Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) I

di Gianluca Virgilio

Gli antichi pensavano che all’alba i sogni fossero veritieri. All’alba spesso mi comincio a svegliare, ma rimango a letto nel dormiveglia, rimuginando pensieri che sul momento mi appaiono nitidi e puri come sogni, per poi intorbidarsi quando suona la sveglia. Ma se ho l’accortezza di prendere subito carta e penna e di fissarne il ricordo, poi ho qualche speranza di ritornare su quei pensieri e magari di pensarli più a fondo, così da ritrovare la loro nitidezza anche dopo molte ore. Dico questo perché si sappia come è nato questo Zibaldone galatinese.

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Non c’è azione umana che non ricada sotto l’occhio vigile di una telecamera. La vigilanza porta con sé il controllo del comportamento degli uomini. È azzardato dire che l’occhio della telecamera ha una funzione morale, se si intenda con morale l’insieme delle norme che disciplinano il comportamento degli uomini? È come se la telecamera dicesse all’uomo della strada: “Io vedo tutte le tue azioni. Pertanto, comportati bene, rispetta i principi morali che regolano la vita civile, ed io mi limiterò a guardare e non avrò nulla da obbiettare; altrimenti…”. L’occhio della telecamera come l’occhio di Dio. In effetti, la telecamera ha in parte ereditato la funzione del medievale occhio di Dio, che guardava gli uomini, entrando fin nelle loro coscienze. La telecamera non arriva a tanto – per le coscienze ci sono oggi ben altri metodi di controllo -, ma è certo che col passar del tempo e l’evolvere della tecnica sono cambiate le forme, ma l’intensità del controllo sociale è rimasto il medesimo.

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 Dio considerato come un’immaginazione collettiva, un’immaginazione fatta di racconti elaborati da centinaia di generazioni per migliaia di anni. All’io riconosciamo l’umiltà di intendere la sua piccolezza e mortalità; all’opposto, abbiamo la superbia di immaginare un essere grandissimo, causa sui, in grado di compensare l’insufficienza dell’io. Io e Dio: in fondo, solo la consonante d differenzia l’io dal Dio, ma è una d molto significativa, poiché essa dice il tragico stato dell’uomo e il suo perenne tentativo di sottrarvisi. Una d eufonica ed eufemistica che nell’uomo scopre Dio – la d consuona con l’io – e trasforma un essere mortale e infelice in un essere immortale e beato. L’uomo è una figura tragica e la sua tragedia consiste nell’essere a tempo, a scadenza. L’uomo sa che il suo destino è – un giorno, non sa quando – di dover morire. Questo limite scatena l’immaginazione collettiva, proprio come la siepe ne L’infinito suscita quella di Leopardi. L’immaginazione collettiva reca con sé l’illusione della verità. Gli uomini temono, immaginano e credono tutti insieme, o quasi.  Se folle infinite di persone per innumerevoli generazioni hanno immaginato e immaginano che Iddio esista e ci attenda in un oltretomba che si sottrarrà al destino tragico della morte, chi sono io per dire che ciò non corrisponda a verità? Sono solo un io senza la consonante d.

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“Per i posteri uno dei caratteri del nostro secolo sarà la totale assenza del coraggio necessario per non essere come tutti gli altri. Bisogna convenire che quest’idea è la grande macchina della civiltà, perché porta tutti gli uomini di uno stesso periodo pressappoco allo stesso livello, e sopprime gli uomini straordinari, fra i quali alcuni meritano il nome di geni. L’effetto dell’idea livellatrice del nostro secolo va ancora più lontano: impedisce di osare e di lavorare a pochi uomini fuori dal comune, a cui tuttavia non può impedire di nascere. E vediamo che per tutta la vita essi stanno sulla riva in procinto di buttarsi in acqua, ma rimangono lì, fermi, e giudicano di là i nuotatori, che spesso valgono meno di loro.” (Stendhal, Passeggiate romane, Garzanti, Milano 2004, p. 256).

Queste parole ci parlano ancora. Non è oggi del tutto assente dai contemporanei  il “coraggio necessario per non essere come tutti gli altri”? Il pensiero di Stendhal mi fa pensare a Pasolini e alle idee sulla società del suo tempo (si ricordi che Pasolini è morto nel 1975), ch’egli riassumeva nel concetto di omologazione. La società capitalistica e consumistica omologa gli uomini, rendendoli tutti eguali, ma d’una eguaglianza al ribasso, cioè priva di libertà e di fraternità, giusto per richiamarci agli ideali della rivoluzione francese; sicché la “grande macchina della civiltà”, di cui parla Stendhal, ci sembra l’antenata ottocentesca della società consumistica tanto deprecata da Pasolini; e così pure il concetto di omologazione, la reincarnazione novecentesca dell’ “idea livellatrice del secolo nostro”. L’idea del genio e dell’uomo straordinario in qualche misura vive ancora in Pasolini,  in conseguenza della sovraesposizione mediatica della sua persona. Significativo l’atteggiamento che Stendhal riserva agli “uomini fuori dal comune”: “per tutta la vita essi stanno sulla riva in procinto di buttarsi in acqua, ma rimangono là, fermi, e giudicano di là i nuotatori, che spesso valgono meno di loro”.  Oggi si direbbe che costoro siano dei rinunciatari, ma in realtà essi assolvono ad un’altra funzione, che è quella dei giudici (“giudicano di là i nuotatori…), da una posizione distaccata, osservano e giudicano; e non lo fanno certo per presunzione o superbia, ma perché essi non possono tuffasi in acqua, non possono competere, neppure con  coloro  “che spesso valgono meno di loro”, essendo incapaci di “essere come tutti gli altri”. È una questione di coraggio, non di neghittosità. Queste persone non sono inutili, sono i superstiti, quelle che “la grande macchina della civiltà” non è riuscita a livellare del tutto. A loro è assegnato il giudizio e senza di essi, dunque, l’umanità non avrebbe coscienza del suo stato. Essi sono i soli testimoni veridici del nostro tempo.

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Scrive Antonio Prete ne Il cielo nascosto, Bollati Boringhieri, Torino 2016, pp. 190-191: “Mi accade spesso di avvertire nella voce “tristezza” l’ombra di un significato che è presente nei dialetti della mia terra, nei quali tristu segnala, con qualche indulgenza, quella “cattiveria” infantile che è solo una vivace insubordinazione. Alleggerimento domestico dell’italiano “tristo” che ha invece una sua densa gravità.”

Così Antonio Prete mi ha fatto ricordare di quand’ero ragazzino e i miei parenti mi definivano tristu. Ma comu è tristu stu vagnone, sentivo ripetere ogniqualvolta mi sorprendevano mentre architettavo qualche marachella. Ora, io penso di me stesso di essere stato sempre tristu, e di esserlo ancora, proprio nei termini ottimamente descritti da Prete. Anche questa rubrica, per chi sappia ben leggerla, è il frutto del mio essere tristu.

(continua)

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