Di mestiere faccio il linguista 5. Lingua e dialetto

di Rosario Coluccia

Il secondo fascicolo 2017 della rivista «La Crusca per voi. Foglio dell’Accademia della Crusca dedicato alle scuole e agli amatori della lingua» tratta il tema I dialetti d’Italia, «che da secoli convivono con la lingua nazionale», con rapporti ed influenze reciproci (come spiega Paolo D’Achille, in una nota introduttiva al fascicolo, che contiene inoltre interventi di Giovanni Ruffino, di Michele Loporcaro, di Nicola De Blasi). Il rapporto tra italiano e dialetto si dipana nelle due direzioni. Per un verso parole e tratti specifici del dialetto vengono progressivamente sostituiti dai corrispondenti italiani; e, nello stesso tempo, molti elementi di origine dialettale allargano il proprio raggio di diffusione e dal ristretto ambito locale lentamente si espandono fino a impiantarsi nell’italiano.

Il travaso dall’italiano verso i dialetti e viceversa avviene perché tutti siamo, più o meno intensamente, bilingui. In altre parole, tutti conosciamo e usiamo (in misura variabile) sia la lingua che almeno un dialetto. Dal 1974 due istituti di indagine statistico-demoscopica, la Doxa e l’Istat, rilevano il comportamento linguistico dei parlanti misurando le percentuali d’uso dell’italiano e dei vari dialetti, distinguendo a seconda che si comunichi in famiglia, con amici, con estranei (considerando inoltre le differenze per fascia sociale e per età).

Se ci riferiamo all’ambito domestico (quello che comprensibilmente si rivela più favorevole alla dialettofonia), nel 1995 coloro che parlavano con i familiari solo o prevalentemente in dialetto erano il 23,7% (una percentuale relativamente ampia), ma si riducono al 9% nel 2012. Nello stesso arco di tempo, la percentuale di coloro che parlavano in famiglia solo o prevalentemente in italiano cresce dal 43,2% del 1995 al 53,1% del 2012. Un andamento simile mostrano le percentuali relative agli usi fuori casa, con amici e con estranei. Nel primo caso (interazioni con amici) coloro che parlavano sempre o più spesso in dialetto erano il 16,4% nell’anno iniziale dell’arco di tempo considerato, scende al 9% alla fine; nello stesso periodo, la percentuale degli italofoni più o meno esclusivi invece aumenta dal 46,1% al 56,4%. Nel secondo caso (interazioni con estranei) i prevalenti dialettofoni erano il 6,3% nel 1995 e si riducono all’1,8 nel 2012; i prevalenti italofoni erano il 71,4% e aumentano all’84,8% nel 2012. La percentuale di coloro che si esprimono alternativamente in italiano e in dialetto, si aggira intorno al 30% (con oscillazioni non particolarmente significative) se si parla con familiari e con amici, cala piuttosto vistosamente quando ci si rivolge ad estranei, dal 19,1% del 1995 al 10,7 del 2012. Ci sono differenze se si guarda alla condizione sociale e professionale: ricorrono con maggiore intensità al dialetto pensionati, casalinghe e operai rispetto a dirigenti, professionisti e lavoratori in proprio.

I numeri aiutano a rispondere con dati concreti alle domande allarmate che spesso mi sento rivolgere dai lettori. Il calo dei dialetti, che ciascuno di noi constata anche per esperienza diretta, è un processo inarrestabile e con un esito segnato? I dialetti, testimoni preziosi della nostra tradizione, usciranno dall’uso e sono destinati a sparire? Non è così, la società italiana lancia segnali diversi. Da un lato, la percentuale di coloro che si dichiarano rigidamente dialettofoni, cioè affermano di usare solo il dialetto locale nelle diverse situazioni comunicative, risulta negli anni progressivamente in calo. Ma a questo si affianca l’ottima tenuta di quanti affermano di usare sia l’italiano che il dialetto con familiari e amici, in quei contesti il dialetto resta vitale e funzionale.

