La campagna elettorale in corso, al netto delle tante (troppe) promesse, è nella sostanza giocata sul modo in cui l’Italia intende riposizionarsi all’interno dell’Unione Monetaria Europea e sull’eventualità dell’abbandono unilaterale della moneta unica. Questa opzione è esplicitamente contemplata nel programma della Lega e condizionata all’eventuale mancata abrogazione e/o modifica dei Trattati europei.
La recente investitura del prof. Bagnai, uno dei più autorevoli sostenitori dei benefici effetti dell’abbandono dell’euro, candidato futuro Ministro dell’Economia di un governo di destra a giuda Lega, induce a riflettere sulle possibili conseguenze dell’exit italiano. Proliferano, in questi anni, studi – più o meno ‘scientifici – sui costi e i benefici che l’economia italiana trarrebbe dall’abbandono della moneta comune europea, così come le più svariate proposte di ‘riforma’ dell’attuale assetto istituzionale dell’UME. La gran parte di questi si sofferma su esercizi previsionali, valutando costi e benefici dell’exit. Si tratta, ad avviso di chi scrive, di esercizi che, sul piano della teoria economica, risultano fondamentalmente irrilevanti. Le previsioni in Economia, soprattutto per problemi di così grande portata, sono essenzialmente previsioni politiche. L’”uscita dall’euro” sarebbe un evento epocale, rispetto al quale nessun economista intellettualmente onesto può pretendere di detenere la verità (http://www.primeeconomics.org/articles/italy-the-irrelevance-of-economic-theory-for-leaving-the-euro).
Non vi sono dubbi sul fatto che l’attuale architettura istituzionale dell’eurozona e le politiche di austerità messe in atto negli ultimi anni siano assolutamente irrazionali. Non vi sono dubbi sul fatto che queste ultime hanno generato rilevantissimi incrementi del tasso di disoccupazione, ondate di fallimenti di imprese, riduzione del tasso di crescita e – contrariamente all’obiettivo dichiaratamente perseguito – anche aumenti del rapporto debito pubblico/Pil, in Italia e non solo.
I principali argomenti a favore dell’abbandono dell’euro si possono così riassumere.
1) L’abbandono della moneta unica consentirebbe di svalutare la nuova lira, con effetti positivi sulle esportazioni, per conseguenza sull’occupazione e sul tasso di crescita. La svalutazione – si sostiene – potrebbe anche manifestarsi in modo spontaneo, come adeguamento del valore della nuova lira a un tasso di cambio ‘normale’ con l’euro. Viene argomentato, a riguardo, che le politiche messe in atto negli anni novanta (in particolare, le manovre fiscali restrittive dei governi Amato e Ciampi e la rivalutazione della lira) sarebbero state funzionali all’adozione della moneta unica, con un tasso di cambio lira-marco sopravvalutato. Ciò avrebbe determinato un calo delle esportazioni, dunque della domanda aggregata e del tasso di crescita. La prescrizione di policy che viene derivata è tornare alla valuta nazionale per consentire la libera fluttuazione del tasso di cambio e la sua svalutazione.
Si tratta di un argomento che si presta a una duplice obiezione. In primo luogo, la svalutazione comporta un aumento dei prezzi dei prodotti importati, con conseguente riduzione dei salari reali. A meno di non immaginare un ritorno all’indicizzazione dei salari, ciò produrrebbe un effetto ridistributivo a danno dei lavoratori. In tal senso, non è affatto da escludere l‘ipotesi che l’exit produca un ulteriore peggioramento della distribuzione dei redditi. A ben vedere, è questa la direzione verso cui (implicitamente) si intende andare: (i) aumentare le diseguaglianze fra gruppi sociali attraverso l’imposta unica (flat tax), dalla quale deriverebbe un profilo ancora più regressivo del sistema tributario; (ii) accrescere le divergenze regionali attraverso lo spostamento della contrattazione a livello regionale, al fine di legare le dinamiche salariali a quelle dei prezzi (e dunque al fine di ripristinare le gabbie salariali).
