente in giustizialismo (per i manettari grillini) e garantismo per la Lega (che in ciò ha fatto propria la battaglia berlusconian mafiosa forzitaliota). Sul mondo del lavoro, Salvini propone una cancellazione totale della Legge Fornero, mentre Di Maio solo una correzione. Distanza anche per quanto riguarda l’ambiente, unico tema apprezzabile dei Cinque Stelle, i quali invocano attenzione massima alle fonti da energia rinnovabile e l’uscita dell’Italia dai combustibili fossili entro il 2050, mentre la Lega se ne sbatte. In comune hanno una posizione fortemente critica nei confronti dell’Europa, con proposta drastica di revisione dei trattati europei e di uscita dall’euro per la Lega e una posizione più morbida per i 5stelle. Vero che in comune hanno anche la riforma delle banche, con separazione delle banche commerciali da quelle di investimento, che dovrebbero essere maggiormente tassate. Ma questo non basta, perché anche in politica estera le visioni sono differenti. Salvini guarda all’est, in particolare alla Russia, contendendo al suo alleato Berlusconi il primato del putinismo in Italia. E se non un Orban raddoppiato, Salvini punta ad essere uno zar dimezzato, un piccolo Putin. Di Maio invece guarda a Trump, col quale si sente in connessione sentimentale, facendo propria la pluriennale tradizione filoamericana della Democrazia Cristiana. Infatti, l’M5s, giunto ora alla maturità, ha cambiato quasi tutto rispetto agli esordi e dalla sterile protesta sa che deve passare alla concreta proposta, se vuole istituzionalizzarsi. “Il neogrillismo di Palazzo”, come lo ha definito Mario Ajello su “Il Messaggero” del 6 marzo 2018 è iniziato già all’indomani dei risultati elettorali, nel sontuoso Hotel Parco dei Principi scelto come quartier generale dei grillini, e ora il vaffa di Beppe Grillo (che in un video dei suoi allucinati ha dichiarato che il movimento si adatta a tutto) viene sostituito dalla mediazione, e il turpiloquio e le battute da osteria dal fair play e dalla gentilezza istituzionale. Facile che il Presidente Mattarella voglia premiare questo garbo, questa nuova veste del movimento, rappresentata plasticamente dalle grisaglie dal felpato giovane vecchio Giggino Di Maio, e chiami prima l’M5s per dare l’incarico.
Ma nelle more, se non con la Lega, con chi potrebbe allearsi il Movimento Cinque Stelle? Col Pd. Ma nemmeno questo può essere di suo interesse, come Il “Fatto Quotidiano” da più giorni cerca di dimostrare. Come scrive Andrea Scanzi, Di Maio e soci hanno tutto da perdere ad allearsi col Partito Democratico, anche perché si odiano. “Sono mondi ontologicamente inconciliabili, come Cruciani e lo shampoo”. Il Pd perderebbe quel residuo di credibilità che gli è rimasta, dal 19 precipiterebbe al 10% alle prossime elezioni. “Ma anche i 5 stelle avrebbero tutto da perdere, nel momento in cui si mischiano col Pd perdono milioni di consensi. E questo Di Maio lo sa”. Non resta dunque che una strada, di fronte all’Aventino del Pd, ribadito dal suo nuovo segretario Martina, cioè quella di tornare alle urne. Nell’eventualità di un Governo del Presidente infatti, o Governo di tutti, che dir si voglia, il rischio sarebbe di avere un parlamento di sole opposizioni, come paventato da Francesco Verderami sul “Corriere della Sera” del 3 marzo 2018. Perché gli assetti variabili, in quanto tali, appunto variano, in funzione degli interessi di ciascuna delle parti. Si andrebbe ad uno scontro permanente, un bellum omnium contra omnes che oltre ad esautorare il Parlamento farebbe precipitare i mercati e la credibilità del Paese agli occhi dell’Europa, indebolirebbe sia i partiti maggiori che i minori. E si tornerebbe comunque al voto. Se è tortora, all’acqua torna.