Nel complesso, possiamo dirci ottimisti. I dialetti non sono in pericolo di estinzione. La plurisecolare convivenza con l’italiano non comporta che essi debbano soccombere, sottoposti alla pressione della lingua più forte. Quasi paradossalmente, il possesso dell’italiano da parte di fasce sempre più ampie di parlanti (che nel nostro paese si è intensificato nella seconda metà del Novecento), ha costituito una difesa implicita dei dialetti, non più visti come un elemento di inferiorità da cui liberarsi. Proprio l’aumentata sicurezza linguistica collettiva legata al crescente possesso della lingua nazionale ha impedito ai dialetti di fare una brutta fine. Oggi che finalmente siamo in grado di esprimerci correntemente in italiano (sia pure a volte in forme un po’ claudicanti) il dialetto non fa più paura a nessuno e non si limita a incantare solo i nostalgici dei tempi andati; al contrario, affascina anche i giovani per la sua vivacità comunicativa. Sono sempre più numerosi i casi di rinascita del dialetto: «nella pubblicità, nelle insegne dei negozi, bar e ristoranti, nel Web, nei fumetti, nella canzone, nelle radio e televisioni locali, […] il dialetto viene percepito non come reperto museizzato, ma per i valori simbolico-ideologici e ludico-espressivi di cui è portatore, oltre che come arricchimento espressivo» (Ruffino).

Esistono differenze. Non tutte le varietà dialettali hanno la medesima forza di irradiazione, alcuni dialetti sono capaci di trasmettere con una certa intensità le loro forme alla lingua nazionale, altri appaiono meno forti per ragioni di carattere storico, sociale e culturale. Una definizione scherzosa ma efficace proclama che «il dialetto è una lingua che non ha un esercito», cioè occupa una posizione soggiacente rispetto alla varietà di statuto più alto. Soggiacente non vuol dire di livello qualitativamente inferiore. Il dialetto, mezzo idoneo per esprimersi in famiglia e nella comunità primaria, è dotato di qualità affettive ed espressive intrinseche; ma per comunicare in contesti formali e per diffondere cultura e scienza non esistono alternative all’italiano.

Spesso assistiamo a esagerate rivendicazioni di identità, espresse con formule del tipo: «la mia parlata non è un dialetto, è una lingua» (come se la parola «dialetto» contenesse un marchio di inferiorità). Ma neanche nei sogni di un municipalista ad oltranza si possono considerare lingue le varietà locali. Vanno perciò respinte le posizioni di coloro che, in particolare al nord, pretendono di elevare a lingua le parlate locali (“lingua padana”, “lingua piemontese”, “lingua bergamasca”, ecc.), estirpando dall’etichetta, non casualmente, il termine “dialetto”.

Ho fatto una verifica in rete. Scientificamente fuorvianti possono rivelarsi perfino alcune iniziative messe in atto da istituzioni importanti, se non se ne delimitano in maniera rigorosa le finalità. Esiste una legge della Regione Lombardia che punta alla «salvaguardia e valorizzazione della lingua lombarda, componente essenziale dell’identità sociale e storica del nostro territorio, che si esprime nella grande varietà delle singole voci locali. Queste sono, per la loro originalità e peculiarità, tratti distintivi delle comunità lombarde ed è importante che, anche attraverso azioni sperimentali, ne siano favorite la conoscenza, lo studio, la valorizzazione e ne sia garantita la trasmissione alle future generazioni». Una legge della Regione Veneto «si pone quali finalità la tutela, la valorizzazione e la promozione del patrimonio linguistico veneto». La legge si basa sull’assunto che il patrimonio linguistico veneto rappresenta una componente essenziale dell’identità culturale, sociale, storica e civile della Regione e che «la sua tutela e valorizzazione costituisce questione centrale per lo sviluppo dell’autonomia regionale».

Forse il nodo della questione è nelle ultime due parole, «autonomia regionale». Certo è opportuno che il patrimonio dialettale della nostra nazione sia conosciuto e conservato, anche amato. Ma tale apprezzamento non comporta nessuna contrapposizione alla lingua, nessun dialetto è minacciato e oppresso da una politica centralista, che pretende d’imporre l’italiano a chi non lo parla o si rifiuta di parlarlo per motivi (pseudo-)ideologici. Né la rivendicazione di dignità linguistica può assumere finalità politiche.

Per fortuna siamo un paese unito, nel quale la lingua rappresenta un fattore portante dell’identità nazionale. L’unità dello stato, faticosamente raggiunta (nel 2011 abbiamo celebrato i 150 anni dell’unità d’Italia), non va messa in crisi da iniziative che potrebbero diventare scorciatoie dissimulate per un irredentismo localistico fuori luogo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 11 febbraio 2018]

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