di Antonio Prete
Leopardi non fu per Luporini, come accadde per altri filosofi, il paese luminoso di un’escursione al di fuori delle terre disciplinate della filosofia, fu la figura vivente alla quale rivolgere una costante interrogazione filosofica, l’interlocutore di una corrispondenza assidua, di una “conversation souveraine”, per dirla con René Char. Decifrare Leopardi – titolo sotto il quale, seguendo le intenzioni dell’autore e la tensione stessa della scrittura, Sergio Landucci ha raccolto l’ultimo puntualissimo diario esegetico di Luporini – decifrare Leopardi è stato per lui un compito necessario, quasi un ascetico esercizio. Ricordo come nelle ultime conversazioni Luporini dava a quel decifrare il senso pieno, e limpido, di un ascolto della scrittura leopardiana, un ascolto libero da sovrapposizioni critiche predefinite, libero da pulsioni di sistemazione dottrinaria.
Era come se volesse replicare, anche autocriticamente, alla sua giovanile postura filosofica che nel Leopardi progressivo, del ’47, aveva raccolto la grande e animatissima tensione conoscitiva del poeta in una formula e aveva per così dire privilegiato il ragionare leopardiano, il suo movimento, la sua forza, separando tuttavia quel ragionare dalle diverse forme linguistiche cui si affidava, dalla tensione poetica animatrice del pensiero, separando insomma la teoresi dal verso. Tornando a Leopardi, si trattava per Luporini di stare nel respiro di quell’ essai, di quel preludio che il poeta stesso nel 1836, rispondendo al giovane francese Lebreton, aveva detto essere stata sua attitudine prima nella scrittura (“je n’ai jamais fait d’ouvrage, j’ai fait seulement des essais en comptant toujours préluder”), dall’altra si trattava di cogliere nello Zibaldone l’energia di un pensiero sempre in movimento e nei Canti la tessitura di un sapere che per sua intima necessità si affidava alla forza e all’invenzione dell’immagine e del ritmo. E quanto alle Operette, occorreva rileggerle non più come stilizzazione letteraria di un pensiero, ma come luogo di un’elaborazione autonoma, anzi come il teatro filosofico dove era messa per così dire in azione la complessa e variegata concezione di un “nichilismo vitalistico” –era questa l’espressione di Luporini. La disposizione alla integrazione di un vecchio discorso, il non arroccarsi nella difesa di un modo interpretativo del passato erano le forme sincere, interrogative, curiose, con le quali Luporini dialogava con i più giovani, in particolare con quelli – era il mio caso – che s’erano mossi, nell’esegesi leopardiana, con sguardi e modi diversi dai suoi, anche per il solo fatto che venivano dopo : dopo il crociano svilimento della filosofia leopardiana, e dopo la svolta critica, negli studi leopardiani, compiuta da Binni, Timpanaro e dallo stesso Luporini, i quali avevano certo dato centralità al pensare leopardiano e avevano da posizioni diverse proposto sì alcune correlazioni di poetica tra lo Zibaldone e i Canti, ma senza indagare sulle forme proprie di un pensiero poetante, e sull’ energia conoscitiva, pensante, di teoresi, propria della poesia. Eppure già il Leopardi progressivo, pur osservato a distanza di molti anni, conservava intatta la sua forza di provocazione teorica e si poneva come un passaggio decisivo nella storia, invero un po’ trascurata, di un’ interrogazione “filosofica” della scrittura leopardiana, una storia che muoveva da Giordani verso Gioberti, da Nietzsche verso Gentile, da Tilgher verso Rensi e verso Amelotti. Ci sono nel Leopardi progressivo del ’47 passaggi classici che sono anche delle linee da cui, ancor oggi, possono muovere nuove ricerche. Ecco alcuni di questi percorsi, che qui provo a enunciare brevemente. La ragione, la natura, l’illusione, il tedio (ma aggiungerei la ricordanza e il desiderio) non come paradigmi statici di un pensiero, ma come figure di una drammaturgia, figure cioè che di volta in volta, nel corso della scrittura, mostrano un aspetto nuovo e diverso, ed espongono reciproche relazioni tra di loro. Il rapporto leopardiano, pur nella sopravvenuta “delusione