19 marzo 2018
Game over
È un piacere meschino ma irrinunciabile quello di infierire sui perdenti (ma a mia difesa potrei allegare un link con le decine di pezzi in cui me la prendo con i vincitori). Ci si riferisce ai trombati alle recenti elezioni politiche. E per essere ancora più meschini, ce la prenderemo solo con alcuni, non con quelli, pur sconfitti, delle forze che hanno vinto, ma con quelli dei partiti che hanno perso, dunque doppiamente trombati. E iniziamo col Pd. Trombato il sottosegretario Sandro Gozi. Trombato Ernesto Carbone. “Era fatale che quel ciaone un giorno sarebbe tornato indietro” scrive “Il Fatto Quotidiano”, con riferimento alla facile ironia fatta dal deputato renziano all’indomani del referendum sulle trivelle del 2016. Trombati Cesare Damiano, ex nome grosso del Pds, e Giuseppe Fioroni, ex nome grosso della Margherita. Trombato Stefano Esposito, che annuncia il suo addio alla politica (non ci mancherà). Perdono Gianni Pittella, eurodeputato socialista, in Lucania, e la giornalista Francesca Barra, che proprio nella sua regione ha raggranellato un misero 14%, addirittura nella sua città, Bernalda. La Barra, una delle giornaliste più belle del panorama televisivo, moglie dell’attore Claudio Santamaria, è stata fatta oggetto nelle settimane precedenti al voto dell’ironia corrosiva di un’altra avvenente penna, Selvaggia Lucarelli, che forse non perdona alla Barra di essere più bbona di lei. In un editoriale al veleno sul “Fatto Quotidiano” del 28 febbraio, “Francesca Barra la candidata-selfie strappata all’Isola”, la Lucarelli accusa la collega di “narcisismo, goffaggine e inadeguatezza” e di essere arrivata alla candidatura solo per la sua amicizia personale con Renzi; “non è conscia dei suoi limiti ed ambisce a tutto”afferma a Lucarelli, “ha una goffaggine da Fantozzi”, e accusa la Barra di essere una giornalista tappabuchi alla quale si affidano solo ospitate o trasmissioni di seconda fascia, perché sarebbe più attenta a mostrarsi in pose languide e sexi sulla rete che a lavorare seriamente. E la conferma di ciò, rincara la dose, sempre sul “Fatto” del 7 marzo, è il tonfo elettorale. “Nella sua carriera politica” scrive il Fatto Quotidiano, “c’è tutta l’essenza, che è poi il vuoto, del renzismo”. Sconfitto ma ripescato nel proporzionale anche il Rettore dell’Università di Messina Pietro Navarra, nipote di un capoclan corleonese, Michele Navarra, potentissimo boss mafioso fatto fuori dal clan di Luciano Liggio negli anni Cinquanta. Non si vuole far passare la tragica teoria delle colpe dei padri, ma è lo stesso Navarra ad essere da sempre al centro delle polemiche per una gestione ritenuta in odor di mafia della sua Università. E dalla Sicilia all’altro capo della Penisola: sconfitto Riccardo Illy a Trieste. E in Friuli, di cui è stata Presidente della Regione, perde anche Debora Serracchiani. Clamorosa la sconfitta di tutti i Ministri del Governo Gentiloni. Franceschini è stato sconfitto a Ferrara dal centrodestra. Marco Minniti addirittura stracciato a Pesaro dal grillino Andrea Cecconi. Valeria Fedeli perde nella sua Pisa, Roberta Pinotti sconfitta a Genova dal candidato pentastellato. Claudio De Vincenti a Sassuolo, Andrea Orlando in Toscana. Sebbene i ministri paraculi siano paracadutati, è innegabile la colossale figura di merda. Perde la Lorenzin, la sua lista “Civica Popolare” si ferma all’1,3. La Beatrice poteva fare come il suo compagno di merende Alfano, che ha avuto la decenza di non ricandidarsi. Presi a sberle anche Matteo Orfini, l’uomo ombra di Renzi, e Andrea Marcucci. Bocciata l’avvocato Lucia Annibali, sfregiata con l’acido dal suo fidanzato, a conferma che spettacolarizzare una tragedia per fini politici non sia molto elegante. Per quanto riguarda Liberi e Uguali, l’esercito dei trombati è guidato da D’Alema: ultimo nel suo collegio di Nardò-Casarano-Gallipoli. Doppia vittoria per il Salento: non solo si è liberato dell’odioso “Conte Max”, ma anche, in un sol colpo, dei vari notabili che da decenni ne infestavano le contrade.Gaudeamus igitur. Per Leu, trombati eccellenti il Presidente Grasso, che perde nella sua Palermo, e la Presidenta Boldrini, Bersani Fratoianni, Fassina. Sebbene paraculati, clamorosa la loro disfatta nei collegi uninominali. A sinistra, inaspettatamente trombata (ma salva) anche Emma Bonino, della lista Più Europa (il bacio della morte col democristiano Tabacci l’ha condannata) e tutta la lista Insieme, nonostante la benedizione di Romano Prodi (i baci dei democristi portano male!). Sparito, terminato, speriamo per sempre, anche Ingroia con la sua lista (della spesa). Non soddisfatto del misero risultato ottenuto alle politiche del 2013 con Rivoluzione Civile, il pessimo magistrato si è ripresentato con “La mossa del cavallo”, insieme al fanatico Giulietto Chiesa, con un programma immemorabile, stilato niente di meno che da Stefano Sylos Labini.
