di Rosario Coluccia
La p. 4 del «Messaggero» di giovedì 1 febbraio presenta una lista di candidature femminili al parlamento che rischiano di essere escluse per difetti burocratici o formali. Di questi non mi occupo, né della decisione di chi ammettere e chi respingere, non interessano questa rubrica che tratta di lingua. Leggo invece alcune didascalie che corredano le foto delle candidate a rischio di esclusione. «Renata Polverini. L’ex governatrice della Regione Lazio (ed ex segretario dell’Ugl) è stata eletta alla Camera con il Pdl nel 2013. Candidata nel Lazio»; «Valentina Aprea. Sottosegretaria nel governo Berlusconi II, è assessore all’Istruzione in Lombardia. Candidata nella stessa regione alla Camera». Osservate la distribuzione di alcuni sostantivi, a volte al femminile a volte al maschile, anche in stretta successione: «Polverini … governatrice … segretario»; «Aprea … sottosegretaria…assessore». E poi, in questi stelloncini e negli altri affiancati: «candidata», sempre al femminile.
Non si tratta di errori o di sviste, i nomi che indicano cariche pubbliche o di alto livello ricoperte da donne oscillano nella lingua che usiamo tutti i giorni e anche nei giornali, in radio, in televisione, in rete. Il fenomeno si è intensificato in particolare dopo le ultime elezioni comunali che hanno visto prevalere, tra l’altro, Virginia Raggi a Roma e Chiara Appendino a Torino, l’una e l’altra etichettate a volte con l’appellativo «sindaca» a volte con il concorrente «sindaco». Le oscillazioni coinvolgono altre parole riferite a donne che ricoprono incarichi importanti o svolgono funzioni elevate, con un tasso di variazione molto forte, che può lasciare incerti i parlanti. Ne hanno scritto, tra gli altri, Cecilia Robustelli, Yorick Gomez Gane, Giuseppe Zarra e Claudio Marazzini in pubblicazioni curate dall’Accademia della Crusca e Salvatore Sgroi in un articolo apparso in una miscellanea allestita (da Francesca De Blasi, Vito Castrignanò e Marco Maggiore) per festeggiare un professore che ha ricevuto recentemente il titolo di emerito.
Faccio alcuni casi concreti. Con riferimento sempre a persona di sesso femminile trovo attestate le seguenti forme: il Sindaco, la Sindaco, la Sindaca; il Ministro, la Ministro, la Ministra; il Presidente, la Presidente, la Presidentessa; il Rettore, la Rettore, la Rettrice; il magistrato, la magistrato, la magistrata; il Direttore, la Direttrice; il Segretario, la Segretaria; ecc.
La preferenza a volte viene dichiarata o richiesta dalle stesse interessate. Ecco alcune linguiste. Anna M. Thornton, appena eletta al vertice della «Società di Linguistica Italiana»: «mi è stato chiesto se avrei voluto essere chiamata “il presidente” o “la presidentessa”: ebbene, né l’uno né l’altro, vorrei essere chiamata “la presidente”». Nel sito www.accademiadellacrusca.it si legge: «Nicoletta Maraschio […] nel 2003 è stata eletta direttrice del Centro di eccellenza dell’Ateneo fiorentino […] Attualmente è professoressa onoraria dell’Ateneo fiorentino e Presidente onoraria dell’Accademia della Crusca». E nel sito www.unior.it: «Elda Morlicchio è professore ordinario di Lingua e linguistica tedesca. È stata eletta Rettrice dell’Università L’Orientale per il sessennio accademico 2014-2020». E dunque. L’orientamento prevalente è per la declinazione femminile delle cariche, pur se la rettrice Morlicchio preferisce per sé l’etichetta di «professore ordinario» a quella, possibile, di «professoressa ordinaria».
Ed ecco alcune politiche. Laura Boldrini nel sito del Parlamento si definisce «la presidente» della Camera. Un suo ordine di servizio prevede, tra l’altro, l’adozione di un linguaggio rispettoso delle differenze di genere e i tesserini delle dipendenti della Camera declinano la mansione secondo il genere femminile: «consigliera», «bibliotecaria», «addetta stampa» «segretaria parlamentare», ecc. Si autodefinisce ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, che per questo è stata criticata pubblicamente da Giorgio Napolitano, Presidente emerito della Repubblica: «Valeria non si dorrà se insisto in una licenza che mi sono preso da molto tempo, quella di reagire alla trasformazione di dignitosi vocaboli della lingua italiana nell’orribile appellativo di ministra o in quello abominevole di sindaca». Un applauso fragoroso ha accolto le sue parole, evidentemente condivise da uomini e donne di varia cultura e ideologia.