In secondo luogo, la svalutazione non ha (come non ha avuto, negli anni nei quali è stata realizzata) effetti uniformi su scala nazionale, dal momento che reca vantaggi alle aree nelle quali sono localizzate le imprese esportatrici, potendo accentuare i divari regionali. E ancora, e soprattutto, la politica delle svalutazioni competitive consente (e ha consentito) alle imprese italiane di competere riducendo i costi, disincentivando, per questa via, le innovazioni e contribuendo a ridurre il tasso di crescita della produttività del lavoro; già il più basso in Italia rispetto alla media dell’Eurozona. A ciò si può aggiungere che le politiche di moderazione salariale messe in atto in Italia (come politiche sostitutive delle svalutazioni competitive), anche quando hanno prodotto avanzi del saldo delle partite correnti, non si sono tradotte in aumenti dell’occupazione.
2) Per necessità logica, si sostiene, la moneta unica comporta l’adozione di politiche di austerità. Si potrebbe per contro sostenere che il principale (ovviamente non unico) vulnus dell’unificazione monetaria risiede nell’impossibilità di monetizzare il debito. Ma anche in questo caso si è trattato di una scelta propriamente politica, in quanto tale modificabile, con l’ovvia condizione che vi siano rapporti di forza tali da renderne possibile il superamento. Ed è una scelta almeno parzialmente (e temporaneamente) superata dal quantitative easing. Si potrebbe anche aggiungere il vulnus dell’inesistenza sostanziale di una politica fiscale comune. E tuttavia, ritenere che l’Italia fuori dall’Unione Monetaria europea adotti politiche fiscali espansive significa di fatto tacere sulla natura di classe delle scelte di politica economica. Ciò in relazione agli attuali rapporti di forza fra capitale e lavoro, che determineranno se e come eventuali politiche fiscali espansive post-euro si faranno. Un passo falso in tal senso è ritenere, da parte dei sostenitori della convenienza ad abbandonare l’euro, che solo in questo modo si potrà recuperare sovranità monetaria. Peraltro, una sovranità monetaria alla quale il nostro Paese ha rinunciato dal lontano 1981, anno nel quale si sancì il “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia.
Occorre chiarire che il c.d. declino italiano data ben prima dell’ingresso nell’UME ed è sostanzialmente imputabile all’assenza di politiche industriali e, dunque, al continuo declino del tasso di crescita della produttività del lavoro almeno a partire dall’inizio degli anni novanta. La retorica del “piccolo è bello” ha giocato un ruolo rilevante nel preservare il ‘nanismo’ imprenditoriale italiano, che è il primo fattore che spiega la scarsa propensione all’innovazione delle nostre imprese. La Lega, per contro, si propone semmai di accentuare questo processo, con misure di agevolazione per “piccoli imprenditori, commercianti e artigiani che con il loro lavoro danno sostanza ad un tessuto sociale vivace e democratico che eroicamente resiste all’appiattimento economico e culturale che sempre accompagna l’affermarsi dei grandi monopolisti multinazionali” (file:///C:/Users/utente/Downloads/Programma_Salvini.pdf)
3) E’ necessario attrezzarsi per la messa in discussione del libero scambio all’interno dell’eurozona, per evitare la “concorrenza sleale” delle imprese estere che operano sul mercato italiano (file:///C:/Users/utente/Downloads/Programma_Salvini.pdf). Qui si pongono due rilievi critici. In primo luogo, la struttura produttiva italiana è composta prevalentemente da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, poco orientate alle esportazioni (soprattutto nel Mezzogiorno), collocate in settori produttivi maturi: agroalimentare, turismo, beni di lusso. In sostanza, pare di capire che questa tesi non tenga conto del fatto che i problemi dell’economia italiana prima ancora di essere problemi di finanza pubblica sono problemi che attengono alla fragilità della nostra struttura industriale, e che derivano, in ultima analisi, da scelte politiche