storica” , con quella che Luporini chiama “democrazia rivoluzionaria”, cioè con quell’aspetto del pensiero illuministico che vedeva il nesso necessario tra uguaglianza e libertà (“La perfetta uguaglianza è la base necessaria della libertà”, leggiamo nello Zibaldone). La centralità, nella mappa leopardiana delle passioni, dell’amor proprio, il quale si modifica, in rapporto alla società, da una parte nell’elemento della virtù, dell’azione eroica, dall’altra nell’egoismo individuale, egoismo che è, in civiltà, sempre più invasivo, sempre più corrosivo dei rapporti. Ancora : l’ ambivalenza con la quale Leopardi osserva la ragione illuministica (“la ragione settecentesca, che egli condanna –scrive Luporini- è anche la ragione che egli ama, l’unica che egli riconosce e riconoscerà per tale”), ed è, secondo Luporini, dal “chiuso di questa ambivalenza” che Leopardi guarderà, con “disperata speranza”, a una “ultafilosofia”. Infine, tra le linee del Leopardi progressivo ancor oggi per così dire sollecitanti, è da ricordare il nesso che secondo Luporini Leopardi sembra istituire tra una metafisica del nulla e le forme vitali dell’esistenza. E proprio questo nesso tra nichilismo e vitalismo, nel quale va compreso il tema della virtù, sarà l’area discorsiva più frequentata dall’ultimo Luporini, sia nei saggi pubblicati su riviste dopo il Leopardi progressivo sia nelle pagine pubblicate postume sotto il titolo Decifrare Leopardi. Nel corso degli anni Ottanta, mi sembra che Luporini abbia cercato di dispiegare, attraverso una decifrazione assidua della scrittura leopardiana, di tutta la scrittura leopardiana -dai Canti allo Zibaldone alle Operette all’ Epistolario e agli altri testi- il senso della frase con la quale si concludeva il suo Leopardi progressivo. In quell’ultima pagina Luporini citava l’affermazione di De Sanctis tratta dal dialogo Schopenhauer e Leopardi : “E se il destino gli avesse prolungato la vita infino al quarantotto, senti che te l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore”. Così Luporini commentava: “Il ’48 avrebbe certamente significato qualcosa, e forse molto, per Leopardi, ma non sappiamo se il ’48 dei liberali, dei moderati o dei ‘democratici’ italiani. Egli si trovava su un’onda più lunga”. Su un’onda più lunga : tornare a Leopardi ha voluto dire per Luporini mostrare tutti i riverberi possibili – non solo politici – di quell’onda, mostrare insomma la feconda inattualità e persino la dimensione di annuncio, di presagio, di interrogazione della nostra epoca presente nel pensiero leopardiano. Le premesse, o aggiunte, le annotazioni apposte alle edizioni successive del Leopardi progressivo , i tre saggi annessi nell’edizione del 1993 e tutto il lavoro di lettura dei Canti -in particolare del Bruto minore, dell’ Inno ai Patriarchi, dell’ Infinito, del ciclo di Aspasia, delle Sepolcrali – affidato ai quaderni, costituiscono insieme una testimonianza di fedeltà interpretativa e un esempio di esegesi in costante stato di prova, di ricerca, di apertura. E’ come se Leopardi trasmettesse al suo interprete l’abito di un pensare in certo senso nomade, fatto di ritorni, riprese, assaggi, ma l’interprete ci mettesse in più una tensione – questa diversa dalla tensione propriamente leopardiana – verso la costruzione, verso un ordine interpretativo unitario. Ma se sui quaderni ultimi che annotavano quasi diaristicamente l’esercizio di lettura e decifrazione dei Canti si possono scorgere le stazioni di un cammino interpretativo in fieri, nei saggi leopardiani via via resi pubblici dall’autore su riviste o in Atti di Convegni (per esempio lo scritto sul Bruto di Leopardi che apparve su “Micromega” nel 1990) si possono scorgere con chiarezza quelli che per Luporini sono i luoghi precipui, in certo senso i passaggi forti, di un pensiero che continua a interpellarci e provocarci. Tra questi passaggi una topica delle passioni e del sentire, il tema della virtù, la questione del nichilismo e, costante testo di interrogazione, l’idillio L’infinito, con i suoi fondali teorici come si mostrano nello