Per Massimo Sgrelli, ex capo del cerimoniale della Presidenza del Consiglio dei ministri, volgere al femminile le cariche pubbliche con desinenza maschile è una decisione incostituzionale: «viola la neutralità delle definizioni disposte dalla legge» e «produce effetti dannosi e lesivi della dignità della donna, perché […] appare un accomodamento sopravvenuto, teso a sottolineare che la carica è ricoperta da una donna, quasi fosse un evento raro se non anomalo». Non tocco le argomentazioni di natura giuridica, non sono competente. Altri collaboratori di «Nuovo Quotidiano» potranno dire qualcosa in merito.
Resto nel mio seminato linguistico. Le forme al femminile che abbiamo indicato (e le altre analoghe) rispettano in pieno le regole che presiedono alla formazione delle parole nell’italiano. Il mezzo più comune per differenziare il genere delle persone è la sostituzione della desinenza maschile in -o con quella femminile in -a: figlio ~ figlia, ragazzo ~ ragazza e dunque, analogamente: sindaco ~ sindaca, ministro ~ ministra, magistrato ~ magistrata, ecc. Il suffisso –tore ha il suo corrispettivo femminile in –trice: e dunque cacciatore ~ cacciatrice, pittore ~ pittrice, tessitore ~ tessitrice e analogamente direttore ~ direttrice, governatore ~ governatrice, rettore ~ rettrice. Per molti nomi che escono in -e la distinzione è data dall’articolo: il nipote ~ la nipote. Ma non mancano casi in cui l’uscita in -e maschile viene affiancata da quella in -essa femminile: e dunque, accanto a conte ~ contessa, principe ~ principessa, si ha la coppia professore ~ professoressa. L’uscita in -ente (originariamente participio presente delle coniugazioni in -ere/-ire: bollente, pungente, ridente) distingue il genere mediante l’articolo: il dirigente ~ la dirigente, il presidente ~ la presidente (in questo caso si può anche ricorrere al suffisso -essa: la presidentessa). Analogamente per l’uscita in -ante (participio presente della prima coniugazione: bagnante, negoziante), e quindi il cantante ~ la cantante (ma Carmen Consoli va oltre, per sé preferisce la cantantessa, le piace molto quel vocabolo nato per errore, assicura la rete).
Spesso il rifiuto per alcune parole femminili viene motivato con un fatto di gusto («ministra, sindaca, magistrata che brutte parole, suonano male!»). A volte si rifiuta segretaria (per definire ‘chi riveste funzioni direttive in un organo pubblico, in un partito, in un sindacato’) per evitare l’equivoco con un diverso significato della stessa parola (‘chi svolge incarichi di collaborazione di tipo amministrativo o contabile’). Ma anche il maschile segretario ha un doppio significato, esiste il segretario di partito e il segretario del notaio. Per indicare ‘donna che esercita l’avvocatura’ va preferito avvocatessa ad avvocata, che è attributo della Madonna, sulla scorta del Salve Regina.
Per concludere. Perché certe parole sarebbero «orribili» e «abominevoli» (come dice il Presidente emerito Napolitano) se declinate al femminile? Troviamo normali termini come maestra, parrucchiera, operaia, sarta, lavoratrice, ecc. Non dovrebbe essere lo stesso per sindaca, ministra, segretaria (di partito e di sindacato), rettrice, ecc.?
Ecco la risposta. La variabilità che oggi si manifesta nella lingua per certe professioni o certe cariche rispecchia mutamenti in atto nella società: alle donne si aprono professioni di prestigio e ruoli importanti che fino a non molti anni fa erano quasi esclusivamente maschili. Vengono a galla questioni delicate, che riguardano non le parole ma i rapporti tra le persone. La lingua consente la declinazione al femminile, quelle parole non sono scorrette né “suonano male”. Se le accetteremo, se prevarranno, dipende solo dalle nostre scelte. È un fatto ideologico, non linguistico.
Padroni della lingua siamo tutti noi, siamo noi che decidiamo. In un dialogo famoso ce lo ricorda Alice, la ragazzina intelligente che vivacizza «Il paese delle meraviglie».
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 18 febbraio 2018]