L’uomo è piccolo, ha solchi sul volto, baffi sbilenchi, gli occhi infossati, un’età senza gli anni, un respiro affannoso. Il basso nella città vecchia è come una catacomba in cui il sole arriva e va via come un ladro di buio.
Ci sono bambole distese per terra, accatastate. Altre sedute composte e tristi su un divano falso liberty che mostra il telaio arrugginito, ma che una volta ha avuto uno splendore di pampini barocchi.
Appeso ad un chiodo un cartello di rame brunito: si riparano bambole.
Tutt’intorno le bambole di porcellana, di plastica ,di stoffa; dimenticate, ripudiate, tradite. Hanno lo sguardo svuotato dai cocci degli occhi. Le parrucche confuse e senza più colore. Pizzi e merletti si sono sporcati di abbandono e sdruciti.
Sulla superficie della memoria compare l’immagine della bambolina di celluloide che si affaccia spaurita dalla tasca di Pofi nel bel romanzo di Antonio Pizzuto che s’intitola appunto Si riparano bambole (1960).
“Qui non ci viene più nessuno”, dice l’uomo. “Nessuno gioca più con le bambole. Tutte le bambole sono ormai morte. Allora di tanto in tanto, raramente, riparo qualche ferro da stiro: resistenze che si bruciano”.
L’ultramodernità s’è portato via i mestieri. Sono scomparsi insieme agli oggetti, ai giochi, ai bisogni. Con i mestieri si sono spente anche le storie che generavano. Gli uomini resistono -perché si deve – con rassegnata malinconia.
Alla civiltà delle macchine, della tecnologia, si deve pagare un prezzo. Il progresso, in fondo, è fatto anche di questo. Poi a pagare sono sempre le creature. Ci sono mestieri che non s’inventano ma che neppure si riconvertono, perché costruiti fin dall’infanzia, osservando le mani e ascoltando i silenzi del nonno e del padre e poi provando e riprovando a imitarli.
L’uomo nel basso sale con gli occhi la scala di sette gradini che porta nell’angustia del vico, mostra le saracinesche abbassate, sigillate con il lucchetto, e dice: “lì c’era il fabbroferraio, lì l’arrotino, lì quello che aggiustava i transistor e i televisori, poi il sarto, una ricamatrice. Non c’è più nessuno. Tutti andati via. Per questa strada non ci passano nemmeno. Non so che cosa fanno. Io ci sono ancora perché questo basso è di proprietà. Cioè, era di mio nonno e di mio padre. Riparavano bambole, anche loro. Bambole e ombrelli”. Dice che del mestiere che faceva gli rimane soltanto la nostalgia. Che non può aggiustare le bambole se non c’è chi le vuole. Una bambola ha senso se serve a qualcuno, se per qualcuno rappresenta un desiderio. Riparare una bambola vuol dire ricucire i sogni strappati di una bambina.
Che buffa storia. Una bambola dava da mangiare a una famiglia. Una bambola permetteva di mandare i figli a scuola. Si riparavano bambole, ed era come una fiaba che trova il giusto modo per far vivere tutti felici e contenti, per sconfiggere il male e i cattivi.
L’uomo che riparava bambole apre bottega ogni giorno alle sette, chiude alle sei del pomeriggio. Guarda le bambole invecchiate che gli sono state lasciate come trovatelle alla ruota. A volte si sorprende a parlare con loro di come vanno le faccende di ogni giorno, e dei reumatismi, e dell’umidità di quel basso, oppure dell’afa che gli strozza il respiro.
Passa il garzone del bar con una pasta e un caffè ondeggianti sopra un vassoio. L’uomo ritorna nel basso e da uno scrittoio con tre gambe tira fuori un mazzo di carte e comincia il solitario.
[Gli articoli pubblicati in questa rubrica sono una selezione di quella che dal 2010 Antonio Errico tiene, con lo stesso titolo, su “Nuovo Quotidiano di Puglia”.]
(2016)