Zibaldone. Anche per questi temi non vorrei qui riproporre le diverse stazioni dell’ itinerario, ma, con molta brevità, solo quel che ancor oggi mi appare singolarmente propositivo, insomma quel che, certo dal mio punto di vista, è elemento di un dialogo ancora possibile (un dialogo che, per quanto mi riguarda, nel passato aveva avuto in concreto più di un’occasione : ma una mia ultima lettera proprio sulla interpretazione che Luporini dava dell’ Infinito purtroppo non poté avere risposta). Anzitutto, dunque, il sentire. Della sua complessa cartografia Luporini ha sottolineato con forza, come pochi critici hanno fatto, da una parte la centralità in Leopardi del sentimento dell’ amore e di quel sentimento ha seguito, fino al canto A se stesso, le diverse modulazioni, dall’altra ha mostrato come l’amore, ma più in generale il sentimento , ha per oggetto anche la nullità delle cose, e si svolge come “irriducibile forma di conoscenza emozionale del nulla”. Sull’idea leopardiana di virtù Luporini ha seguito il passaggio dal momento mitopoietico- le virtù antiche, repubblicane- all’orizzonte arido, disincantato del moderno “deserto della vita”, fino alla “renitenza al fato” di cui il fiore della ginestra è una figura, estrema reincarnazione della virtù. Nel saggio specifico dedicato alla figura del Bruto leopardiano Luporini, attraverso l’analisi dei vari ritorni sul tema, ripercorre i luoghi più propri, insomma quelle che possiamo dire ferite del pensiero leopardiano, come la necessità della condizione infelice, la vanità della sapienza e della virtù stessa, la vanità del desiderio di gloria. Insomma il Bruto leopardiano appare a Luporini come “ il primo eroe nichilistico della poesia e letterature moderne”. E a proposito del nichilismo, anche Luporini ha partecipato, con un suo peculiare timbro e in modo non perentorio e formulistico, alla ricostruzione del percorso nichilista del pensiero leopardiano come s’è svolto nella critica italiana tra gli anni Ottanta e Novanta. Così ha seguito il formarsi in Leopardi, a partire dal riconoscimento del tragico proprio all’esistenza umana, di una sorta di ontologia negativa, e di questa ontologia ha dato una lettura non statica e neppure religiosa (cosa che invece è accaduta presso altri filosofi), ma in dialogo con elementi vitali, perché fondata sulla fisicità e singolarità del soggetto – il “sentimento del nulla”- e fondata anche sul confronto con una cosmologia abissale, enigmatica, insomma con quell’ “arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale” descritto da Leopardi nel finale del Cantico del gallo silvestre.
Nello studio e nell’esegesi dell’Infinito leopardiano Luporini ha visto trascorrere le forme intensissime di un’immaginazione che allo stesso tempo si fa pensiero comparante. Tornando più volte sull’idillio ha sottolineato l’asimmetria esistente tra la prima parte, dove è tracciata una rappresentazione dello spazio, e la seconda, dove si rappresenta il tempo. Mentre lo spazio è declinato nelle sue forme, nei suoi effetti, il tempo invece non è nominato se non nella sua forma assoluta e nell’ orizzonte che lo comprende e trascende, l’ “eterno” (“e mi sovvien l’eterno”). Entro questo orizzonte appaiono poi le determinazioni temporali : “le morte stagioni”, “la presente e viva”. “Nessuna dinamica temporale –scrive Luporini – quale si troverà in altri canti di Leopardi (ad esempio La sera del dì di festa). E nessuna intuizione o nozione del tempo (a differenza di quanto era avvenuto per lo spazio), bensì la sua evocazione secondo un’esperienza fissata in termini oppositivi tra loro non mediati”. E’ questa non ricomposizione, è questa frattura, che a Luporini pare la ragione teoretica del naufragio. Questa opposizione, potremmo aggiungere, è anche l’opposizione tra uno spazio la cui rappresentazione tenta di nominare l’estremo, l’eccesso –interminati, sovrumani, profondissima – e un tempo che ha in sé l’inerte, il vuoto, il già stato, il finito, il mai più (è per il vuoto di questo tempo cenere, di questa amara irreversibilità, appunto, replicavo a Luporini, che