che risalgono a una stagione precedente l’adozione della moneta unica: in primis, la rinuncia all’attuazione di politiche industriali. A ciò si può aggiungere che l’eventuale attuazione di misure protezionistiche indebolirebbe ulteriormente il già fragile settore produttivo italiano, che già stenta a integrarsi nelle “catene del valore” dell’Eurozona. In secondo luogo, il capitale tedesco non ha molto da perdere dall’adozione di misure protezionistiche in una nuova Europa delle piccole patrie, in quanto una quota consistente delle esportazioni tedesche è già indirizzata altrove: le esportazioni tedesche intra-UE, infatti, si sono ridotte negli ultimi anni, a vantaggio di altre aree, Cina in primis. Stando così le cose, si può ragionevolmente ritenere che la sopravvivenza dell’Unione dipende, in larga misura, dalla capacità dell’industria tedesca di accrescere ulteriormente la propria quota di esportazioni in Paesi extra-UE, e che è semmai la Germania, non l’Italia, a poter ottenere i maggiori vantaggi dall’abbandono dell’euro. Peraltro, come recentemente documentato da Guarascio et al. (https://www.eticaeconomia.it/la-crisi-dellunione-monetaria-e-le-relazioni-centro-periferia-in-europa/) , la quota delle esportazioni tedesche verso l’Europa dell’Est è in continuo aumento.
I sostenitori della convenienza dell’uscita dall’euro riconoscono che il ritorno alla lira genererebbe un significativo aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato. A riguardo, si può ricordare che i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico si sono ridotti a seguito dell’adozione della moneta unica. Lo spread fra titoli di stato italiani e tedeschi, a fine anni novanta, era in media intorno ai 500 punti, raggiungendo il massimo storico (575 punti sui titoli a breve scadenza) nel 2012, per poi ridursi costantemente (grazie alla “protezione” della BCE).
In sostanza, affinché l’operazione abbia successo, occorre immaginare il verificarsi dei seguenti eventi: ritorno alla lira; con possibilità di monetizzare il debito; con politiche fiscali espansive (e tassazione regressiva); con adozione di misure protezionistiche (in particolare, sanzioni alle delocalizzazioni); con svalutazione della nuova lira e aumento delle esportazioni; in assenza di attacchi speculativi. Anche ammettendo la riuscita dell’operazione, vi sono almeno due ragioni per ritenerla peggiorativa rispetto alla condizione attuale. In primo luogo, le imprese italiane che operano sul mercato interno sono, nella gran parte dei casi, imprese di piccole dimensioni con bassa propensione all’innovazione. In secondo luogo, le nostre (poche) imprese esportatrici vendono all’estero prevalentemente per fattori che attengono alla qualità del prodotto e non al prezzo. In più, sul piano empirico, si rileva che i principali Paesi dell’Unione Monetaria Europea, con eccezione della Francia e in parte del Regno Unito, a partire dal 2011 registrano aumenti del saldo della bilancia commerciale in rapporto al Pil. Ciò vale anche per l’Italia, ma con effetti sul tasso di crescita pressoché insignificanti (il miglior risultato ottenuto dal 2011 al 2016 è un tasso di crescita dell’1%) e comunque in assenza di apprezzabili incrementi del tasso di occupazione (che, pur a fronte di incrementi di esportazioni è semmai aumentato, passando dall’8.3% dell’agosto 2011 all’11.2% dell’agosto 2017). In tal senso, non vi è ragionevolmente da attendersi che l’economia italiana recuperi un sentiero di crescita a partire da questa struttura produttiva. Al recupero della ‘sovranità’ monetaria (così come invocata dalla Lega) occorrerebbe semmai contrapporre il recupero di quella che si potrebbe definire la sovranità tecnologica, ovvero la limitazione della dipendenza dell’economia italiana da innovazioni prodotte altrove.
[“Micromega” online del 20 febbraio 2018. L’articolo è un ampliamento e una rielaborazione dell’articolo pubblicato sul “Nuovo Quotidiano di Puglia” il 7 febbraio 2018 e riprodotto in questo sito.]