di Gianluca Virgilio
Fare chiarezza dentro se stessi, illuminare il proprio animo, significa capire qual è la propria misura e adattarsi ad essa, seguendo il corso della vita senza forzature e senza deroghe. La ricerca della propria misura è la ricerca delle ragioni della propria vita. E siccome la vita è sempre condivisa con gli altri, cercare la propria misura significa chiarire anche la qualità del nostro rapporto interpersonale. Sono deleterie le forzature, ma vale molto riguardare il nostro comportamento sociale. Allora si scoprirà che il nostro malessere è coinciso con qualche tentativo della volontà volto a forzare noi stessi o gli altri, mentre nulla sarebbe stato più facile che assecondare il normale accadere delle cose, che alla fine nulla mai può ostacolare.
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A proposito dei parigini e dell’uomo europeo in generale, Albert Camus scrive (in La chute, Gallimard, Paris 1980, p. 10-11: “Une phrase leur suffira pour l’homme moderne : il forniquait et lisait des journaux.” Come dire che l’uomo medio moderno ha un lato bestiale (il forniquait) ed uno vanesio (lisait des journaux). Quanto la bestialità si unisce alla vanità, Dio solo sa che cosa può accadere!
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Ci sono tante strade nella città, da percorrere in auto o a piedi; strade aperte dalle autorità cittadine dopo pubbliche decisioni; ma, un giorno, una due dieci cento persone scoprono che è più comodo o vantaggioso inaugurare un nuovo percorso: ecco che tra l’erba di un prato di periferia vedi serpeggiare un sentiero di terra battuta, una “carrara” dal colore marrone. E’ il segno di un’altra possibilità rispetto al circuito delle strade ufficiali.
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Penso alla notte appena trascorsa. Ho dormito profondamente fino alle cinque, quando, avendo sognato d’aver perso il treno per il ritorno a casa, mi sono svegliato. Allora ho sentito il silenzio dell’alba, appena attraversato dall’abbaiare di cani in lontananza. Ho pensato alla loro solitudine, ai padroni che li lasciano in campagna a guardia delle case suburbane. Non avevo dubbi, infatti, che quell’abbaiare provenisse dalla campagna e non dalla città, dove avrebbe arrecato disturbo agli abitanti assonnati. Poi, chissà per quale strana associazione d’idee, pensavo al servilismo volontario dei professori, che non hanno mai alcuna difficoltà a recepire tutto quello che viene dall’alto, fosse anche la loro condanna a morte. Mi vedevo con la carta e la penna in mano, intento a scrivere queste parole: “C’è in giro una gran voglia di schiavitù! C’è chi si muove assai liberamente in un sistema servile”. Mi stupivo a pensare, nel dormiveglia, che la scuola si era col tempo trasformata da grande conquista sociale in sistema di controllo sociale; e mi dicevo che mia madre non si era poi sbagliata, all’età di nove anni, quando, non sopportando più i soprusi della maestra, era scappata da scuola per non farvi mai più ritorno. La ragazzina di quarta elementare, nel 1943, aveva capito tutto.
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Nietzsche su Agostino. “Ho appena letto, per rinfrancarmi, le confessioni di Sant’Agostino, con molto dispiacere per il fatto che tu non eri accanto a me. Oh questo vecchio retore! Com’è falso e travisante! Quanto ho riso! (ad es. a proposito del “furto” della sua giovinezza, in fin dei conti una storia da studenti). Che falsità psicologica!…”. (Lettera n. 589 a Franz Overbeck da Nizza, 31 marzo 1885, p. 35 dell’Epistolario). Il furto delle pere è uno dei pochi brani delle Confessiones che si legge a scuola.
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Scrive Martìn Caparròs, La fame, Einaudi, Torino 2015, pp. 242-243: “Lo sciopero della fame è un modo di esercitare violenza contro se stessi perché altri – il potere, lo Stato – si assumano la responsabilità di quella violenza: chi sciopera decide di cominciarlo, ma il potere ha la possibilità di porre fine allo sciopero concedendo ciò che viene richiesto. E, se non vi pone fine, si trasforma in boia.