il tempo non poteva essere declinato nelle stesse forme dello spazio). Il naufragio, dice Luporini, è naufragio dell’io , dell’ “io esistenziale che si era impegnato totalmente nell’esperienza dell’infinitezza”. Aver riportato l’attenzione sulla presenza dell’io –direi del corpo, dei sensi- è un passaggio importante. E’ insomma ancora l’io, dice Luporini, che ci dà notizia del naufragio. La parola immensità , sopravvenuta alla variante infinità, secondo Luporini introduce qualcosa di positivo : l’immensità non è astratta, comporta infatti la metafora del mare, e perché non astratta permette al soggetto di avvertire un godimento (“m’è dolce”), di avvertire un godimento, dice Luporini, “nel punto stesso dell’annichilamento”. Insomma questa dolcezza nel naufragio è data secondo Luporini dalla presenza, ancora, di quel desiderio d’infinito – dove c’è desiderio c’è soggetto- che non è mai nominato, ma soltanto in parte iscritto nel titolo, e che tuttavia trascorre in tutto l’idillio. Mi chiedo quanto su di me, che tornavo per la terza volta a interpretare, nel ’98, l’idillio leopardiano, quanto abbia influito la lettura che Luporini fa di quel “m’è dolce”, del suo legame col desiderio. Quel m’è dolce a me sembra riflettere, quasi sostegno di una stessa arcata, il “mi fu” del primo verso: termine di un’odissea che fa esperienza dell’impossibilità di dire l’infinito, dell’impossibilità che la poesia, e il pensiero, dicano l’infinito, e tuttavia, nel naufragio del pensiero e della poesia stessa, il sentire, la corporeità del sentire, sopravvengono come una zattera. La dolcezza è data da questo soccorso che allo stesso tempo è un punto estremo da cui osservare il limite del pensiero e della lingua poetica stessa, soglia di una spensieratezza che è leggerezza. Non estasi, ma ancora sentimento. L’infinito è soltanto desiderio d’infinito, mi sarebbe piaciuto replicare a Luporini, restituendo in parte un passaggio della sua stessa esegesi.
Un’ultima osservazione relativa alle pagine raccolte in Decifrare Leopardi sotto il titolo Poesia e filosofia, pagine che ricostruiscono con accuratissimi prelievi dallo Zibaldone il movimento del pensiero leopardiano intorno al nesso poesia e filosofia. Queste pagine, che sono tra le pochissime, nella critica leopardiana, che ricompongono con ricchezza d’argomentazione e precisione un cammino, se hanno il limite forse di una certa volontà ricompositiva, di una ricerca dell’ordine e del disegno unitario, laddove i tempi del pensiero leopardiano conoscono balzi, riprese, integrazioni, hanno il grande merito di mostrare alcuni nodi della relazione leopardiana poesia-filosofia fino allora trascurati e molto rilevanti. Tra questi, l’importanza della riflessione sulla natura, sul poetico della natura -trascurato secondo Leopardi dalla filosofia moderna- per definire l’atteggiamento e il compito stesso del poeta e del filosofo; l’ asimmetria tra il poeta, o meglio tra il poeta lirico, e il filosofo: il primo è di per sé, se è vero poeta, anche filosofo – la poesia è anche conoscenza filosofica-, il secondo, il filosofo, può essere grande filosofo solo se comprende in sé il poeta, se si rapporta col poeta : “E’ del tutto indispensabile –ecco quel che dice Leopardi del filosofo- che un tal uomo sia sommo e perfetto poeta; ma non già per ragionar da poeta; anzi per esaminare da freddissimo ragionatore e calcolatore ciò che il solo ardentissimo poeta può conoscere” (Zib., 1839). E’ questa la premessa, secondo Luporini, a quel progetto, o sogno, di una “ultrafilosofia” che è una sola volta pronunciata da Leopardi, ma che trascorre come tensione conoscitiva in tutta la sua scrittura. Ed è con questa citazione leopardiana, la cui forza interrogante e la cui utopica urgenza Luporini ha più volte richiamato e, se fosse tra noi, sono convinto richiamerebbe ancora oggi, che voglio concludere: “Perciò la nostra rigenerazione dipende da una, per così dire, ultrafilosofia, che conoscendo l’intiero e l’intimo delle cose, ci ravvicini alla natura” (Zibaldone. 7 giugno 1820).
[Normale di Pisa, 9 dicembre 2009]