di Paolo Maria Mariano
Il bambino sognò il nonno. Il nonno aveva un cappello a falde larghe e un pastrano che arrivava alle caviglie. Il bambino aveva un palloncino legato a un filo. Teneva per mano il nonno. Erano su una nuvola e in basso c’era il deserto. Il bambino si chiese cosa ci facesse una nuvola sul deserto, dove non piove mai, sapeva, ma poi si disse che quello era un sogno e quindi poteva andare bene anche così; anzi, a pensarci, la stessa nuvola che li portava in giro non era poi plausibile, ma era parte del sogno.
La nuvola si mosse a est, andava verso le montagne. Il palloncino seguiva. Il nonno guardò in basso, dove il mare di sabbia si arrestava perché c’era un ordito di strade che dividevano e connettevano case. C’era fumo che si alzava qui e là, a guardare bene dall’alto, dall’altezza delle nuvole. Le stesse case erano diroccate, anzi, qualcuna proprio cadde allora quasi senza strepito, come se un refolo di vento l’avesse spostata da un punto d’equilibrio instabile quel tanto che basta. Il bambino chiese dov’erano e perché quelle case cadessero, perché c’erano quei fumi, perché si sentivano esplosioni, non molto lontane. Il nonno disse che quella giù in basso, quella che sembrava un disegno regolare sulla sabbia, era Aleppo, e che quella era la guerra. Perché – chiese il bambino – mi porti in guerra? Non ti porto in guerra – rispose il nonno – ti faccio vedere la guerra dalle nuvole. Certo qualcuno dirà di aver trovato in internet un video dove si vede un albero di Natale nel mezzo di Aleppo e che quanto i giornali trasmettono è disinformazione, e lo dirà senza aver controllato l’autenticità di quel video, perché gli piacerà convincersi che qui giù, sotto le nuvole, non ci sono bambini che muoiono perché qualcuno possa vendere armi, perché altri riescano a contrabbandare reperti archeologici, perché qualcuno si possa sostituire a qualcun altro per controllare il petrolio finché non finirà, e lo farà, stai certo.
È questa – chiese ancora il bambino – la guerra? Sì è questa, una cosa degli umani. La guerra non è solo la gara del soldato, è sporcizia, fango, sudore e sangue su tutti quelli che tocca: esseri umani, animali, piante. È la sospensione del patto che unisce la società da parte di qualcuno contro qualcun altro. È il tentativo di sostituzione imposta di quel patto con un altro, non tanto da chi imbraccia le armi, ma soprattutto da chi lo manda e viene dopo a pascersi della vittoria o a sopravvivere e riciclarsi nella sconfitta. La guerra è desiderio di dominio imposto e comincia nei piccoli gruppi umani, un foro verminoso che s’ingigantisce tra gli stati e diventa voragine. La guerra è dolore e disgusto, negazione dell’umano, prima ancora di morte, perché quest’ultima c’è per tutti anche quando c’è pace: è materia del tempo.
Ancora non capisco, però, perché – disse il bambino – io la debba vedere. Voglio tornare a casa; mi piacerebbe svegliarmi perché so che questo è un sogno, così almeno credo, e sono nel mio letto, nella mia casa, con la colazione che mi aspetta al mattino, quella per cui protesto se non è buona come sempre, anzi se non è ancora più buona di sempre. Capisco – disse il nonno – ma ora siamo sulle nuvole. Anch’io vorrei la colazione ogni mattina sempre più buona, e mi ricordo che quando ero bambino ero contento se la colazione c’era e basta. Non ti auguro di non averla, ma di ricordarti che per me, e ancor peggio per mio padre, non sempre c’era. Per questo ti porto a vedere la guerra dalle nuvole: perché tu possa imparare a rispettare quello che hai, soprattutto te stesso, e quindi gli altri; perché cominci a capire che lasciarsi condizionare dalla paura è un lusso delle società abbienti. Quando hai dignità e poco altro, ti rimane solo il coraggio o l’annullamento di te stesso, che equivale a morire, anzi forse anche peggio, perché la morte non la puoi perdere, la dignità sì. E coraggio non vuol dire non avere paura, significa solo non farsi condizionare dalla paura, non oltraggiare se stessi e gli altri per l’ansia del timore di vivere, della frenesia dell’avere, del desiderio spasmodico di gridare che esisti e che tutti debbano guardare e ossequiare, dal vedere che gli altri fanno quello che vuoi tu e approvano quello che fai tu, e per quello ricorri a tutto, anche alla follia.
Ho tutta la vita, nonno, per impararlo. Hai tutta la vita – disse il nonno, sorridendo – per aspettare d’impararlo e poi costruirti illusioni, anche a danno di altri, perché ti accorgi che lo potevi imparare prima e, quando lo sai, è troppo tardi per tornare indietro; quindi, prima te ne rendi conto, prima cominci a riflettere.
Questa guerra, però, finirà e staremo tutti meglio – il bambino voleva speranza. Certo che finirà, come tante altre in passato e ogni volta si diceva che non dovevano esserci più. In realtà le abbiamo limitate, ma poi la gente vuole vendere armi, fare i suoi affari a tutti i costi, poi prende esempi dalla storia in maniera strumentale per giustificare i propri desideri e le proprie imposizioni e non per costruire evitando gli errori che altri hanno già fatto.
Mi parli di un mondo brutto – e il bambino sentiva di voler piangere. Ti parlo degli umani che hanno nobiltà d’animo e miserie, che sono coraggiosi e vigliacchi, pieni di rispetto e di disprezzo, di passione e d’odio, tutte cose su cui dovrai scegliere e non sempre lo farai bene, per questo forse è meglio pensarci per tempo. E poi non devi neanche guardare molto nel buio degli umani perché poi il buio finisce per guardare dentro di te. La prossima volta che c’incontreremo sulle nuvole, scenderemo e andremo per giardini di ninfee e poi nel Musée de l’Orangerie a rivederle dipinte su tela, e al museo d’Orsay, e in qualche altro museo, perché la bellezza dà ragione al mondo.
Forse è ora che mi svegli – gli disse il bambino. Forse sì – e il nonno gli fece una carezza sul capo. Sul volto, tra la barba bianca, aveva un sorriso.
[“Il Galatino” anno L n. 4 del 24 febbraio 2017, p. 3]