Lo sciopero della fame può funzionare soltanto nei confronti di un governo nel quale chi sciopera in qualche modo confida. Un vero tiranno risponderebbe allo sciopero della fame con una risata o neanche quello; la scommessa di chi sciopera consiste nel supporre che se un governo si pregia di una qualche virtù – la democrazia, la giustizia – non vorrà assumersi la responsabilità di lasciar morire un uomo pacifico che chiede soltanto di essere ascoltato.”
Queste parole mi hanno fatto venire in mente uno sciopero della fame a cui parteciparono alcuni miei colleghi d’università, credo nel 1982, ad Urbino. Avevano occupato una sala della mensa e, distesi nei sacchi a pelo, aspettavano giorno e notte che il loro sciopero della fame producesse i suoi effetti su qualche potente locale. Non mi ricordo né qual era la rivendicazione studentesca, né se si ottenne qualcosa, ma io non partecipai né in cuor mio approvavo questo tipo di lotta, perché mi pareva che essa prevedesse, in chi la conduceva, un’eccessiva fiducia nel potere; il quale, dopo un paio di giorni, fece intervenire la polizia, che sgomberò la sala della mensa, dove tutti andammo a mangiare; e la cosa finì lì.
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Pensiero sui libri ereditati da mio padre. Negli armadi acquistati per conservare i suoi libri ho riposto anche molti miei, dando luogo ad una mescolanza dei suoi coi miei libri, sicché un estraneo non saprebbe discernere quali sono i suoi e quali i miei. Avrei dovuto tenere isolati i libri di mio padre e fare della libreria un monumento alla sua memoria? No, mi è sembrato che il miglior modo di tenere in vita la biblioteca di mio padre fosse quello di farla diventare la mia biblioteca, che mi darà da leggere nei prossimi anni. Figuraliter, incorporo mio padre, sono uno con lui.
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Quando sono nato, nel 1963, la Terra era popolata da circa tre miliardi di individui, mentre ora, cinquantacinque anni dopo, si viaggia verso gli otto miliardi. C’è stato qualche miglioramento nelle condizioni di vita dell’umanità? L’Altro mondo è sempre lì, lacero e affamato, senza redenzione, mentre Questo Mondo continua a ingrassare e sprecare risorse, senza coscienza, ignaro che l’Altro Mondo è presente anche qui fra noi, come in passato. Ricordo d’infanzia, quando, qualche volta bussava alla porta di mia nonna una vicina di casa. Mia nonna, la cui famiglia non navigava nell’oro, le dava un po’ di legumi, un po’ di farina, qualche frisella, d’inverno un po’ di legna. Io sentivo tutta l’umiliazione di quella vicina, la sentivo dentro di me, e pensavo che se si era spinta a stendere la mano, voleva proprio dire che aveva fame e freddo. Com’era possibile una cosa del genere?
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Il successo, a cui molti ambiscono, è il participio passato sostantivato del verbo succedere, il che vuol dire che il successo riguarda ciò che è accaduto (successo) nel passato. Pertanto, l’espressione “aspirare al successo” o “desiderare il successo” significa sentire la mancanza di un riconoscimento per quanto si è compiuto nel passato. Un uomo di successo è colui al quale la società riconosce il compimento della propria opera; un’opera di successo, quella che tutti riconoscono come in sé perfetta e conclusa. Come si spiega questa voglia di avere successo, di compiere un’opera di successo? Sappiamo bene che alla nostra morte si creerà un vuoto per noi inaccettabile, che dunque occorre riempire in qualche modo. Ecco perché ci teniamo tanto ad avere successo, perché il successo è il sostituto del nostro essere che sparisce, che diventa nulla e trova nell’ ”opera di successo” il suo succedaneo. Vanitas vanitatum!