di Luigi Scorrano
Pittori, scultori, poeti tra i molti oggetti passati sotto la loro osservazione hanno riservato uno sguardo particolare a quello che si potrebbe intitolare Studio di mani. Diremmo, quasi naturalmente, mani di donna: dolci, delicate, gentili ma non prive di forza, rivelatrici di un sentimento nascosto dietro un loro gesto, dietro un muovere delle dita o calmo o nervoso o agitato o carezzevole e … metteteci voi quel che avete potuto direttamente osservare, che appartiene alla vostra personale esperienza. Per quanto uno ‘studio di mani’ possa suggestionarci per la categoria nella quale ci è chiaramente possibile collocarlo, esso non finirà mai di sottrarsi a una nostra indagine puntigliosa, di sfuggire a tutte le ispezioni possibili. Letteratura, musica, pittura si sono sempre ingegnate in una specie di gara per darci le più affascinanti immagini delle mani: chiuse a pugno, schiuse in atto d’offerta, le dita piegate verso il palmo o allargate spasmodicamente in un gesto di difesa: innumerevoli sono positure ed atteggiamenti che le mani, stupende e silenziose interpreti, suggeriscono. Pensiamo a certi studi di mani che definiscono un’epoca: il languore molle delle mani liberty delle dannunziane Vergini delle rocce ad esempio: «Le tre sorelle, poggiati i gomiti su la sponda di pietra, tenevano le mani in fuori nude, senza anelli, immerse nel sole come in un tepido bagno aurino; Massimilla con le dita insieme tessute, Anatolia, con l’una palma presa nell’altra in croce per modo che i due pollici soprastavano; Violante, premendo alcune mammole già languide tolte alla sua cintura e lasciandole poi cadere nello spazio»: suggestivo quel lasciar cadere il mazzolino di violette come se, in un gesto di creazione, fosse quella la messa in orbita di un nuovo corpo celeste.
Restiamo in ambito letterario e scorgiamo, nel rumore del telaio, la mano di Silvia che percorrea la faticosa tela; o, quella del telaio di un’altra tessitrice, quella del cui telaio Giovanni Pascoli ci restituisce onomatopeicamente il suono nelle Canzoni di re Enzio.
E la musica? La musica ci fornisce l’immagine delle mani di Tosca, mansuete e pure ma pronte, all’occorrenza, a opporre un gesto violento a un tentativo di violenza; e c’è la gelida manina della Mimì della Bohème che volentieri, e volenterosamente, Rodolfo si affretta a riscaldare: e si potrebbe continuare con altri esempi. Quelli che abbiamo fatto sono, per così dire, stilizzazioni di un ‘oggetto’, in questo caso le mani femminili, il cui ‘uso’ tende a sottolineare un pensiero non espresso o una dichiarazione che un gesto rafforza o delude. Insomma: un oggetto di osservazione che ci consente di idealizzare anche una grande parte di quotidianità che sfugge a un osservatore che non sia particolarmente allenato a cogliere verità nascoste dietro comportamenti apparentemente ovvii. C’è, però, un modo di osservare lo stesso oggetto che è differente da quello che le belle arti, della parola o della pittura o della musica ci consegnano come un dono che ci venga presentato avvolto in una carta scintillante, legato da un nastro vivace, magari accompagnato da un biglietto ruffiano. Questo modo alternativo è quello della quotidianità. Le mani delle donne, in questo caso, non ci appaiono languide e appese in aria come quelle delle nubili di un romanzo dannunziano, o corredate da unghie che si compongano e si adattino ai vestiti indossati, ai gioielli esibiti come messaggeri di ricchezza. Saranno mani abituate soprattutto ai lavori domestici; che nelle tracce ben leggibili rivelano la fatica; mani la cui pelle resta aspra nonostante le cure che si dedicano loro. Ma sono mani ugualmente adorabili, perché anche nei loro rudi contatti ci fanno sentire la calda nota d’una indicibile tenerezza. Venendone a contatto ci si può domandare: ma le tre stagionate pulzelle in posa del romanzo di D’Annunzio avranno mai fatto il bucato senza la lavatrice?