Altre forze politiche che sono fuori dal Parlamento. Parliamo delle estreme, iniziando dai fascisti. Non ce l’ha fatta Casa Pound, ed è così rimasto a terra Simone Di Stefano, che nella diretta della notte elettorale su La7 adduceva a motivo della mancata elezione il fatto di essere stato poco in televisione, di fronte ad un Mentana “Zatopek” (come lo definisce Francesco Specchia su “Libero” 7 marzo 2018) a metà fra l’incredulo e l’indispettito. È stato un attimo di smarrimento e appena Mitraglia si è reso conto delle farneticazioni del leaderino fascista ha iniziato a sommergerlo di battute al vetriolo. Scrive Selvaggia Lucarelli in un suo acido corsivo: “Lui che voleva invadere la Libia si lamentava di non essere stato invitato abbastanza in tv. Peccato davvero per l’insuccesso di Casa Pound, perché invece i risultati dell’altra coalizione di estrema destra Forza Nuova sono stati proprio incoraggianti: 0,37%. Se si mettessero insieme, se unissero le forze, altro che Libia. Potrebbero invadere almeno il giardino pensile di casa Boldrini. Potrebbero lanciare gavettoni al prossimo Gay Pride. Potrebbero radere al suolo tutte le sculture alla gara nazionale di castelli di sabbia a Cervia. Potrebbero sfidare Fassino a braccio di ferro. E invece di queste elezioni ci resterà il ricordo del piccolo Simone con la sua aria bastonata, che il giorno dopo la sconfitta, in un moto d’orgoglio, dice: ‘è ora di mettersi al lavoro!’. Ecco, bravo, il tornio con turni da 12 ore festivi compresi, sarebbe un buon inizio”. Povero Di Stefano, perculato da Mentana in diretta tv, perculato da Selvaggia sul “Fatto Quotidiano” del 7 marzo 2018, rischia addirittura di farci tenerezza. Non si può sparare sulla Croce Rossa. Infatti, nel caso di specie bisognerebbe proprio farla saltare in aria con le granate! E così per Forza Nuova, del pari bocciata dagli elettori. Anche Roberto Fiore non è stato votato neppure dai suoi parenti. Verrebbe di condire di sarcasmo un articolo di satira sui camerata 2.0, i nipotini del Duce come Fiore. Ma poi uno pensa alle irruzioni dei Forza Nuova alla messa di Don Biancalani (che pure è un personaggio disgustoso) a Vicofaro, Pistoia, a quella degli skineahds alla riunione del Pd a Como, a quella negli studi di La7 per interrompere la trasmissione dell’insulso Floris, oppure, che è la stessa cosa, all’aggressione degli antifascisti al balordo leader di Forza Nuova a Palermo Massimo Ursino, imbavagliato e picchiato, o ancora alle svastiche disegnate sulla lapide della scorta di Moro a Roma, e allora non c’è nessuna satira che tenga. Bisogna chiamare le cose col proprio nome: questi sono peggio della merda.
E sull’altra estrema, quella dei reduci comunisti. Anche Potere al popolo è rimasta al palo. Sebbene nobilitati dall’adesione di sigle come l’Anpi, l’associazione dei partigiani, e di molti rispettabili intellettuali, tuttavia come obliare il fatto che la loro base siano i centri sociali, come quello di Mario Pasquino, “Je so’ pazzo”, di Napoli? Quelli delle molotv e delle spranghe, delle vetrine spaccate e dei muri imbrattati, degli scontri di Bologna, quelli dell’antifascismo ancora più cruento e forcaiolo del fascismo? Povera Italia.
21 marzo 2018